Capitolo 6 – La vita spirituale e la letteratura fino alla metà del secolo XVII
Movimenti messianici: a) Generalità; b) Asher Lemlin; c) Davìd Reuvenì e Shelomò Molcho.
Gli studi e la letteratura in Italia: a) Generalità; b) Diffusione della stampa; c) Yitzchàk Abravanèl; d) Talmud e Halakhà; e) Misticismo e Kabbalà; f) Studi esegetici e filologici; g) Studi storici, geografici e politici; h) Studi filosofici e profani.
Èretz Israèl e paesi ottomani: a) Letteratura ritualistica e talmudica; b) Letteratura esegetica e omiletica; c) Letteratura kabbalistica; d) Letteratura storica; e) Filosofia e scienze profane
Europa centrale e orientale a) Talmud e Halakhà
Olanda
Letteratura popolare
Movimenti messianici
a) Generalità
Le sventure che colpirono gli Ebrei, specialmente dopo l’espulsione dalla Spagna, mentre non diminuirono per nulla la fiducia del popolo di Israele nella redenzione futura (venuta del Messia) radicarono, come in altri periodi di gravi sventure nazionali, l’idea che queste fossero le sventure che, secondo le idee tradizionali, avrebbero dovuto precedere la venuta del Messia, apportatore della redenzione. Non pochi credettero, in base a calcoli vari, di potere determinare quando il Messia sarebbe venuto, e tutti fissarono la data per un tempo non molto lontano, mentre altri, che è difficile determinare se agissero in buona fede o con impostura, affermarono di essere essi stessi il Messia od il suo precursore.
b) Ashèr Lemlin
Nel 1502, un certo Ashèr Lemlin proveniente a quanto pare dalla Germania, si presentò in Austria e nei dintorni di Venezia (1502) come annunziatore del Messia che sarebbe apparso dopo breve tempo, ed ebbe un certo seguito. Non essendo apparso il Messia nel tempo indicato, molti dei suoi seguaci ritennero che il ritardo fosse dovuto ai peccati e invitarono alla penitenza e al digiuno per affrettare la venuta del momento desiderato.
c) Davìd Reuvenì e Shelomò Molcho.
Di importanza assai maggiore fu Davìd Reuvenì. Sbarcato a Venezia (febbraio 1524) affermò di essere discendente della tribù di Ruben (di qui il suo appellativo Reuvenì), una delle dieci tribù mandate in esilio dagli Assiri (vedi vol. II, pag. XXX) e di cui non si aveva alcuna notizia. Egli si dichiarò proveniente dall’Arabia settentrionale, dove affermava esistesse un regno ebraico, costituito dagli avanzi delle tribù di Reuvèn e di parte di quelle di Manasse e di essere fratello del re di quello stato e inviato da questo per raccogliere in varie parti del mondo un esercito di Ebrei e di Cristiani per togliere Èretz Israèl ai Turchi. Egli narrò avventure meravigliose che gli erano accadute nei suoi viaggi precedenti in Africa e in Èretz Israèl e si proponeva di presentarsi al papa per interessarlo all’impresa. Da Venezia si recò infatti a Roma e riuscì a farsi ricevere dal papa Clemente VII, che lo accolse benevolmente, si entusiasmò alle sue proposte e gli promise di dargli una lettera di raccomandazione per il re di Portogallo, affinché questi mettesse a sua disposizione navi portoghesi per il trasporto di armi. Gli Ebrei della Comunità di Roma erano di pareri diversi: i capi della Comunità lo trattarono con grandi onori e lo aiutarono, ma altri sospettarono di aver a che fare con un avventuriero privo di coscienza e non mancarono di esprimere questo loro giudizio a Cristiani influenti. Comunque, Davìd ebbe dal papa lettere di raccomandazione per il re di Portogallo e per il re di Abissinia. In queste lettere il papa raccomandava di aiutare Davìd se le sue azioni tendevano al vantaggio del Cristianesimo. Anche il re di Portogallo Juan III al quale si presentò nel 1525 lo accolse benevolmente, gli promise di fornirgli navi e armi e differì l’esecuzione di misure contro i Marrani che aveva deciso di prendere. Il segretario del tribunale di Lisbona, preso anch’egli da entusiasmo, si convertì all’Ebraismo, assunse il nome di Shelomò Molcho e si presentò a Davìd offrendogli la sua opera. Davìd, a quanto pare ebbe qualche diffidenza e gli consigliò di andare in Turchia, il che egli fece (1527). In vari luoghi di questo paese e in Èretz Israèl, dove si recò in seguito, entrò in rapporto con cerchie ebraiche, specialmente kabbalistiche, e quando ebbe notizia delle distruzioni e delle violenze compiute in Roma e contro lo stesso papa dagli eserciti di Carlo V, vide in questi avvenimenti l’inizio della caduta del Cristianesimo, alla quale avrebbe seguito la redenzione d’Israele.
David Reuvenì e Shelomò Molcho ebbero in seguito una quantità di peripezie nei vari luoghi dove si recarono, variamente giudicati e accolti sia da Ebrei che da Cristiani, e perirono entrambi miseramente. Furono imprigionati in Germania per ordine di Carlo V, mandati in Italia e consegnati all’Inquisizione sotto accusa di azioni contrarie al Cristianesimo e di istigazione ai Marrani di tornare all’Ebraismo. Molcho, condannato al rogo, avendo all’ultimo momento rifiutato di ricredersi, venne arso; David Reuvenì fu poi portato in Spagna, imprigionato e morì in carcere dopo alcuni anni.
