È Allah, Amazon e Marx che entrano in un bar…
Charles Rojzman – Causer.fr – 5 giugno 2025
Israele non è soltanto al centro di un conflitto territoriale: incarna una frontiera delle civiltà tra due visioni del mondo. Dietro il conflitto israelo-palestinese si profila uno scontro più ampio, tra il globalismo – che dissolve le identità – e il radicamento – che difende le nazioni, le memorie, le singolarità. Questo combattimento, troppo spesso mascherato, riguarda tanto l’Europa quanto il Medio Oriente.
Bisogna dirlo senza giri di parole, senza quell’artificio delle anime tiepide che vogliono ancora credere a compromessi: Hamas non vuole la soluzione dei due Stati. Non la vuole, non la può volere, perché il suo orizzonte non è quello delle nazioni, nemmeno quello dei popoli, ma quello di un universo sottomesso alla sola legge di Allah. Al limite estremo, la accetterebbe come un inganno, una dilazione, una pausa strategica: una tappa prima di cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, prima di dissolvere questa anomalia che è Israele nel grande bagno di un Medio Oriente musulmano da tutta l’eternità. Per lui, per l’islamismo, Israele non potrebbe essere una nazione sovrana, per di più ebraica, ma tutt’al più un territorio, uno spazio, una porzione di terra dove gli ebrei vivrebbero come dhimmi, sotto il giogo discreto ma implacabile della sharia, tollerati come si tollera l’ombra del passato sulle rovine del presente.
Società affaticate
Quello che si gioca qui, e che non si vuole vedere – perché la cecità, oggi, è il lusso supremo delle società affaticate –, è che questa logica non è circoscritta al conflitto israelo-palestinese. Lavora anche, sotterraneamente, l’Europa, la Francia, queste vecchie nazioni che si accaniscono a negare la propria carne, la propria memoria, il proprio essere. Per l’estrema sinistra, per la sinistra che si lascia trascinare da essa in una vertigine di cui non comprende né l’origine né il prezzo, come per l’islamismo, le nazioni sono finzioni da dissolvere, impedimenti all’avvento di un ordine superiore: quello della umma per gli uni, quello del mercato planetario per gli altri, quello dell’umanità universale per i terzi. Ed è per questo che si comprende anche perché queste correnti così diverse in apparenza – islamisti, capitalisti, rivoluzionari – si ritrovano paradossalmente a difendere, in un modo o nell’altro, un’immigrazione di massa, soprattutto proveniente da paesi a maggioranza musulmana: perché questo flusso umano, affogando le identità storiche sotto un’ondata demografica, contribuisce potentemente a dissolvere i riferimenti, a cancellare le singolarità nazionali, a rendere i popoli più malleabili, più astratti, più intercambiabili.
Così, quello che si vuole cancellare non è soltanto lo Stato ebraico; è l’idea stessa di Stato-nazione. Hamas non vuole uno Stato ebraico, vuole bene, forse, uno Stato d’Israele svuotato della sua sostanza ebraica, come l’islamismo può ben tollerare una Repubblica francese a condizione che non sia più la Francia dei francesi, ma uno spazio astratto, aperto, disponibile per il dispiegamento dell’islam. Perché per l’islamismo, come per gli ideologi della globalizzazione, la nazione non ha senso: quello che conta è l’unità del mondo, l’unificazione sotto una legge, sia essa mercantile o divina, ma sempre ostile alle singolarità storiche, alle eredità, ai confini.
E non si vede – e forse è questa la tragedia del nostro tempo, questa incapacità di percepire le linee profonde che strutturano gli eventi – che la Francia e Israele sono, in verità, confrontati allo stesso pericolo: quello della loro cancellazione. Cancellazione sotto la spinta islamista, che sogna un mondo dove le altre religioni sarebbero sottomesse; cancellazione sotto la spinta della mercificazione, che sogna un mondo dove tutto sarebbe intercambiabile, mercificabile, dissolto nei flussi; cancellazione sotto la spinta di una sinistra ancora ossessionata dai relitti del comunismo, che sogna un mondo dove gli uomini sarebbero ridotti alla loro semplice umanità astratta, senza storia, senza memoria, senza identità.
È il tuo destino
In questa congiunzione inaspettata – islamismo, mercato, ideologia universalista – si gioca una battaglia che non è soltanto politica, ma metafisica: quella dell’esistenza delle nazioni. Essere una nazione significa dire no all’uniformità, no alla dissoluzione, no alla riduzione degli esseri umani a semplici unità di desiderio o di fede. Significa affermare una differenza, una singolarità, una memoria incarnata in luoghi, lingue, riti, morti. Israele, come la Francia, come l’Europa, si trova al crocevia: o persiste nell’esistere come nazione, al prezzo di un combattimento doloroso, solitario, quasi disperato; oppure consente a scomparire, a fondersi nel grande magma planetario, a non essere più che uno spazio senza spessore, senza memoria, senza volto.
Questo combattimento, lo si conduce spesso senza saperlo, o credendo che si tratti soltanto di coabitazione, di giustizia sociale, di redistribuzione economica. Ma si tratta, in verità, di un combattimento ontologico: si tratta di sapere se vogliamo continuare a esistere come popoli, come nazioni, o se accettiamo di non essere più che individui senza legami, sottomessi alle leggi dell’economia, dell’ideologia, o della religione totalitaria.
