Furono cacciati dalla Corona di Spagna nel 1492, ma molti rimasero e si convertirono (o finsero di farlo). Ora, dopo tanti anni in usa, un uomo è tornato. È il primo rabbino dell’era moderna.
Paolo Casicci – Venerdì di Repubblica
Sul tavolo del suo studio, non lontano dall’antica Giudecca di Ortigia, ha squadernato un’enorme mappa della Sicilia. Un Risiko della spiritualità? «Macché» sorride Isaac Ben Avraham, al secolo Stefano Di Mauro. «Dopo trent’anni in America, è il modo più facile per ritrovare le città in cui mi invitano». E di inviti, Stefano Isaac ne ha già collezionati a decine. Quanto basta perché il ritorno a casa di questo medico settantaduenne somigli a una reconquista. La riconquista ebraica della Sicilia.
Cappotto scuro e barba, bianchissima, d’ordinanza, Di Mauro, partito dall’Italia nel 1981 e diventato rabbino (ortodosso) a Miami dieci anni più tardi, è la prima guida spirituale degli ebrei di Sicilia dal 1492. Da quando, cioè, la cacciata dei giudei dal Regno d’Aragona li costrinse a lasciare l’isola. Che, da allora, non ha più avuto una comunità ebraica. Non per, questo, però, gli ebrei sono spariti. Molti, dopo l’editto aragonese, sono rimasti. E. pur convertiti ufficialmente al cristianesimo, hanno continuato a praticare l’ebraismo di nascosto. Il che spiega le forme di sincretismo sopravvissute, anche al fascismo, tra i discendenti – spesso ignari – dei conversos. «A Siracusa conosco famiglie che ogni venerdi accendono le candele» racconta il rabbino: «Praticamente, uno Shabbat. Ma senza la coscienza di compiere un rito ebraico».
Questa coscienza, negli ultimi tempi, ha iniziato invece ad affiorare, e per Di Mauro, tornato in Sicilia per un desiderio della moglie, americana, che l’ha scoperta nel 2005 in viaggio di nozze, non è stato difficile creare una comunità. «In molti, qui, avevano già riconquistato l’ebraismo prima che arrivassi». Un fiume carsico, dice «che io mi sono limitato a indirizzare, organizzando il culto». II risultato è la prima sinagoga aperta in Sicilia dopo cinquecento anni. E la neonata Federazione degli ebrei del Mediterraneo, che intende dialogare con l’Unione delle comunità ebraiche senza però dipenderne. Il segno più concreto di questa autonomia sarà la richiesta di un’intesa con lo Stato. E, soprattutto, le prime conversioni. Di Mauro ne celebrerà una ventina entro l’anno. Per l’occasione, sta allestendo nella sua campagna a Cassibile la vasca d’acqua piovana – la mikva – prescritta dal rito. «Veranno da tutta la Sicilia e dalla Calabria. Per loro sarà un ritorno alle radici. Quello che molte comunità italiane hanno negato loro, finora».
L’autonomia dall’Ucei – oltre a buone referenze nel rabbinato di Gerusalemme – contraddistingue anche un’altra neocomunità del Sud, quella calabrese. A Serrastretta, quattromila anime in provincia di Catanzaro, Barbara Aiello, prima rabbina d’Italia (dal ’98) e leader dell’ebraismo progressivo, ha inaugurato, cinque anni flu, la sinagoga Luce eterna del Sud e celebrato le prime nozze ebraiche. Ed è qui che, sabato, terrà il primo Bat Mitzvà, il rito di passaggio all’età adulta delle donne. Figlia di Antonio, un partigiano di Giustizia e libertà che collaborò con l’esercito americano per la liberazione di Buchenwald, anche Aiello, cresciuta a Pittsburgh e arrivata in Italia una ventina di anni fa, ha iniziato la sua avventura nel Meridione rimanendo colpita dal sincretismo: «A una visita di condoglianze, mi accorsi che in soggiorno erano state rimosse le sedie, lo specchio era coperto di nero e sul tavolo c’erano uova sode: esattamente quanto previsto per lo Shive, il lutto ebraico. “Sono solo le nostre usanze” mi risposero però in quella casa. È allora che ho avvertito quanto sia duro a morire il retaggio secolare dell’inquisizione».
Anche Di Mauro, che all’ebraismo è arrivato dal cattolicesimo, conosce le paure che può scatenare un’agnizione, pur tardiva. «Ero già convertito da qualche anno, quando mia madre, in punto di morte, mi disse che la nostra era una famiglia di ebrei. Ne parlai con mia nonna, che rimase impietrita: nessuno avrebbe dovuto sapere, disse». Simile è la storia di Roque Pugliese, 45 anni, medico italoargentino e tra i primi iscritti alla Federazione fondata da Di Mauro, che ha sfidato la ritrosia della famiglia, emigrata in Argentina tra le due guerre e poi tornata in Italia, ad accettare la conversione del figlio: «Per me» racconta «è stato decisivo l’incontro, in Svizzera, con un’associazione sionista. Ma per chi non ha di queste opportunità, il percorso di riscoperta può essere doloroso».
Con Di Mauro e Aiello, il Sud sperimenta sia l’ebraismo ortodosso del primo sia quello progressivo dell’altra, aperto ai gay e alle coppie miste. Ma più che le differenze, prevale la comune diffidenza per l’esclusivismo dell’Ucei. Che ricambia con una certa freddezza. Secondo Vincenzo Villella, storico calabrese e membro del Centro di cultura ebraico che Aiello anima insieme alla sinagoga, almeno il 15 per cento della popolazione locale potrebbe discendere da conversos. «Non facciamo però proselitismo» sostiene Di Mauro. «Gran parte di chi mi segue ha una lunga storia di rifiuti alle spalle. lo stesso, un rabbino, non ho ancora ricevuto risposta alla richiesta di iscrizione alla comunità di Napoli, l’unica dell’Ucei in tutto il Sud». «Non ho bisogno di iscrivermi a una comunità, per poter affermare il mio essere ebrea» dice, invece, Aiello. Diplomatico, Roque Pugliese parla di «collaborazione» con l’Unione a Roma.
Ma la «questione meridionale» dell’ebraismo è solo all’inizio. Presto, Di Mauro organizzerà in Sicilia una scuola rabbinica. Della Torah, dice, ama soprattutto un passo: quello che autorizza un soldato, via da Israele per la guerra, a sposare una gentile. E a Stefano Isaac devono sembrare come tanti soldati, questi ebrei del Sud lontani da Israele per cinque secoli.