Umberto Fortis – 2025, Toscana Ebraica
Il medioevo ha visto la lenta, costante evoluzione di pesanti pregiudizi e di manifestazioni di odio nei confronti del popolo ebraico. La propaganda antigiudaica, orientata in un primo tempo sul piano teologico, si muta, con il passare degli anni, anche in violenza e persecuzione, aggiungendo, alle già gravi accuse, il sacrificio e la morte. Infedeli e deicidi, usurai e avvelenatori dei pozzi, untori durante la peste, colpevoli di uccisione di bambini a scopo rituale: è l’infamante insieme di stereotipi che si diffonde nel tempo. La letteratura, e la narrativa in particolare, trovano perciò spesso fertile terreno d’ispirazione nell’immagine negativa dell’ebreo così ampiamente diffusa, contribuendo in tal modo, con storie e novelle, ad accrescere, a livello popolare, il già radicato odio antigiudaico, raccomandato nelle violente prediche di francescani e domenicani. Accanto ai “tristi giudei” dei racconti di Franco Sacchetti, ingannati o vili ingannatori dei cristiani, o al cupo giudeo di Mestre, l’usuraio di Ser Giovanni Fiorentino, che pretende la libbra di carne dal suo debitore, non poteva mancare l’ebreo macchiato di omicidio rituale nei confronti di innocenti. Tale, tra i tanti, è appunto il giudeo del racconto della priora, uno tra i più noti dei Canterbury’s Tales di Chaucer (1386-87).
In una sorta di cornice che ricorda il Decameron del Boccaccio, l’autore immagina che i partecipanti a un pellegrinaggio alla tomba di S. Tommaso di Canterbury, narrino, a turno, per passare il tempo, racconti diversi per intrattenere i compagni di viaggio: sono preti, monache, gente di varia estrazione sociale. Tra le narrazioni, spesso a sfondo realistico, si distingue, appunto, per il suo valore quasi di leggenda, quella di una priora, persona molto diversa dagli altri narratori.
In una remota, grande città dell’Asia viveva “tra i devoti di Cristo” una piccola comunità ebraica, “un ghetto, che il signore del paese proteggeva per sozze usure e turpi guadagni”. All’estremità della strada centrale del quartiere dei giudei, sorgeva una scuola elementare tenuta dai cristiani: vi passavano ogni giorno gli scolari, fra i quali anche un bimbo di sette anni, figlio di una povera vedova, che lo aveva educato al culto della vergine. Tra i banchi, il piccolo sentiva ogni giorno cantare l’Alma Redemptoris e, affascinato dalla musica e dalle parole, se ne fece spiegare il significato da un compagno e cominciò da allora a cantarlo ogni giorno andando a scuola. Gli ebrei, irritati, fecero uccidere il piccolo e ne gettarono il corpo tra gli sterpi, ove la madre disperata lo ritrovò mentre, pur con la gola tagliata, continuava a cantare l’inno a Maria. Portato in chiesa, il bimbo rivelò che, in una visione, la vergine gli aveva messo un chicco di grano sulla lingua: avrebbe cantato fino a che non gli fosse stato tolto, per essere poi accolto in cielo. Venerato allora come un santo, fu sepolto in una grande, bella tomba di marmo.
Chaucer costruisce il suo racconto con attenta strategia, orientata a far emergere il profondo valore morale del messaggio che egli intende inviare al lettore. Presenta, prima di tutto, in un prologo, il soggetto narrante come una persona semplice e modesta, dalle belle maniere, che canta con devozione l’inno divino, dignitosa, degna di riverenza, molto diversa dai compagni di viaggio, persone spesso di bassa estrazione sociale. La priora ha tutte le caratteristiche di un personaggio d’autorità, le cui parole sembrano conferire un valore particolare al proprio racconto, un alone di nobiltà, coerente con l’alto significato del messaggio religioso, che è il vero obiettivo della narrazione. Si tratta di una vera e propria protasi autoritativa, il cui vero spessore è confermato dalla seguente preghiera al Signore e alla Vergine, una sorta di invocazione, come nella tradizionale struttura d’un antico poema: “Io quanto meglio sappia e possa mi sforzerò di narrare una storia […] Vergine madre: aiutami a dire la mia storia e a glorificare il tuo nome […] per poter dire quanto sei grande. Perciò ti prego: guida il mio canto, affinché io possa parlare di te non indegnamente”. Sono parole che sembra vogliano introdurre veramente un racconto di edificazione religiosa, quale si profila, in verità, la storia-leggenda del piccolo bambino.