Ecco perché la Francia e Israele sono legati da un destino comune, che nessuno vuole vedere. Ecco perché bisogna parlare, scrivere, nominare, contro il flusso amnesico del mondo contemporaneo. Ecco perché bisogna, forse, ritrovare questa malinconia tragica che fu sempre propria delle civiltà invecchianti ma lucide.
C’è, in questa faccenda, un’immensa stanchezza. Stanchezza delle nazioni, che non sanno più portare il peso della loro storia; stanchezza degli uomini, che non credono più alla loro singolarità; stanchezza delle élite, che sognano di cancellare le asperità per fondersi in un’umanità senza spessore. La Francia è come questa vecchia dimora che si abbandona ai venti, alla pioggia, all’edera, e di cui si contempla la lenta decrepitezza con una fascinazione morbosa, senza trovare in sé l’energia di ripararla. Israele, dal canto suo, conosce un’altra realtà: una parte delle sue élite sogna talvolta l’abbandono, ma il cuore del paese resiste ancora — portato da una gioventù ardente, patriottica, pronta a difendere la sua sopravvivenza. Se certe zone d’Israele cominciano a somigliare all’esaurimento francese, il resto del paese, lui, rimane in stato di allerta, teso, in piedi, di fronte alla minaccia.
Triplo rifiuto
Perché riparare significa sempre ricordare. Riparare significa dire: siamo esistiti, abbiamo un passato, abbiamo morti, guerre, lacrime, canti. Riparare significa rifiutare l’oblio in cui ci spinge l’epoca. Ma l’epoca non vuole più questo passato. Non lo vuole più perché disturba, imbarazza, limita. Il passato, per l’ideologia mercantile, è un peso morto; per l’ideologia islamista, è un’impurità; per l’ideologia di sinistra, è una colpa. E in questo triplo rifiuto, c’è una forma di alleanza, una coalizione inaspettata ma temibile.
Israele, in quanto Stato ebraico, incarna lo scandalo del particolare: un’identità storica, religiosa, culturale, irriducibile all’universalismo astratto. La Francia, malgrado tutti i suoi tradimenti, tutte le sue abdicazioni, rimane, agli occhi del mondo, una vecchia nazione forgiata da secoli di guerre, di letteratura, di cattolicesimo, di rivoluzioni, di fedeltà a se stessa. Ora, sono precisamente queste singolarità che bisogna abbattere.
Perché il mondo che viene – il mondo che vogliono gli islamisti, i mercanti, gli ideologi – è un mondo senza nazioni. Un mondo di flussi: flussi di capitali, flussi di merci, flussi di credenti, flussi di esseri umani ridotti alla loro funzione economica o religiosa. Quello che si chiama, spesso senza comprenderlo, il globalismo, non è che un nome cortese per designare questa guerra sotterranea contro i radicamenti. E l’islamismo, in questo senso, non è il nemico del mercato; ne è l’alleato paradossale. Perché entrambi vogliono cancellare le frontiere, entrambi vogliono un mondo unificato, entrambi vogliono abolire l’idea stessa di nazione.
Ecco perché è vano opporre ingenuamente l’uno all’altro. Ecco perché è illusorio credere che si potrà risolvere il conflitto israelo-palestinese, o la questione dell’immigrazione in Europa, con semplici aggiustamenti politici, con compromessi, con accordi tecnici. Perché si tratta di un combattimento più profondo: quello della sopravvivenza delle identità.
Ed è qui che arriva il più tragico: è possibile che questo combattimento sia già perduto. Non con la forza delle armi, ma per la stanchezza interiore. Perché le nazioni non sono innanzitutto abbattute dall’esterno; muoiono dall’interno, per esaurimento, per disgusto di sé, per incapacità di trasmettersi, di desiderarsi ancora. Guardate la Francia: non insegna più la sua storia; non osa più dire quello che è; si scusa di esistere. Guardate Israele: vacilla tra il bisogno di difendersi e la colpevolezza di farlo, tra la volontà di sopravvivere e l’ossessione di essere giudicato.
Si dice talvolta: bisogna difendere l’Occidente. Ma l’Occidente esiste ancora? È altro che un ricordo, che un miraggio, che una parola vuota? Si dice: bisogna salvare le nazioni. Ma le nazioni vogliono ancora essere salvate? Hanno ancora in loro il desiderio di durare, questa ostinazione, questo sangue, questa fedeltà, questa malinconia attiva che fu un tempo la loro forza? Oppure hanno già acconsentito, in silenzio, a dissolversi, a cancellarsi, a diventare spazi neutri, luoghi senza memoria, zone franche per il commercio e per la fede?
Non lo so. O piuttosto, lo so fin troppo bene: ci sono momenti in cui le civiltà, come gli uomini, scelgono la morte senza dirlo. Si afflosciano dolcemente, con una stanchezza infinita, con questa nostalgia senza oggetto che precede la caduta. Forse è questo che stiamo vivendo. Forse è questo, il cuore pulsante del nostro tempo: il crepuscolo delle nazioni.