Benè Romi. La presenza ebraica a Roma nel Settecento, in Et ecce gavdivm, Gli ebrei romani e la cerimonia di insediamento dei pontefici a cura di Daniela Di Castro, Roma, Araldo De Luca Editore, 2010, pp. 12-21
Silvia Haia Antonucci e Claudio Procaccia[1]
1 – La Chiesa nel Settecento e la condizione degli ebrei di Roma
Nel corso del Settecento le trasformazioni della società europea, a cui si associarono i conflitti di classe e l’affermazione della borghesia, portarono alle estreme conseguenze il declino politico del papato[2], iniziato con la pace di Westfalia (1648)[3] e accentuato dalla guerra di successione spagnola (1701-1714)[4]. Tale processo terminò de facto con l’invasione da parte delle truppe napoleoniche dello Stato Pontificio (15 febbraio 1798), la deposizione del papa, la deportazione in Francia e la morte di Pio VI (1775-1799)[5]. Nel contesto sopra descritto, a distanza di duecentoquarantacinque anni dalla creazione del ghetto (1555) ebbe inizio per la collettività ebraica capitolina una fase estremamente delicata.
Va ricordato che, nel secolo dei Lumi, la condizione degli ebrei era ancora determinata dalle norme restrittive che disciplinavano la vita degli abitanti del ghetto. II recinto di Roma, creato in pieno Concilio di Trento (1545-1563), era il risultato della convergenza tra le attività del Tribunale dell’Inquisizione a Roma, istituito nel 1542, e le politiche controriformistiche[6]. Tuttavia, nonostante il trascorrere dei decenni e gli importanti cambiamenti politici, culturali, scientifici ed economici occorsi nell’Europa dell’Età moderna, gli ebrei romani, nel XVIII secolo, erano costretti a vivere in un’area dalle dimensioni assai ridotte (circa tre ettari), in spazi inevitabilmente sovraffollati e malsani, all’interno dei quali erano stipate migliaia di persone[7]. A Roma erano fortemente ristretti gli ambiti legali delle relazione tra ebrei e cristiani, riconducibili, nella sostanza, alle sole transazioni economiche, essendo vietate tutte le forme di convivialità. Per gli ebrei erano, altresì, assai ridotti la mobilità sul territorio, la libertà di culto e l’accesso alle professione ed ai mestieri. Essi non potevano abitare in luoghi diversi dal recinto ed era loro concesso un unico luogo di preghiera, situato all’interno dell’area di reclusione[8]. Il Settecento, tra l’altro, fu caratterizzato dalla crescita della pressione conversionistica, della quale si ricorda l’incremento rilevante dei battesimi forzati[9]. Fu solo con la fine del secolo che gli abitanti del ghetto sperimentarono libertà analoghe a quelle dei non ebrei e ciò avvenne durante il breve periodo della Repubblica Romana (1798-1799)[10].
Pertanto, nonostante il progressivo affermarsi in Europa delle idee illuministe, l’atteggiamento del papato nei confronti della comunità ebraica romana non fu segnato da significative svolte dal punto di vista “liberale”, analogamente a quanto stava accadendo in molte altre aree d’Europa, ove i processi di emancipazione degli ebrei avevano avuto inizio[11]. Al contrario, l’ultimo quarto del Settecento fu caratterizzato da un inasprimento della normativa che disciplinava la vita degli ebrei[12].
Nel XVIII secolo la collettività ebraica continuò il suo lento declino, anche se non si registrarono momenti di crisi acuta di carattere economico o sociale, se non in occasione del cosiddetto “Moed di piombo” (1793)[13]. In effetti, l’adattamento al sistema pontificio aveva consentito comunque la sopravvivenza plurisecolare degli ebrei nel ghetto, anche per la mancata attuazione di qualsiasi politica ecclesiastica volta all’eliminazione della componente ebraica da Roma, a differenza di quanto era accaduto nella prima Età Moderna nei territori sotto il controllo della corona spagnola[14].