In effetti, la vicenda è costruita attorno a due assi narrativi, che si intersecano lungo tutto l’arco testuale: da un lato, un lento, ma graduale processo di educazione religiosa del piccolo bambino, un breve “romanzo di formazione”, che si trasforma progressivamente in un vero itinerario verso la santificazione, conseguita tramite il martirio finale; dall’altro, in direzione opposta, ma necessaria a tale conseguimento, il costante, insistente cammino di degradazione degli ebrei “dalle sozze usure e turpi guadagni”, che, con la loro brutalità, sacrificano il povero fanciullo, trasformandolo in un nuovo martire. Il contrasto sembra strategicamente evidenziato anche dalla stessa disposizione spaziale del racconto, segnata da due poli contrapposti: all’inizio, un indefinito locus judaicus, sede della malvagità e della corruzione, attraversato da una strada lungo la quale, in evidente contrapposizione, sorgono vari capitelli di devozione dedicati alla vergine (tra i devoti di Cristo); all’opposto, dopo un ideale processo di purificazione, una chiesa e una tomba, sedi della purezza, della bontà e della perfezione. Domina, ovviamente, il percorso compiuto del bambino, che, sequenza dopo sequenza, si svela gradualmente come un avvio verso la glorificazione finale. È un piccolo corista di chiesa, figlio di una povera vedova; educato al culto della Madonna, alla quale dedica la sua Ave Maria ogni volta che incontra una sua immagine lungo la strada. Con tali sentimenti di devozione, il piccolo è attratto ogni mattina dal canto dell’Alma Redemptoris che sente intonato ogni giorno a scuola dai suoi compagni. Si fa spiegare il suo significato da un alunno più grande e lo impara, nota per nota: “è il canto fatto per venerare la madre di Gesù”, ora sa bene, e così lo ripete ogni volta che passa per la strada del ghetto, sempre con maggior dolcezza e passione.
Il lento progresso verso la sua elevazione spirituale è però interrotto violentemente dall’azione crudele degli ebrei, che non sopportano di sentire in continuazione quell’inno:
“Ma quel serpe velenoso di Satana, il nostro primo nemico, che nel cuore dei giudei ha nascosto il suo nido di vespe, si gonfiò di rabbia e disse: “O popolo d’Israele è forse una cosa che ti fa onore che un bambino abbia a passare a suo bell’agio in mezzo a voi cantando in questo modo a dispetto vostro e contro le vostre leggi”?
Il nuovo intervento della priora, attraverso un chiaro riferimento al vangelo di Giovanni, innesca la sequenza che sviluppa la progressiva degradazione degli ebrei che, attraverso l’atto delittuoso affidato a “un giudeo maledetto”, fanno sgozzare il piccolo ragazzino e lo fanno gettare in un mucchio di rovi. “O razza maledetta, O Erodi novelli”! Il racconto si rivela allora implicitamente come il ricordo di un vero e proprio omicidio rituale, che, come tale, viene però esplicitamente riconosciuto dall’autore nelle parole finali della narrazione, rapportando l’episodio al più noto evento accaduto, alla metà del Duecento, nella cittadina di Lincoln: “O piccolo Ugo di Lincoln, ucciso anche tu or non è molto, come è noto, dagli ebrei maledetti”.
Nella parabola della lenta assunzione del piccolo cantore al livello di santità, il delitto cruento degli ebrei funge, dunque, nel racconto, come l’evento cardine, risolutivo, che avvia all’estrema consacrazione del fanciullo. Il lessico si fa allora più elevato, enfatico, l’aggettivazione diventa più solenne: “O martire consacrato alla verginità […] gemma di purezza, smeraldo prezioso, rubino fiammeggiante del martirio”. Il ritrovamento del suo cadavere da parte della madre, il suo continuo canto mistico, pur con la gola tagliata, il suo accoglimento in chiesa sono tutti momenti, da allora, che sembrano avvolti nell’aura quasi misteriosa del miracolo, quale degna consacrazione di un sacrificio che apre alla santità. Il contrasto con la descrizione del castigo degli ebrei colpevoli, anche dal punto di vista paradigmatico, si fa allora stridente: “I giudei che erano complici dell’assassinio del fanciullo, furono messi tutti a morte in mezzo ai tormenti e all’infamia …poiché il governatore non volle avere compassione di gente tanto iniqua; così egli, dopo averli fatti trascinare da cavalli selvaggi, li fece impiccare come stabilivano le leggi”.
La struttura del racconto, oppositiva tra una purezza quasi mistica, da un lato, e un’iniquità infamante, dall’altro, è, in tal modo, orientata a confermare, ancora una volta, l’immagine dell’ebreo che la tradizione artistica e letteraria del basso medioevo ha continuato a diffondere, non solo nell’orizzonte europeo, ma anche altrove, anche in terre lontane. Attraverso l’evento-mito della profanazione dell’ostia, accaduto, a quanto si sa, per la prima volta a Colonia nel 1150, o quello raccontato, per l’oriente, da Gregorio di Tours; o tramite la falsa accusa di omicidio rituale, compiuto in occasione della Pasqua, l’ebreo è visto anche qui, e così sempre, come una causalità maligna all’interno della società, pronto sempre a ordire trame e scelleratezze ai danni della cristianità. La versione narrativa di Chaucer, strategicamente delegata a una Priora, a una religiosa “degna di riverenza”, le cui parole possono meglio assumere valore di severa autorità, aggiunge così, nell’eterna disputa tra Chiesa e Sinagoga, un nuovo, piccolo tassello al fin troppo ricco mosaico delle infamanti accuse dell’antigiudaismo del basso medioevo.
G. Chaucer, I racconti di Canterbury, Firenze, Sansoni 1973