Gli studi e la letteratura in Italia
a) Generalità
Il periodo della cultura Italiana che suole designarsi come quella del rinascimento e dell’umanesimo è anche un periodo di fioritura per gli studi e la letteratura degli Ebrei in Italia, e neppure le persecuzioni dell’età della Controriforma valsero a determinare una decadenza. Va poi anche notato che, nonostante le restrizioni e gli sforzi della Chiesa per tenere la popolazione ebraica lontana da quella cristiana, non cessarono mai in Italia i rapporti fra Ebrei e non Ebrei nel campo degli studi. Il fatto che in Italia affluirono Ebrei da vari paesi ebbe per conseguenza che gli studi ebraici e quindi la letteratura ebraica del periodo abbracciarono i vari campi: esegesi biblica, studi talmudici e halakhici, ricerche storiche e filosofiche, Kabbalà e misticismo, poesia, furono tutti coltivati, e non mancarono neppure cultori di scienze e lettere profane.
b) Diffusione della stampa
Sintomo notevole della fioritura degli studi ebraici in Italia è il grande sviluppo che ebbe la stampa dei libri ebraici fino dai primi anni dopo l’invenzione dell’arte tipografica (vedi vol. II, pag. XXX). Il primo libro ebraico stampato sicuramente datato è il commento di Rashì alla Torà, stampato a Reggio Calabria nel 1475. Il numero degli incunaboli (libri stampati nel secolo XV) ebraici conosciuti stampati in Italia supera il centinaio. Le prime tipografie si ebbero oltre che a Reggio, a Napoli, Roma, Sabbioneta, Soncino, Brescia, e altrove. Particolare fama come tipografi ebbero i membri della famiglia Soncino che, dopo avere esercitato l’arte tipografica nella città da cui presero il nome e in altre città d’Italia, si trasferirono in Turchia.
Nel secolo XVI acquistarono particolare importanza le tipografie ebraiche a Venezia: specialmente importante quella di Bomberg, che pubblicò fra l’altro la prima edizione intera del Talmud e un’edizione della Bibbia ebraica (Mikrà Ghedolà) con commenti, il testo biblico della quale servì di base a tutte le edizioni successive e venne nel complesso accettato come testo ufficiale. Altre stamperie veneziane di libri ebraici che funzionarono in seguito, anche in concorrenza con la Bomberg, furono la Bragadina e la Giustiniani. Le disposizioni che colpirono i libri ebraici arrestarono per qualche tempo l’attività delle tipografie, ma poi, in seguito alle disposizioni che permisero la pubblicazione di libri ebraici censurati, esse tornarono a fiorire.
c) Yitzchàk Abravanel
In Italia condusse a termine i più importanti dei suoi lavori uno dei più insigni scrittori dell’epoca: Yitzchàk Abravanel nato a Siviglia nel 1437.
Egli ebbe cariche importanti in Spagna e in Portogallo. Implicato in vicende politiche in questo paese, tornò in Spagna spogliato dei suoi averi, si stabilì a Toledo (1483) e vi rimase fino alla espulsione degli Ebrei dalla Spagna. Egli, come molti altri, trovò rifugio nel regno di Napoli ed anche là ebbe importanti cariche di stato. Obbligato ad abbandonare il paese dopo che lo ebbe conquistato Carlo VIII (1494) andò errando in vari paesi e alla fine si stabilì a Monopoli in Puglia dove condusse a termine il suo commento a gran parte dei libri della Bibbia, che aveva cominciato in Spagna negli anni della sua gioventù, e scrisse varie opere di argomento religioso e filosofico; negli ultimi anni della sua vita risiedette a Venezia e anche qui ebbe incarichi politici: vi morì nel 1509 e fu sepolto a Padova.
d) Talmud e Halakhà
Gli studi talmudici e halakhici continuarono ad essere coltivati nelle varie yeshivòt che esistevano nelle principali Comunità. Fra i più dotti e rinomati rabbini del tempo sono da ricordare a Padova, R. Avrahàm Minz, figlio di Yehudà, (vedi vol. II pag. XXX) e R. Meìr di Padova. Nel tempo della fioritura delle yeshivòt vi accorrevano anche giovani da altri paesi ed alcuni di essi, a Padova, oltre che darsi agli studi rabbinici, frequentavano anche l’università, dove apprendevano specialmente le scienze mediche e filosofiche. Gravi ostacoli agli studi furono posti con le disposizioni relative alla confisca e alla distruzione dei libri ebraici e specialmente del Talmud e, per mancanza di libri, alcuni studiosi emigrarono in altri paesi, specialmente in Germania e Polonia. Ma gli studi continuarono a fiorire quando fu permessa la stampa di testi censurati. A Mantova si segnalò come predicatore e filosofo Yehudà Moscato.