2 – La situazione amministrativa, economica, finanziaria dello Stato Pontificio e l’Università degli Hebrei
Le autorità ecclesiastiche tentarono per tutto il secolo XVIII di riformare il sistema-Stato Pontificio con l’obbiettivo di esercitare un maggiore controllo sul territorio allo scopo di ridurre gli effetti negativi dei privilegi degli aristocratici e delle municipalità, nonché di semplificare il complesso sistema doganale. Il tentativo era quello di modernizzare e migliorare il funzionamento dell’apparato amministrativo e della struttura economica dello Stato ecclesiastico[15], anche attraverso il risanamento della finanze pontificie, la riduzione del peso dell’imposizione fiscale, il miglioramento delle condizioni del territorio con le bonifiche delle paludi dell’Agro Pontino[16] ed il rafforzamento di infrastrutture importanti per l’economia del territorio, quali erano i porti di Ancona[17] e di Civitavecchia[18].
Non diversamente dal contesto generale, anche la struttura della Comunità ebraica romana necessitava di profonde riforme atte a risollevare un organismo che risentiva di una condizione finanziaria disastrosa. L’Università degli Hebrei era un’istituzione, gestita dalle persone più facoltose della collettività ebraica, che dal punto di vista politico-amministrativo aveva, per alcuni versi, un’organizzazione analoga a quella di una corporazione di e per altri, a quella di un municipio. Pertanto aveva un raggio assai più ampio, perché regolava e controllava ogni aspetto della vita degli ebrei romani[19]. Tale struttura aveva il compito di rapportarsi con le istituzioni ecclesiastiche e capitoline, e di garantire l’ordine interno anche grazie al supporto di istituzioni quali le Confraternite (Chevrot) e le sinagoghe (Scole), che assicuravano assistenza materiale e spirituale soprattutto alle classi più povere del ghetto.
La situazione degli abitanti del recinto nel XVIII secolo era assai difficile, e la condizione delle finanze della Comunità ebraica era critica a causa di un “debito pubblico” crescente, dovuto soprattutto ai crediti vantati dalla Camera Apostolica[20]. A quanto già sottolineato va aggiunto che il gettito fiscale della Comunità fu in parte compromesso dall’abolizione dei banchi di prestito ebraico, voluta da Innocenzo XI nel 1682[21].
Tutto ciò rendeva problematico il mantenimento di condizioni di vita accettabili anche per i canoni dell’epoca. Tuttavia, la situazione economica degli ebrei di Roma non degenerò mai in forme di indigenza tali da compromettere l’esistenza stessa del sistema-ghetto.
Infatti, dal punto di vista economico e sociale l’intervento dello Stato Pontificio fu contrassegnato da un marcato paternalismo, che trovava forte consenso nella popolazione romana grazie alla validità del sistema assistenziale tipico dell’Urbe, che garantiva la sopravvivenza ai suoi cittadini e riduceva i tumulti “della pancia”[22]. Tale struttura economica consentì, tra l’altro, la sopravvivenza della compagine ebraica, sia pur nella povertà diffusa e nelle forti restrizioni delle libertà individuali e collettive, che comunque non impedirono l’esercizio di taluni mestieri. A questo proposito va sottolineato che, nel Settecento, la maggioranza degli ebrei di Roma si dedicava alla sartoria, soprattutto in relazione al recupero di vestiti usati. Un’altra porzione rilevante della popolazione attiva agiva nei settori dei piccoli commerci e delle attività artigianali per la produzione di manifatture in legno, di oggetti in cuoio e di bottoni[23]. A ciò va aggiunto che, diversamente dalle norme previste dall’editto del 1555, per buona parte del XVIII secolo alcune famiglie di ebrei residenti a Roma ottennero le licenze per importare merci provenienti da diverse aree d’Europa, tra le quali si annoveravano spezie, tessuti, cordame, cuoio, ecc[24]. Tali commerci consentirono ad alcuni mercanti ebrei non solo di arricchirsi ma, attraverso il gettito fiscale, anche di contribuire a mantenere in vita la maggioranza degli abitanti del ghetto.
Va, tuttavia, evidenziato che il tessuto economico cittadino e dello Stato Pontificio in generale risentiva di un sistema arretrato, imperniato sul latifondo e sulle corporazioni di mestiere, incapace di dare inizio alla creazione di un’economia di mercato, basata sull’abolizione dei vincoli feudali e sul passaggio ad un sistema industriale moderno[25].
