Arrigo Levi
Ma come è difficile essere ebrei! So bene che lamentarsi dei problemi che derivano oggi a chi è ebreo in un Paese civile come l’Italia è, per un sopravvissuto come me, addirittura imbarazzante, e quasi vergognoso. So anche che se scrivessi una autobiografia dovrei intitolarla, come intitolò Vittorio Segre la sua, Storia di un ebreo fortunato. Una volta che un ebreo (per di più un Levi, discendente diretto di uno degli 8580 Leviti di età fra i 30 e i 50 anni – non so quale tra loro – censiti all’uscita d’Egitto da Mosè e Aronne, che erano anch’essi dei Levi), nato in una città europea nel 1926, può permettersi di riflettere, ottant’anni dopo, sui fastidi che gli tocca subire per il fatto di essere ebreo, dovrebbe soltanto ringraziare il cielo (o la saggezza di suo padre), se è scampato alla Shoah, e non preoccuparsi delle idiozie che di tanto in tanto gli tocca sentirsi dire in quanto ebreo.
Mentre la quasi totalità degli ebrei d’Europa veniva massacrata o gassata, io me ne stavo in Argentina a scrivere sui muri slogan contro Perón, che ci sembrava tanto fascista. Dei campi di sterminio avemmo notizia soltanto a guerra finita, e la buona sorte, e la bontà di tanti Giusti italiani, ha voluto che dei miei parenti e cugini uno soltanto non tornasse a casa dai lager. A ventidue anni sono partito per Israele.
Andavo in Israele perché trovavo intollerabile l’idea che anche quel mezzo milione o poco più di sopravvissuti venisse buttato a mare, come prometteva tutto il mondo arabo, e non solo ne sono uscito vivo, ma vivo ne uscì (non per merito mio, che ero un mediocre soldatino) lo Stato ebraico: che forse aveva, alla fine della guerra, qualche soldato in più della somma degli eserciti arabi che lo avevano aggredito, come affermano gli storici, ma che quella guerra, ve lo assicuro, l’aveva cominciata con armi quasi preistoriche, e se la vinse lo si dovette soprattutto al fatto che i cittadini-soldati (senza uniformi, saluti militari e parate), che a ogni tregua se ne tornavano alle loro case a lavorare, sapevano che o vincevano o morivano tutti, con le loro famiglie; mentre di fronte a loro c’erano «nemici» a cui ragionevolmente premeva soprattutto di non lasciarci la pelle.
Poi mi sono ritrovato a vivere in un’Italia e in un’Europa risanate, e non posso dire di aver avuto mai veri fastidi per il fatto di essere ebreo. Quando il leader di uno Stato arabo intimò all’editore di questo giornale di cacciarmi da direttore dello stesso perché ero ebreo, quell’editore, che era un gentiluomo, rischiò seri danni alla Fiat per rispondergli di no. La cosa finì lì.
Non sono nemmeno mai stato aggredito in un ascensore, come Elie Wiesel, da un negazionista antisemita. E allora, vien fatto di dire, di che ti lamenti? Mi lamento del fatto che il 49 per cento degli italiani siano oggi convinti (così dice un sondaggio: per fortuna ogni tanto sbagliano) che gli ebrei parlano troppo della Shoah: che seccatori! Ma se noi parliamo della Shoah non lo facciamo per il bene degli ebrei: ma dei popoli ultracivili che si applicarono con tanto zelo ad ammazzarci tutti. Oggi questi popoli sono ritornati in sé, sono diventati tanto buoni da impegnarsi anche a non farsi mai più guerre tra loro. Ma forse tener vivo il ricordo di quell’orrore è ancora educativo: per loro, dico, non per gli ebrei che, tutt’al più, possono ancora interrogarsi sul perché il Signore Iddio non protesse allora il Suo popolo. (Non hanno ancora trovato una risposta, salvo ammettere che anche il Signor Iddio è a volte impotente di fronte alla malvagità degli uomini).