Fra i rabbini cultori di Halakhà, oltre che di altri rami di scienza ebraica, va ricordato Yehudà Aryè (Leone) di Modena (1576-1648), dotto anche nelle letterature profane. Uscito dalla città natale dopo essere stato qualche tempo a Ferrara, fu rabbino predicatore a Venezia dove trascorse l’ultima parte della sua vita. Esercitò parecchi mestieri e non si mostrò sempre coerente a se stesso: pare che non sempre nella sua vita si sia mostrato ossequiente ai principi che inculcò nelle sue prediche e negli altri suoi scritti. Oltre che suoi discorsi, sue poesie in italiano e in ebraico, un’autobiografia, un epistolario e responsi rituali, sono da ricordare fra le sue opere la traduzione italiana delle parole difficili della Bibbia (Galùt Yehudà), la Historia dei riti ebraici, composta a richiesta di amici cristiani e contenente l’esposizione di riti, usanze e credenze degli Ebrei, un commento ebraico alle aggadòt talmudiche (Bet Yehudà). Fu avversario della Kabbalà e delle dottrine mistiche: scrisse in questo senso un libro intitolato Arì Noèm, ma, a quanto pare, non ardì pubblicarlo: fatto sta che rimase manoscritto fino al 1840.
Un altro scritto, a lui attribuito, ma la cosa non è del tutto sicura, è Shaagàt Aryè, (Ruggito del leone) pubblicato nel 1825, e la confutazione di un libro contro la tradizione talmudica e i riti da questa stabiliti, chiamata da chi lo confuta Kol Sàchal (Voce dello stolto). C’è però chi ritiene che tutto sia opera di Leone da Modena e, dato il modo come vi sono presentate le cose e esposti gli argomenti, è stata anche espresso il parere che le idee dell’autore siano quelle espresse nella parte del libro in cui si cerca di combattere le tradizioni talmudiche.
e) Misticismo e Kabbalà
Non mancarono poi i cultori degli studi mistici e kabbalistici. Come già sappiamo, in Italia vennero alla luce le prime edizioni dello Zòhar e su questo infierirono le persecuzioni dell’Inquisizione e della censura meno che sui libri talmudici – però qualche volta anche lo Zòhar fu inserito nell’indice dei libri proibiti. Le autorità rabbiniche si mostrarono in un primo tempo contrarie allo studio della Kabbalà fra il popolo, ritenendo che essa dovesse essere riservata alle menti più profonde; ma poi, specialmente dopo che si fecero vivi i rapporti con kabbalisti di Tzefàt e si diffusero i principi della Kabbalà, questa divenne popolare anche in Italia.
Tra i kabbalisti del secolo XVI che vissero in Italia è specialmente da ricordare Menachèm ’Azaryà da Fano che fu un seguace di Moshè Cordovero e di Yitzchàk Luria.
f) Studi esegetici e filologici
Negli studi esegetici occupò un posto segnalato ’Ovadyà Sforno (m. 1550), laureato in medicina a Ferrara nel 1501. A Roma, dove risiedette qualche tempo, fu maestro di Giovanni Reuchlin ed ebbe parte alla redazione delle norme del 1524 sul funzionamento della Comunità. A Bologna fu a capo della yeshivà di quella città. Egli è autore di un’opera di filosofia religiosa, Or Ammìm (Bologna 1557), tradotta anche in latino (1548) e di un commento alla Torà, oltre che di altre opere minori.
Grammatico e filosofo insigne fu Eliàhu Bachùr Hallevì, nato in Germania, poi trasferitosi in Italia con residenza a Padova, a Venezia, e a Roma, dove un maestro di ebraico del cardinale Egidio di Viterbo, che era in modo speciale interessato agli studi kabbalistici. Per molti anni visse a casa sua con la famiglia. Fu in rapporto di studi anche con molti dotti cristiani. Perduti i suoi averi e i suoi libri in seguito al sacco di Roma (1527), tornò a Venezia dove esercitò la professione di correttore in tipografie. Tra le sue opere sono da ricordare quella grammaticale detta Bachùr (Roma, 1518), Masòret Hamasòret (1538) nella quale dimostra che la notazione delle vocali nei testi biblici non è anteriore all’età talmudica; un vocabolario aramaico con spiegazione in latino e in tedesco (1541). Forse in conseguenza dei suoi continui rapporti con dotti non ebrei e specialmente della sua residenza presso il cardinale Egidio di Viterbo, due suoi figli passarono al Cristianesimo e collaborarono coi nostri nemici che distrussero i libri ebraici e perseguitarono gli Ebrei.
Davìd de Pomis (in ebraico Min Hatappuchìm) laureato medico a Perugia (1551) è autore di un vocabolario ebraico-latino-italiano chiamato Tzèmach Davìd (1587), e di un libro in latino (1588) in difesa dei medici ebrei contro le accuse dei Cristiani che miravano a impedire loro l’esercizio della medicina.
Tra i cultori di filologia e di esegesi va ricordato anche Leone di Modena.
g) Studi storici, geografici e politici
Anche la storia, al pari di altre discipline, come già abbiamo visto, fu coltivata in Italia da scrittori profughi dalla penisola iberica.
Samuel Usque, profugo dal Portogallo, visse a Ferrara a partire dalla metà del secolo XVI e scrisse, in lingua portoghese, un libro intitolato Consolazione alle sventure d’Israele (1552) nel quale l’autore passa in rassegna i principali avvenimenti della storia ebraica, specialmente in Spagna, a partire dall’età dei Visigoti sotto il re Sisebut (vedi vol. II pag. XXX) fino ai suoi tempi, attingendo a fonti che non ci sono pervenute.
