Uno sui pantaloncini ha cucita la stella di David, l’altro si ispira a Muhammad Ali. Il 5 dicembre si contenderanno la corona dei welter jr.
Ivo Romano
Dmitriy Salita, dal suo punto di vista, ha ragione da vendere: «Vorrei che si parlasse di questo match solo come una sfida mondiale, importante solo sotto il profilo sportivo». Concetti chiari, solari. Del resto, lui ci ha impiegato oltre 8 anni di dura carriera, 31 combattimenti (30 vinti e uno pareggiato) e 176 round di presenza sul ring per incrociare la strada mondiale. Ora che è giunto al bivio – di qua il titolo, di là il ritorno all’anonimato – vorrebbe che si parlasse di lui, soprattutto in quanto pugile di vaglia, lasciando perdere il pur sapido contorno, un mix di scontate etichette e curiose suggestioni.
E però ha ragione pure chi da quell’orecchio non vuol sentirci, sordo al richiamo dello sfidante e alle sua inascoltate raccomandazioni. L’occasione è ghiotta, fin troppo. Soprattutto di questi tempi, malamente scanditi da conflitti religiosi che accendono il pianeta e sporcano la storia. E lui, in fondo alla strada verso il mondiale, percorsa con piglio sicuro e ostentata fierezza, ha trovato Amir Khan, l’attuale campione, un vero predestinato, approdato in cima al mondo in men che non si dica. Ebreo ultra-ortodosso, Dmitriy Salita. Musulmano praticante, Amir Khan. L’uno contro l’altro, il prossimo 5 dicembre, sul ring della Metro Radio Arena di Newcastle, in Inghilterra, con in palio il mondiale Wba dei welter junior. La sfida santa, così l’ha definita il New York Post, il primo ad appiccicare un’etichetta, cui mille altre dello stesso tenore seguiranno da qui al giorno fatidico. Del resto, per dirla con le parole del rabbino Shmuley Boteach, un personaggio negli States, scrittore di fama e personaggio televisivo di successo, «Hollywood non avrebbe potuto regalare una storia più bella: è fantastico che due ragazzi di grande fede siano arrivati a così alti livelli e ora si trovino di fronte».
Vero, una storia da film. Musulmano d’Inghilterra, l’uno. Ebreo d’America, l’altro. Origini altrove, per entrambi. E non pochi problemi legati alla loro fede religiosa, chi da ragazzino, chi da giovane affermato. Le radici di Amir Khan conducono in Pakistan, sebbene i natali siano inglesi, di Bolton. Muhammad Ali, la sua grande ispirazione, religiosa e sportiva. Sul ring, un prodigio: argento olimpico nel 2004, non ancora maggiorenne, poi il mondiale da professionista, a soli 22 anni. Un autentico talento, la cui storia è già impressa in una biografia, con tanto di capitolo dedicato proprio alla religione, abbracciata con trasporto in età non più tenerissima. È diventato un devoto musulmano, frequenta le moschee, prega in direzione della Mecca quando entra sul ring, dedica i suoi successi sia all’Inghilterra che alla comunità musulmana.
Un idolo, per qualcuno. Un nemico, per altri. Applausi, quando si avvicina al quadrato. Ma pure fischi, mentre attende la contesa. Amore e odio. E gruppi contro nati come funghi su Facebook, il social network diffidato dal pugile e dal suo manager per contenuti sfacciatamente razzisti. Perché c’è chi soffia sul fuoco della contrapposizione, anche nella multietnica Gran Bretagna. E anche se lui sul rapporto fra Islam s’è sempre espresso in un certo modo : «Quel che è successo negli ultimi anni ha accresciuto il timore degli occidentali nei confronti dei musulmani: immagini di uomini barbuti che impugnano pistole o armi di ogni genere non aiutano la convivenza civile. Ma ciò è sbagliato. Sono musulmano, Allah è il mio Dio, credo nei suoi insegnamenti, che parlano soprattutto di pace e rispetto».
Dmitriy Salita, nato Dmitriy Alexandrovich Lekhtman, il razzismo lo ha vissuto sulla sua pelle che era un ragazzino. A Odessa, in Ucraina, la sua città natale. Fu proprio il crescente antisemitismo che convinse i genitori alla trasvolata oceanica, fino negli Usa, a New York, quartiere di Brooklyn, zona di Flatbush. Aveva 9 anni, si ritrovò dall’altra parte del mondo. Un nuovo Paese, due appigli su cui costruire il futuro: il pugilato e la religione. Non ha mai lasciato né l’uno né l’altra. Lo chiamano Star of David e Kosher Kid: due soprannomi, un chiaro riferimento. Normale per chi la Stella di David la porta impressa sui pantaloncini, per chi si allena a breve distanza dalla Sinagoga (non manca una preghiera del venerdì e del sabato), non combatte nei circa 70 giorni sacri della religione ebraica, va sul ring solo dopo il tramonto (come da regole religiose) nel giorno del Sabbath ebraico, si avvicina al quadrato al suono di musica rap Yiddish, segue alla lettera le regole di alimentazione Kosher.
Due pugili, due storie, due religioni. Una sfida nella sfida, il prossimo 5 dicembre. Come mai prima d’ora. Vero, qualcuno presentò come il match tra l’ebreo e il nazista un mondiale dei massimi tra Max Baer e Max Schmeling. Solo che Baer di ebreo aveva poco più di nulla e Schmeling di nazista aveva solo il suo Paese, la Germania (lui di quel regime fu fiero oppositore). Di campioni di religione ebraica ce ne sono stati, ancor più i musulmani. Una volta, nel lontano 1955, Robert Cohen, ebreo, superò Cherif Hamia, musulmano, ma senza alcun titolo in palio. Altro Paese, altre contrapposizioni. Il Sudafrica, ai tempi dell’apartheid. A lungo, nessuna sfida tra bianchi e neri.
Poi, la retromarcia. E alcuni match memorabili (Charlie Weir contro Tap Tap Makathini e Arthur Mayisela contro Brian Baronet), a dar sfogo ai peggiori istinti di tifosi imbevuti di aberranti ideologie. Precedenti che neppure sfiorano le suggestioni emanate da Khan-Salita, il mondiale prossimo venturo, quello che qualcuno, magari con scarsa fantasia, ha definito «guerra di religioni». A scanso di equivoci, meglio non farsi sentire da Dmitriy Salita: «Ho troppo rispetto per Khan. La religione non c’entra: l’unico motivo per cui voglio spedirlo col sedere al tappeto è la sua cintura mondiale».
La Stampa – 12/10/2009