La comunità ebraica fu fiorente per 1500 anni a Palermo. I macellai non potevano essere pagati e venivano quindi ricompensati con le interiora degli animali abbattuti
Alessia Rotolo
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto. A Palermo e in tutta la Sicilia gli ebrei furono espulsi dall’Isola l’anno della scoperta delle Americhe. All’epoca Palermo era sotto il dominio spagnolo e in quel periodo fu emanato il decreto dell’Alhambra, noto anche come editto o decreto di Granada: un decreto emanato il 31 marzo 1492 dai re cattolici di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, con il quale diventava obbligatoria l’espulsione delle comunità ebraiche dai regni spagnoli e dai loro possedimenti a partire dal 31 luglio di quello stesso anno.
Quelli che per difendere la propria famiglia dovettero convertirsi al cristianesimo vennero chiamati “marrani”. Chissà se veramente divennero cristiani, i convertiti o se nelle grotte numerose del quartiere continuarono di nascosto a celebrare i loro riti giudei.
A Palermo gli ebrei, per diversi secoli, risiedevano in una zona poco fuori le mura della città a cui si accedeva dalla Porta Giudaica, e nel periodo di maggiore fulgore, in tempo di pace, il quartiere brulicava di migliaia di persone, divisi in tre grossi raggruppamenti: poveri, meno poveri e ricchi, ma tutti operosi e importanti per l’economia della città.
La comunità ebraica si dedicava molto alla lavorazione dei metalli, quindi era importante stare in luoghi acquitrinosi, dove potere temprare i loro manufatti. Il “giardinaccio” a ridosso delle mura meridionali e nei pressi del “fiume del maltempo” (il Kemonia, conosciuto per la sua forza dirompente specialmente durante i temporali) si presentava come luogo adatto dove costruire la loro Sinagoga, la loro “Meschita”, la loro “Guzzetta”.
In città nel quartiere della Meschita le strade che una volta furono ebree, adesso sono indicate con targhe trilingue: italiano, arabo ed ebreo, così che un qualsiasi turista può capire che si trova nel quartiere che sino al 1492 fu abitato da ebrei.
Fino a quell’anno gli ebrei in Sicilia prosperarono, ma nel 1492 a Palermo e dintorni dovettero vendere e lasciare tutto. Ne approfittarono i notai del tempo, qualche nobile e qualche Congregazione che cercava spazio per costruire i loro luoghi di culto: Benedettine, Agostiniani riformati, Carmelitani.
La presenza ebraica certificata a Palermo risale al 590 d.C. anche se si pensa che fin dal III secolo gruppi di ebrei si erano insediati già nella città. Della loro cultura ai siciliani è rimasto tanto, e tantissimo si è disperso.
Nel cuore del loro quartiere oggi sorge la Chiesa di San Nicolò da Tolentino e l’Archivio Comunale con la bellissima architettura progettata da Damiani Almejda, che nel disegnare il prospetto si rifece un pò alle sinagoghe del suo tempo.
Questa costruzione si trova in Piazza della Meschita, all’interno della parte centrale dell’ebraico quartiere, dove probabilmente vivevano i maggiorenti e coloro che lavoravano con il fuoco e con l’acqua. Suddiviso in due rioni Harat-abu-Himaz (la Meschita) e Harat- al Johudin (la Guzzetta), unite da una via in comune: l’attuale via Mastrangelo.
Le abitazioni della giudecca palermitana avevano un particolare: un’incavatura nella porta d’ingresso, all’altezza dello stipite, dove veniva conservato un piccolo rotolo – la “gheniza” – su cui erano scritti alcuni versi della Torah.
Poco distante, nella zona di pertinenza della Casa Professa dei Gesuiti, ancora si può trovare il mikvèh che per la religione ebrea era obbligatorio nei pressi delle case, per i bagni usuali di rito. Era necessaria acqua pura, cioè filtrata naturalmente, e nei pressi passava il Kemonia, che permetteva tutto questo.
Sono rimasti nella nostra cultura molti piatti, soprattutto di carne, come il re dello street food – il pane con la milza – e un taglio di carne particolare detto “judisco” o giudisco. Riguardo alla gastronomia, molti pensano che la cucina palermitana sia principalmente di derivazione araba, e non sanno invece che per più della metà i nostri piatti sono di derivazione “cacher”, cioè ebraica.
Uno dei cibi più importanti creato dagli ebrei è il “pane con la milza” che, anche se vecchio di più di 1000 anni, è il cibo da strada per eccellenza di Palermo.
Nel macello kasher, i macellai non potevano essere pagati. Secondo le regole ebraiche, per l’uccisione degli animali, venivano allora ricompensati con le interiora degli animali abbattuti, ad eccezione del fegato che veniva venduto a parte a caro prezzo.
Dovendone ricavare anche loro qualcosa, pensarono bene di rivenderli ai cristiani. Cominciarono allora a bollire la milza, il polmone e lo “scannarozzato”, cioè le cartilagini della trachea del bue, l’affettarono soffriggendoli nello strutto, e mettendo il tutto in mezzo al pane.
Nacque così il tradizionale pane con la milza, una tradizione che venne continuata, dopo l’espulsione degli ebrei dalla città di Palermo, dai “caciuttari” che prima vendevano solo pane inzuppato di strutto fuso e ripieno di ricotta e cacio fresco a fettine e a cui in seguito aggiunsero la milza.