Yosèf Hakohèn (1496-1575), profugo dalla Spagna, visse per qualche tempo nei paesi della Francia meridionale soggetti al papa e di là passò a Genova e dopo, in seguito alle espulsioni degli Ebrei da queste città, in località vicine. Egli esercitò la medicina. È autore di una Cronaca dei re di Francia e dell’impero ottomano, in ebraico, dove tratta delle guerre fra Cristiani e Musulmani in Europa e in Asia dal tempo delle crociate alla metà del secolo XVI, e si sofferma in modo speciale sugli avvenimenti che interessano gli Ebrei. Alla fine del libro sono menzionate le persecuzioni, in seguito alla Controriforma, fino al 1575, anno della morte dell’autore.
In modo particolare alla storia ebraica è dedicata un’altra sua opera ’Èmek Habakhà (Valle del pianto) che è una storia delle persecuzioni di Paolo IV e Pio V. Il libro fu pubblicato soltanto nel 1862, con aggiunta di altro autore, di cui non si conosce il nome.
Ghedalià ibn Yachìa, di famiglia oriunda dalla Spagna, abitò in varie città d’Italia: durante le persecuzioni di Pio V fu espulso dallo stato della Chiesa, perdette tutti i suoi averi e i suoi libri furono arsi. Egli scrisse Shalshèlet HaKabbalà (Catena della tradizione) che è una cronaca del tipo di quella di Avrahàm ben Davìd (vedi vol. II, pag. XXX) e del Sèfer Hayuchasìn di Avrahàm Zaccuth. Essa comincia dalle origini del mondo e contiene molto materiale leggendario: si ferma in modo speciale sui Tannaìm e gli Amoraìm (vedi vol. I, pag. XXX) e sui rabbini successivi. Una seconda parte del libro è specialmente di argomento filosofico, scientifico e mistico, ma essa contiene pure notizie sulle persecuzioni dall’età delle crociate a quella di Pio V.
Opera geografica importante è quella di Avraham Farissol di Ferrara, Orchòt ’Olàm (Vie del mondo) pubblicata nel 1586. Essa contiene anche elementi di geografia mitica e leggendaria.
Nato e vissuto in Italia nel secolo XVI è il dotto che si può considerare come il fondatore dello studio critico della storia e delle tradizioni ebraiche. È questi Azaryà De Rossi (Min Haadummìm) nato a Mantova nel 1513, vissuto poi a Bologna, Ancona e Ferrara dove morì nel 1578. Profondo studioso della letteratura ebraica tradizionale, conoscitore del latino, della letteratura ebraica, della storia antica e della letteratura italiana, si interessò in modo particolare alla storia ebraica nel periodo del secondo Tempio. La sua opera principale Imrè Binà, pubblicata nel 1574, contiene soprattutto, oltre alla descrizione di un terremoto che colpì Ferrara ed altre parti d’Italia nel 1570, una traduzione ebraica della lettera di Aristea (vedi vol. I, pag. XXX) fatta da una versione latina, dato che, come dichiara egli stesso, non conosceva la lingua greca, e l’esame di alcune tradizioni storiche e cronologiche contenute nella letteratura talmudica e midrashica giungendo alla conclusione che non sempre esse reggono alla critica, e che sono fallaci i tentativi fatti per determinare la data dell’avvento dell’era messianica. L’opera fu aspramente avversata dagli elementi rigidamente attaccati alla tradizione che non ammettevano che ci potessero essere errori nelle notizie fornite dagli antichi maestri: molti rabbini d’Italia e di Èretz Israèl, sotto l’influenza dei metodi usati dalla Chiesa cattolica, dichiararono eretico il libro del De Rossi e ne vietarono la lettura.
Tra gli scrittori di argomento politico occupa un posto notevole Simchà (Simone) Luzzatto (1583-1673) specialmente noto per il suo Discorso circa il stato degli Hebrei (Venezia 1638) nel quale si propone di dimostrare il vantaggio che i paesi possono trarre dagli Ebrei nel commercio e nell’industria. Scrisse pure un libro su Socrate e alcuni responsi rituali.
Studi filosofici e profani
Notevole è il fatto che non mancarono Ebrei che scrissero in lingua italiana. Fra questi è specialmente degno di menzione nell’età dell’umanesimo Yehudà (Leone) Abravanèl, detto Leon ebreo, figlio di Yitzchàk. Scrisse un’opera filosofica, Dialoghi d’amore (1505) che ebbe grande diffusione e fu tradotta in varie lingue. Corse voce che l’autore avesse apostatato, ma pare che essa sia infondata: passò bensì al Cristianesimo un suo figlio che egli lasciò in Portogallo quando con la famiglia abbandonò la Spagna. (1492). Leone è anche autore di poesie ebraiche, in una delle quali esprime il suo dolore per la lontananza dal figlio e la speranza che questi rimanga fedele all’Ebraismo, speranza che rimase delusa.
Si ricordano pure due poetesse ebree in lingua italiana, Debora Ascarelli e Sara Copia Sullam.
Anche di altre scienze profane oltre che di medicina si occuparono dotti ebrei. Jacob Mantino tradusse in latino scritti di autori arabi e alcuni scritti del Maimonide (vedi vol. II pag. XXX), egli va ricordato anche per la sua opposizione a Davìd Reuvenì e Shelomò Molcho. A Roma fu medico del papa Paolo III e professore di medicina all’Università.