Ricordare la Shoah, a noi non fa affatto piacere; anzi, ci fa male, molto male. E siamo grati a chi ci vuol bene. Quando un Papa venne a dirci in sinagoga che noi, il popolo di Gesù di Nazareth e dei dodici apostoli, eravamo i suoi «fratelli maggiori», ci commovemmo fino alle lacrime, e nessuno di noi si sognò mai di dirgli che forse i Papi potevano anche pensarci un po’ meno di duemila anni per fare questa rivelazione.
Mi lamento anche del fatto che si sia accesa fra ebrei di idee politiche diverse una diatriba sul fatto se sia lecito a un ebreo della Diaspora parlar male d’Israele, anzi, del governo in carica a Gerusalemme, o se, facendolo, non ci si comporta da antisemita: come se non ne parlassero già abbastanza male un’elevata percentuale di israeliani, senza per questo sentirsi antisemiti o anti-israeliani. Cento e più famosi «intellettuali» ebrei inglesi hanno firmato un manifesto per sostenere questo diritto. Bella scoperta! Qualche decennio fa, in una column settimanale che tenevo sul Times di Londra, ritenni giusto parlar male di Begin, che aveva invaso il Libano, e ricevetti per questo un rimprovero da un caro amico ebreo americano, secondo il quale un ebreo non poteva criticare Israele; mi toccò rispondergli, spiegando come io avessi non tanto il diritto quanto il dovere di dire quello che pensavo di Begin; e non perché questo diritto-dovere me lo desse l’aver fatto la «guerra d’indipendenza» d’Israele, ma perché avevo caro, molto caro, allora come oggi, il futuro dello Stato ebraico. Come mi è cara la pace, e il futuro, in cui spero ancora, di uno Stato palestinese; chissà che un giorno, se vivo molto, ma molto a lungo, non li veda convivere pacificamente l’uno accanto all’altro! Lo fanno Galli e Unni, che si erano combattuti per secoli, perché non dovrebbero far pace anche israeliani e palestinesi?
Da ultimo, non succede anche che un professore ebreo dal nome insigne, che mi era finora noto soprattutto per aver scritto un libro colto e divertente sul «mangiare alla giudia», ma che pare proprio sia uno storico patentato, ripropone con impegno la favola dei «sacrifici rituali», prendendo per buone, senza altre conferme, le confessioni estorte sotto tortura agli ebrei presunti uccisori del Santo Simonino: come se l’inquisitore domenicano inviato subito da Papa Sisto IV a Trento non fosse giunto già allora alla convinzione che si trattava di «commenta et fabulae», che recavano ingiuria non tanto agli ebrei ingiustamente condannati a morte, ma alla «fede cristiana». Non che sia vietato agli ebrei di parlar male degli ebrei: per carità, questa è una nostra nobile tradizione, dai Profeti antichi fino a oggi, e può anche essere un esercizio salutare. Ma insomma, possibile che gli esami non finiscano mai? È proprio vero l’antico detto: chi è un ebreo? Uno che dice di esserlo; perché un non ebreo che dica di essere ebreo può essere soltanto matto da legare.
A questo punto perfino un laico miscredente come me è talvolta tentato di rimetter piede in sinagoga! (Debbo a un amico monsignore di aver partecipato, qualche mese fa ad Assisi, dopo tempo immemorabile, a una preghiera ebraica. Mi pregò di farlo, perché senza di me in tutta Assisi c’erano soltanto nove ebrei, e ancorché tutti fossero gran rabbini del loro Paese, sarebbero stati impotenti senza un decimo ebreo; sicché mi toccò di esser presentato agli altri dall’amico rabbino Di Segni, che non è così serio come sembra, dopo qualche esitazione, come «il rabbino del Quirinale». Quante cose capitano quando accade di vivere un po’ a lungo!).
La Stampa 16/2/2007