Carmelo Palma – Inoltreblog – 19 maggio2025
Ho terminato il mio mese da ebreo, trascorso a vedere l’effetto che fa, anche perché per capire che effetto fa essere ebreo non occorre neppure esserlo, basta essere riconosciuto per tale. Poi, come è noto, dal riconoscimento all’imputazione il passo può essere brevissimo e così quello dall’imputazione alla condanna e dalle parole ai fatti. Per sembrare ebreo – nel mio caso, senza esserlo – è bastato indossare la kippah in tutti i luoghi pubblici – per strada, sul treno, sulla metropolitana, al cinema, al ristorante, al supermercato… – cioè in tutti i luoghi in cui chiunque non mi conoscesse avrebbe potuto scambiarmi per un anonimo rappresentante del solo gruppo umano, dai cui membri sia pacificamente legittimo esigere un requisito di speciale meritevolezza individuale, per scriminare la colpa di un’appartenenza di rinomata perfidia.
La meritevolezza dei dissociati, quando non dei rinnegati. La meritevolezza di non essere come gli ebrei cattivi, che sono la regola e di cui i buoni sono la sempre sospettabile eccezione. La meritevolezza di denunciare la stessa esistenza di Israele come progetto di colonialismo genocidario fin dal 1948, anzi dal famigerato piano Balfour del 1917 per la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina durante il mandato britannico.
A vedere l’effetto che fa sono stato fortunato. Qualche sguardo di muto rimprovero o di aperto disprezzo, uno sfottò pacifico, anche se insultante. Tutto qui.
Nessuno mi ha mai chiesto di tenermi a distanza, per non creare problemi, come i bravi cittadini romani di via Torlonia che, mentre io iniziavo il mio mese da ebreo, hanno avviato una raccolta di firme e preparato un esposto al Prefetto per chiedere la sospensione dei lavori del Museo della Shoah, così da non essere esposti alle minacce e alle violenze che quel monumento di provocatoria ebraicità istiga anche a danno degli incolpevoli non ebrei.
Non sono neppure mai stato aggredito come i giovani ebrei che a Torino – mentre terminavo il mio mese con la kippah – hanno provato a organizzare nel Campus universitario Einaudi una conferenza sulla libertà di parola – la propria libertà di parola – alla fine annullata dai vertici dell’Università per ragioni di ordine pubblico. Libertà di parola negata, dunque, di nuovo.
Del resto, nel circolo vizioso della normalizzazione antisemita, se gli ebrei sono il bersaglio della violenza, diventano essi stessi la causa del disordine e il problema da risolvere. Già sei ebreo e pure ti agiti? Se gli ebrei stessero calmi… Da farci un altro, ennesimo decreto sicurezza. Troncare gli ebrei, per sopire gli antisemiti.
Dicevo l’effetto che fa: che effetto mi ha fatto? Dividerei l’interrogativo in due parti.
La prima: come mi sono sentito “fuori” da ebreo? Sempre un po’ in pericolo, ma mai troppo, per ragioni in larga misura contingenti e fortunate. Vivo a Roma, a poco meno di due chilometri dal Ghetto. Lavoro nel centro di Roma. Frequento in genere luoghi in cui la presenza ebraica è, se non visibile, metabolizzata o mollemente ingoiata, come Roma ingoia con noncuranza quasi ogni cosa. Eppure mi è capitato spesso farmi domande che normalmente non mi faccio, tipo: stasera è il caso che prenda la metropolitana a mezzanotte, oppure è più sicuro che prenda un taxi? Oggi incontro in un locale pubblico un po’ “alternativo” una persona anziana: è il caso che faccia l’ebreo o per non coinvolgerla involontariamente in qualche incidente è meglio che mi metta in tasca la kippah? Lo sapevo già, ma ho concretamente avvertito, fisicamente e psicologicamente, cosa significa vivere da ebreo visibile ed è stata un’esperienza istruttiva, che consiglio a tutti i non ebrei.
La cosa però più istruttiva è stato scoprire come mi sono sentito “dentro”: mi sono sentito come gli ebrei che devono giustificare di non essere come gli altri ebrei, che evidentemente per molti procurano all’ebraismo e a Israele un disprezzo meritato. E mi sono sentito nella trappola dell’autocensura.
Se per essere preso sul serio devo sputare su un ebreo cattivo, non voglio essere preso sul serio così. Se per essere riconosciuto in buona fede nella mia lotta contro l’antisemitismo devo ammettere che questo antisemitismo è un effetto collaterale delle azioni del governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania – affermazione che non è solo storicamente falsa, ma è la quintessenza della vulgata antisemita, per cui sono gli ebrei la causa dell’odio antiebraico – non dico che per reazione mi verrebbe da difendere pure i fascisti messianici e gli epigoni ministeriali di Yigal Amir, ma di certo mi viene da tacere, per non cadere nella trappola antisemita per eccellenza: quella – come dicevo all’inizio – per cui si possono difendere alcuni ebrei, che sono buoni solo se dimostrano di non essere cattivi. Trappola in cui i nazisti di Hamas e i loro zelanti agenti sotto mentite (e a volte pure involontarie) spoglie sono riusciti a far cadere buona parte del mondo progressista europeo e la quasi totalità di quello italiano.
Però, per non cadere in questa trappola, il prezzo rischia di essere altrettanto salato: quello di finire in una autocensura uguale e contraria verso personaggi e politiche che ritengo rovinose per gli ebrei e per Israele (non aggiungo altro all’articolo di Stefano Piperno, di cui condivido tutto, dolore compreso).
Solidarizzare con gli ebrei e con Israele mentre per una larga fetta dell’umanità antisemitismo e antisionismo sono non solo legittimati, ma rappresentano il non plus ultra della correttezza politica e dell’intransigenza umanitaria, significa trovarsi di fronte a questa alternativa apparentemente obbligata. Non è una cosa semplice e soprattutto non vi sono “soluzioni” che non rischino di apparire esse stesse politicamente e intellettualmente equivoche, sia per gli amici che per i nemici.
https://inoltreblog.com/il-mio-mese-da-ebreo-tra-paure-e-autocensure/