Amato (in ebraico Chavìv) Lusitano, nato da famiglia di Marrani in Portogallo, dopo varie peregrinazioni si stabilì in Italia (1540-1555), a Ferrara, Roma, Ancona e vi esercitò la medicina e l’insegnamento di scienze mediche; per sfuggire al rogo che lo minacciava in Ancona si trasferì a Pesaro e quindi in Turchia dove morì nel 1568. È autore di varie opere di medicina in lingua latina.
Èretz Israèl e paesi ottomani
a) Letteratura ritualistica e talmudica
Tra i numerosi rabbini che si occuparono di Talmud e Halakhà ricorderemo Elia Mizrachì (1455-1525 circa) e David ben Zimrà, suo contemporaneo, entrambi di origine spagnola. Fra tutti eccelle di gran lunga Yosèf ben Efràim Caro, nato in Spagna nel 1488: dopo varie peregrinazioni in diverse Comunità della Turchia, si trasferì in Èretz Israèl, e a Tzefàt, dove divenne un seguace di Ya’akòv Berav e, da lui nominato membro del Sinedrio che quegli voleva costituire, fece parte del gruppo mistico kabbalistico che fioriva in quella città. Sua grande opera è quella detta Bet Yosèf nella quale, in forma di commento ai Turìm di R. Ya’akòv ben Ashèr (vedi vol. II pag. XXX) cita e discute le fonti di cui questi si servì e le opinioni dei dotti posteriori fino ai suoi tempi. L’opera acquistò subito grande rinomanza e fu stampata a Venezia negli anni 1551-1559. Il Bet Yosèf è destinato ai dotti: ad uso del popolo il Caro ne compilò poi un compendio, detto Shulkhàn ’Arùkh, nel quale sono omesse le discussioni e le citazioni di fonti ed è indicata la regola pratica da seguire secondo l’autore in base agli studi dei dotti e agli usi invalsi. Lo Shulkhàn ’Arùkh, stampato per la prima volta, pare, a Venezia nel 1564, acquistò grandissima diffusione e popolarità e diventò, ed è fino ad oggi, il testo ritualistico più accreditato. L’opera è ordinata e divisa in parti e capitoli come i Turìm ed in essa ogni capitolo è suddiviso in paragrafi e preceduto da un titolo. Il Caro compose inoltre un commento al Mishnè Torà (vedi vol. II pag. XXX) detto Kèsef Mishnè, nel quale cita e discute le fonti del Mamonide. Egli è pure autore di altre opere minori di argomento rituale e talmudico e di numerosi responsi. Morì a Tzefàt nel 1575.
Tra altri ritualisti notevoli che fiorirono in quel tempo nell’impero ottomano ne ricorderemo due, nati entrambi in Italia, Moshè di Trani che successe al Caro nel rabbinato di Tzefàt e Shemuèl di Modena, rabbino a Salonicco. Gli autori conosciuti di scritti talmudici e ritualistici che vissero in Turchia intorno a quel tempo ammontano a oltre un centinaio.
b) Letteratura esegetica e omiletica
Anche questo campo fu coltivato: ma, a differenza di quel che fecero gli esegeti della scuola francese e della scuola spagnola nell’età precedente (vedi vol. II, pag. XXX) che mirarono soprattutto a cogliere il senso letterale dei testi, si pensò ora piuttosto a trovare in questi allusioni a interpretazioni mistiche e spinte a vita ascetica. Tra i più noti autori ricorderemo Moshè Alshèkh che scrisse commenti su vari libri biblici, e Moshè Almonino, di cui si conservano molti scritti omiletici. Egli fu in rapporti con Yosèf Hanasì e agì con lui a sostegno dei diritti ebraici. Scrisse pure in spagnolo in caratteri ebraici di argomenti filosofici e scientifici.
Tra gli esegeti è rinomato il già citato Elia Mizrachì autore di un commento a quello di Rashì (vedi vol. II, pag. XXX) sulla Torà.
c) Letteratura kabbalistica
Come già sappiamo, nel secolo XVI ebbero grande diffusione le idee kabbalistiche collegate con le speranze messianiche. Il libro classico della Kabbalà, lo Zòhar (vedi vol. II, pag. XXX) che era fin allora conosciuto solo fra un cerchio assai ristretto ed era rimasto inedito, fu pubblicato a Mantova nel 1558 e successivamente a Cremona nel 1559 e quindi diffuso e studiato negli ambienti mistici. Il centro principale dei kabbalisti era a Tzefàt e là fiorì la letteratura kabbalistica.
Fra gli autori di questo argomento è da ricordare Shelomò Alkabètz Halevì, del quale poco è rimasto, ma che divenne famoso per l’inno sabbatico da lui composto, Lekhà Dodì, che venne poi accolto nella liturgia di tutti i riti e di quasi tutte le Comunità.
Più notevole come autore di opere kabbalistiche a noi giunte è Moshè Cordovero (1522-1570) nato a Cordova e poi residente a Tzefàt, scolaro di Yosèf Caro nelle scienze talmudiche. Egli compose un commento allo Zòhar e vari scritti di carattere mistico.