Tutto ciò agiva in senso negativo sulla già difficile condizione degli ebrei dell’Urbe, e ad aggravare la loro situazione materiale fu l’editto di Pio VI del 1775, che restrinse gli ambiti delle loro attività, compromettendo anche un settore trainante come quello già citato dell’importazione.
Il declino socio economico della collettività ebraica capitolina fu interrotto, per breve tempo, solo dalla Repubblica Romana, ma il tentativo di ripristino dello status quo ante fece ripiombare gli ebrei in una condizione analoga a quella precedente al periodo francese.
3 – Le Confraternite ebraiche
Nell’ambito ebraico, così come in quello cristiano, è stata forte l’esigenza di creare gruppi organizzati di persone con lo scopo di occuparsi dei più bisognosi. Nell’epoca del ghetto si rafforzò il sistema delle cosiddette Compagnie o Confraternite[26]. Esse svolgevano funzioni di assistenza e mutuo sostegno, sia ai propri membri sia all’esterno, ed operavano in diversi settori, anche in quelli relativi all’istruzione ed ai riti religiosi.
Il fenomeno dell’incremento numerico e dell’importanza delle Confraternite cristiane tra Cinque e Seicento va inquadrato all’interno di un profondo processo di riorganizzazione e centralizzazione delle funzioni nello Stato ecclesiastico[27], nato dalla necessità di controllare il fenomeno dell’indigenza. Un fenomeno analogo si manifestò anche all’interno della Comunità ebraica, la quale, attraverso l’attività delle Compagnie, ridusse i problemi di instabilità sociale associati alla povertà. Con l’istituzione del ghetto (1555), le condizioni sociali ed igienico-sanitarie degli ebrei declinarono rispetto ai decenni precedenti[28] e furono peraltro aggravate da una serie di crisi economiche e finanziarie che, nei secoli XVI e XVII, colpirono la città nel suo complesso e prostrarono la popolazione romana. A questo proposito è importante rilevare che “Nel Settecento vi furono attivi simultaneamente poco meno di quaranta sodalizi, al servizio di una popolazione valutata a cinque o seimila anime… si ebbe la massima espansione sia nel numero che nel campo di attività di queste confraternite, e ciò non perché lo spirito di solidarietà fosse più sviluppato nel Settecento che non prima, bensì perché alla fine del Seicento e nel corso del secolo successivo le condizioni sempre più depresse del ghetto di Roma provocarono una spinta maggiore alla creazione di nuovi enti di mutuo soccorso e al potenziamento di quelli esistenti”[29].
Tra le Compagnie più importanti era la Moshav Zeqenim (Ospizio dei vecchi) che fu fondata nel 1725 dal Rabbino Tranquillo Vita Corcos[30]. Nel secolo XVIII i Consigli che amministravano due tra le maggiori compagnie, Talmud Torah[31] e Ghemilut Chasadim, furono considerati, nella gerarchia della Comunità, subito dopo la Congrega dell’Università; seguivano, come importanza, il Consiglio dell’Ozer Dallim e di Moshav Zeqenim. Nel 1745 fu fondata la Compagnia ‘Ez Chaim (Albero di vita), allo scopo di “accollarsi il peso di soccombere alla provvista di maestre per far insegnare alle ragazze poverelle la santissima Thoràh”[32]. Nel secolo XIX, aggravandosi ulteriormente la situazione economica a Roma e quindi del ghetto[33],
l’Università decise di riconfigurare il sistema delle Confraternite istituendo la Compagnia Shomer Emunim (1857) che ebbe il compito di assorbire le Confraternite in difficoltà. Dopo l’emancipazione, più esat- tamente tra il 1882 ed il 1885, l’Università riorganizzò tutte le Confraternite, mantenendo attive quelle principali[34], e raggruppò le altre sotto la Deputazione Centrale di Carità, istituzione ancora oggi operante.