Sopra tutti è da ricordare Yitzchàk Luria (1534-1572) nato a Gerusalemme da famiglia proveniente dalla Germania e perciò designato con l’appellativo Ashkenazì. Il suo nome suole abbreviarsi con la parola ebraica Haarì (il Leone) formata dalle iniziali di Haashkenazì Rabbì Yitzchàk. Fu nel Talmud allievo di David ben Zimrà, ma poi si occupò quasi esclusivamente di Kabbalà, che, secondo i suoi seguaci, rappresenta il più alto grado di sapere dopo la Mikrà e il Talmud che ne costituiscono scalini di preparazione. Di lui, come di altri kabbalisti, si narra che ebbe visioni soprannaturali e che compì prodigi e si appartò per sette anni sulle rive del Nilo, comparendo in seno alla famiglia solo nei giorni di shabbàt. Tornato in Èretz Israèl (1569), dopo un breve soggiorno a Gerusalemme si stabilì a Tzefàt. Qui agì profondamente su numerosi scolari, e a lui si devono specialmente regole mistiche sulle tefillòt e interpretazioni mistiche dei Nomi divini. Morto prematuramente in età di 38 anni, fu dai suoi seguaci ritenuto accolto in cielo in compagnia di Dio e degli angeli.
Il suo sistema kabbalistico, che divenne il prevalente, non fu esposto per iscritto da lui stesso, ma dal suo allievo Chayìm Vitàl Calabrese (1543-1620) figlio di un copista di testi sacri (Sifrè Torà, tefillìn, mezuzòt) proveniente dalla Calabria. Nelle opere del Calabrese, fra cui specialmente da ricordare quella detta ’Ètz Chayìm che circolò manoscritta durante la vita dell’autore e parecchio tempo dopo, e solo nel 1784 venne stampata, è esposto quel sistema che si usa definire come Kabbalà pratica, del quale può dirsi iniziatore il Luria che si basò su elementi che si trovano nella letteratura kabbalistica anteriore. Secondo quel sistema certe azioni dell’uomo hanno effetti mistici sulle sfere superiori e specialmente importanti sono determinate intenzioni (kavvanòt) durante la preghiera e l’adempimento di certe mitzvòt, atti vari di pietà, astinenze, rinunzie ai beni di questo mondo, studio delle dottrine mistiche; per mezzo di questi ed altri atti si attuano il congiungimento dell’anima col Creatore e l’armonia cosmica, si possono compiere azioni soprannaturali e si affrettano la venuta del Messia e la redenzione di Israele dell’umanità. Di tale dottrina fa parte anche la credenza nella metempsicosi, già esposta e sostenuta da alcuni in precedenza. La dottrina del Luria e del Calabrese insegna che a difetti e mancanze dell’anima in una vita si può rimediare in vite successive durante le quali l’anima stessa risiede in corpi di altri esseri umani o anche di ammali; la migrazione termina quando l’anima si sia interamente purificata.
Fra altri scrittori di Kabbalà pratica ricorderemo Eliàhu de Vidas autore dell’opera, diventata popolarissima, detta Reshìt Chokhmà composta intorno al 1575, e il poeta Israèl Nagiara (1530-1600 circa). Le dottrine della Kabbalà pratica ebbero molti seguaci, ma anche non pochi oppositori.
d) Letteratura storica
Anche la storia venne coltivata da scrittori ebrei di origine spagnola viventi nell’impero turco.
Yehudà ibn Verga, che visse a Siviglia nella seconda metà del secolo XV, pose le basi ad un’opera storica detta Shèvet Yehudà, continuata ed integrata poi dal figlio di lui Shelomò a cui si deve il più dell’opera e dal figlio di questo Yosèf che vissero in Turchia. L’opera fu pubblicata ad Adrianopoli nel 1554 e contiene il racconto delle persecuzioni di cui furono bersaglio gli Ebrei specialmente in Spagna e in Francia nei secoli XIV e XV, con particolare riguardo alle discussioni religiose. L’opera, per quanto non sempre ordinata, è una delle fonti principali per la storia degli Ebrei nel medioevo perché attinge a narrazioni e documenti che non ci sono pervenuti.
Avrahàm Zaccut, astronomo e architetto, che ebbe cariche importanti in Portogallo nella seconda metà del secolo XV, e si occupò della preparazione del viaggio di Vasco de Gama in India, e poi si trasferì a Venezia e quindi in Turchia, scrisse il Sèfer Yuchasìn con importanti notizie di storia, specialmente letteraria, su quel che avvenne ai suoi tempi. Fu pubblicato per la prima volta nei 1566.
Notevole importanza come fonti storiche hanno gli scritti di Eliàhu Capsali (1490-1555 circa), nativo di Candia (Creta), allora soggetta a Venezia, che studiò a Padova. Egli scrisse varie opere sulla storia dell’impero turco ai tempi della conquista di Bisanzio, di cui si sono conservate solo alcune parti In modo speciale egli si occupò dei profughi dalla penisola iberica che si stabilirono in Turchia. Altra sua opera, scritta nel 1517 (Divrè Hayamìm Lemalkhùt Venezia) tratta delle guerre di Venezia, Padova e Candia e delle sorti delle Comunità dell’Italia settentrionale al tempo della conquista tedesca.
Fra gli storici è pure da ricordare David Gans (1541-1613), nato in Germania, vissuto a Cracovia e a Praga, dotto nelle scienze ebraiche e in quelle profane autore anche di libri che trattano di queste. La sua opera storica in ebraico Tzèmach Davìd, da non confondersi con altra opera dello stesso nome, tratta, nella prima parte, della storia ebraica dalle origini ai suoi tempi; nella seconda di storia generale con rari riferimenti a quella ebraica.
e) Filosofia e scienze profane
Nato in Grecia e vissuto per qualche tempo nei paesi ottomani è Yosèf Shelomò Del Medigo (1591-1655), discendente di Eliàhu Del Medigo. Nato a Candia, passò in Italia e dopo di essersi dato allo studio delle discipline ebraiche nelle quali ebbe come maestro, fra altri, Leone di Modena, e di varie scienze in università italiane, dove fu scolaro anche di Galileo Galilei, si trasferì poi in Egitto e quindi a Costantinopoli e in Polonia e Lituania, dove esercitò la medicina, e ad Amburgo dove fu rabbino e predicatore della Comunità sefardita, ad Amsterdam e poi a Francoforte sul Meno. Egli ebbe frequenti contatti coi Caraiti e subì in parte la loro influenza. Nella sua corrispondenza con alcuni di questi si mostrò contrario non solo alla Kabbalà ma anche, fino ad un certo punto, alla letteratura talmudica. Ma in seguito, per aderire al desiderio di un suo mecenate di Amburgo, scrisse il libro Metzarèf Hachokhmà in appoggio della Kabbalà. In una sua grande opera, Elìm, tratta di vari problemi scientifici. Nelle sue idee il Del Medigo presenta molte incertezze e contraddizioni, come risulta anche dai suoi vari atteggiamenti di fronte alla Kabbalà a cui abbiamo sopra accennato.
Opere di argomento matematico scrisse il già ricordato Eliàhu Mizrachì.
Europa centrale ed orientale
a) Talmud e Halakhà
Nei paesi del centro e dell’oriente d’Europa continuarono ad essere molto coltivati gli studi talmudici, e i dotti si diedero in modo speciale a ricerche sottili tendenti a rilevare e risolvere contraddizioni, reali o apparenti, tra le varie fonti talmudiche. Alle discussioni dei dotti assistevano e partecipavano nelle yeshivòt molti del popolo, e lo studio talmudico andò sempre più diffondendosi, specialmente dopo che, con l’invenzione della stampa, i libri furono facilmente alla portata di tutti. Tra i dotti del tempo ricorderemo Ya’akòv Pollak (morto intorno al 1530) autore di commenti e responsi, Meir Schiff (1600-1645 circa) a cui si deve una delle più note raccolte di discussioni su passi talmudici, Yom Tov Lipman Heller autore di commenti alla Mishnà (Tosefòt Yom Tov) che si trovano stampate nella maggior parte delle edizioni di questa, e di note alle decisioni di R. Ashèr (vedi vol. II, pag. XXX).
Anche la aggadà e la predicazione morale furono coltivate, e numerose raccolte vennero pubblicate. Specialmente notevole è l’opera Shenè Luchòt Haberìt, ampia raccolta di insegnamenti di vario genere con tendenze spiccatamente kabbalistiche e mistiche di Yeshayà Halevì Hurvitz (1570-1630 circa) vissuto lungamente in Èretz Israèl e morto a Tiberiade. Al libro, diventato assai diffuso e popolare, fece delle aggiunte il figlio dell’autore.
Gli studi talmudici e halakhici ebbero particolare sviluppo in Polonia, che divenne il principale centro di essi e tale rimase fino a che venne interamente distrutto il centro ebraico in quel paese, durante la seconda guerra mondiale. Molti rabbini, capi di Comunità e delle numerose yeshivòt, attivi per lo più anche come membri dei consigli delle Comunità e come emanatori di disposizioni generali di interesse pubblico (takkanòt) scrissero, oltre che numerosissimi responsi, opere varie consistenti in commenti al Talmud e ai suoi più antichi interpreti e discussioni e decisioni rituali. Queste ultime avevano grandissima importanza pratica per regolare la vita dei singoli e delle Comunità e sono pure fonte storica di primissimo ordine. Ricordiamo qui alcuni degli autori più noti e importanti.
Moshè Isserless (Remà) (1520-1572 circa) scrisse un commento a alcune parti dei Turìm, detto Darkhè Moshè e note (Haggaòt) allo Shulkhàn ’Arùkh aventi lo scopo principale di notare l’uso e la pratica delle Comunità ashkenazite nei casi in cui esse differiscono da quelle notate dal Caro che si fonda sulle tradizioni sefardite; non di rado poi dà spiegazioni al testo dello Shulkhàn ’Arùkh o aggiunge particolari non registrati in quello. Dopo la prima pubblicazione, quelle note vengono inserite in tutte le edizioni dello Shulkhàn ’Arùkh.
Shelomò Luria (1510-1573 circa) (Maharshàl o Rashàl) scrisse commenti al Talmud noti col nome di Yam Shel Shelomò. Altri commentatori del Talmud furono R. Meìr di Lublino (Maharàm) morto nel 1616 e R. Shemuèl Eli’èzer Idels (Maharshà) morto nel 1631. Mordechài Yafè (1540-1612), è autore dei Levushìm, alcuni dei quali sono una specie di rifacimento dello Shulkhàn ’Arùkh, di cui sono mantenuti l’ordinamento e la divisione, e nel quale si dà una certa parte alla spiegazione dei motivi su cui si fonda la regola data senz’altro nello Shulkhàn ’Arùkh. L’autore tiene conto anche delle note dell’Isserles. Altri Levushìm contengono discussioni e spiegazioni varie con tendenze filosofiche e talvolta kabbalistiche.
Yoel Sirkes, morto nel 1640, è autore di Bàyit Chadàsh, commento ai Turìm, di tipo analogo al Beth Yosèf.
Tra i commenti ad alcune parti dello Shulkhàn ‘Arùkh ebbero speciale diffusione quello detto Turè Zahàv di R. Davìd Halevì e quello detto Siftè Kohèn di Sciabbetài Hakoèn (Shakh) entrambi composti nella prima metà del secolo XVII.
Anche per la stampa di libri ebraici ebbe notevole importanza la Polonia a partire dal 1530. Grande sviluppo ebbe dopo che, in seguito alla censura e all’Inquisizione, diminuì in questo campo l’importanza dell’Italia.
Olanda
Posto speciale nella storia della cultura ebraica e della letteratura ebraica ha l’Olanda. Gli scrittori ebrei, provenienti da famiglie di Marrani, e che avevano essi stessi praticato il Cristianesimo, avevano assorbito molto della cultura non ebraica, e in genere scrissero in portoghese e in spagnolo, talvolta in latino e raramente in ebraico.
Il più noto di essi è Menashè Ben Israèl (1604-1657). Egli nacque a Lisbona da famiglia di Marrani che poi si trasferì ad Amsterdam. In questa città fu in rapporto con dotti non ebrei, aprì una tipografia ebraica e fu poi capo di una yeshivà. Egli scrisse un’opera (Conciliador) avente lo scopo di dirimere le contraddizioni apparenti nel testo biblico: fra gli altri suoi scritti ricorderemo ancora una esposizione dei riti in lingua portoghese e altre opere in latino per confermare le credenze sul mondo futuro e sulla resurrezione dei morti. Menashè Ben Israèl è poi anche importante per l’azione svolta allo scopo di ottenere la riammissione degli Ebrei in Inghilterra.
Tra i rabbini che dalla penisola iberica si trasferirono in Olanda è specialmente rinomato Yitzchàk Aboav.
Va qui ricordato un ebreo portoghese che visse in Olanda, Urièl da Costa; fu tormentato da dubbi in tutta la sua vita, e la finì tragicamente. Egli nacque nel 1585 in Oporto col nome di Gabriel Da Costa da famiglia di Ebrei convertiti al Cristianesimo, che non appartenevano al gruppo dei Marrani, ebbe educazione cristiana e filosofica e fu assunto a cariche nella Chiesa. In seguito, non sentendosi di aderire a certi suoi dogmi e portato dallo studio della Bibbia ad avvicinarsi al Giudaismo, si trasferì in Amsterdam, dove ritornò ufficialmente e apertamente all’Ebraismo e assunse il nome di Urièl. Ma neppure l’Ebraismo rabbinico lo soddisfaceva e quindi, essendosi allontanato dalla esatta pratica di molti riti e avendo per questo incontrato vive opposizioni, si trasferì ad Amburgo dove scrisse e mandò al rabbinato di Venezia un suo scritto in opposizione a molti insegnamenti rabbinici e tradizionali per quello che riguarda sia il modo di osservare le mitzvòt, sia le idee generalmente accettate. Leon da Modena compose una confutazione al suo scritto e il rabbinato di Venezia pronunciò contro di lui la scomunica. Allora ritornò in Amsterdam dove non solo proseguì nella via percorsa in Amburgo, ma cercò pure di confutare insegnamenti biblici che venivano ad intaccare anche princìpi del Cristianesimo. Allora i capi della Comunità di Amsterdam lo citarono davanti al tribunale dello stato che lo condannò, lo incarcerò e poi lo liberò dietro pagamento di una forte multa. Abbandonato da tutti, Ebrei e Cristiani, e persino dai parenti, si dichiarò pentito e ottenne il perdono dal rabbinato di Amsterdam (1630). Ma poi continuò nella sua vita non secondo le norme ebraiche, sconsigliò dalla conversione due Cristiani che volevano farsi ebrei e fu minacciato di nuova scomunica se non avesse cambiato vita e non avesse ritrattato. Nel 1639 ritrattò pubblicamente le proprie posizioni nel bet hakkenèset, dove fu sottoposto a umiliazioni di vario genere e formalmente assolto.
Ma il suo spirito non si calmò, e nell’anno successivo si diede la morte con due colpi di pistola. Negli ultimi tempi della sua vita scrisse la sua autobiografia in latino.
Letteratura popolare
Nell’età di cui ci stiamo occupando ebbe notevole sviluppo e diffusione la letteratura popolare ebraica nei vari linguaggi parlati dagli Ebrei, che erano dappertutto la lingua del paese con caratteristiche speciali e con introduzione di elementi ebraici. Si ebbero così scritti in giudeo-italiano, naturalmente con varianti dialettali, giudeo-spagnolo, giudeo-provenzale, giudeo-arabo, giudeo-persiano, giudeo-tedesco. Quest’ultimo (yiddish) acquistò particolare importanza e diffusione. Si tratta di traduzioni e rifacimenti della Bibbia e delle preghiere, di aggadòt talmudiche, di libri di istruzione morale e rituale, di raccolte di novelle, di riduzioni e rifacimenti di opere storiche, il tutto ad uso di coloro che non erano in grado di comprendere l’ebraico, e specialmente delle donne.
Le opere di questo genere sono per lo più scritte in caratteri ebraici, che erano i soli conosciuti dalla quasi totalità degli Ebrei in molti paesi.