4 – Le Scole
Durante il periodo del ghetto le sinagoghe erano chiamate Scole o Scuole, termine che sottolinea la funzione del luogo sia di preghiera, sia di studio. Nella tradizione ebraica l’istruzione è strettamente legata alla liturgia ed all’osservanza dei riti religiosi. Questi rappresentano simboli di un sistema di valori che deve essere studiato, compreso e reso pratica di vita. Nell’ebraismo, infatti, non esiste lo studio della Torah fine a se stesso, ma esso deve essere volto all’applicazione pratica delle regole contenute nel Pentateuco e nel relativo commento. Da qui il nome di Scola.
Nel corso dell’età romana, e durante le epoche successive, affluirono a Roma ebrei provenienti dalle diverse aree del mondo conosciuto, e sin dall’antichità ogni gruppo “etnico” fondò una sinagoga con un proprio rito. La storia delle sinagoghe romane è per molti versi sconosciuta[35], anche per il periodo medioevale, e il numero dei luoghi di culto ebraici è piuttosto incerto. A seguito dell’espulsione dalla Spagna (1492) giunse a Roma un gruppo di ebrei che ben presto cercò di darsi un’organizzazione autonoma[36]; all’inizio del 1518 le sinagoghe erano 11[37].
Nella bolla Cum nimis absurdum emanata nel 1555 sotto il pontificato di Paolo IV, era chiaramente stabilito che ad ogni ghetto presente nello Stato fosse riconosciuta facoltà di possedere non più di un luogo di culto: “Et in singulis Civitatibus, Terris & locis, in quibus habitaverint, unicam tantum Sinagogam in loco solito habeant nec aliam de novo construere, aut bona immobilia possedere possint”. Nella piazza del Mercatello, ribattezzata poi piazza delle Cinque Scole, trovarono posto le Scole Castigliana, la Catalana, la Siciliana, la Tempio[38] e la Nova[39], e lì rimasero, per circa tre secoli e mezzo, accorpate in unico edificio come se costituissero un solo luogo di culto. Questa coabitazione forzata diede frequentemente origine a diatribe e controversie, quasi sempre composte mediante arbitraggi interni alla Comunità, ma alcune volte portate dinanzi al tribunale del Vicario di Roma[40].
Nelle Scole il rabbino, essendo un uomo colto versato nella conoscenza delle sacre scritture e del diritto ebraico (Halachah), esplicava la sua attività principale di insegnamento, di arbitraggio nelle controversie interpersonali, ed, infine, di valutazione del corretto adeguamento alla normativa ebraica, dei regolamenti emanati dalle istituzioni comunitarie. Con modalità che ancora non sono chiare e ben documentate, il rabbino, nella tarda Età moderna, diventò un funzionario della Comunità, ma, fino alla creazione della Sinagoga maggiore, inaugurata nel 1904, l’ufficiatura delle preghiere quotidiane era svolta dai singoli appartenenti alla Scola, i quali a turno, e secondo le esigenze, si alternavano in tale mansione.
Le Sinagoghe avevano anche funzioni di assistenza verso i propri membri; le entrate erano solitamente costituite dalle raccolte settimanali e da legati. A seguito dell’emancipazione, l’area dell’ex ghetto fu demolita e, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, fu ricostruita in quattro isolati la cui realizzazione venne ultimata nel 1911.
[1] Claudio Procaccia ha curato i paragrafi 1 e 2, Silvia Haia Antonucci i paragrafi 3 e 4. “Benè Romi”, termine ebraico che significa “Figli di Roma”, era l’antica appellazione con la quale si definivano gli ebrei romani.
[2] MARTINA, 1989, pp. 154-156.
[3] Cfr. CULTRERA, 1955; CRISTINI, 2007; PAGES, 1993; PARKER, 1994; POLISENSKY, 1982; WEDGWOOD, 1998.
[4] Cfr. POMETTI, 1898; ROTA, 1934.
[5] Cfr. POMETTI, 1898; ROTA, 1934.
[6] SEGRE, 1996, pp. 709-778.
[7] Nel XVIII secolo il numero degli ebrei residenti nel ghetto è incerto e variò da oltre 3.600 unità a circa 6.000 persone. Vedi infra pag. 15.
[8] Cfr. MILANO, 1964.
[9] Cfr. SPIZZICHINO, infra.
[10] MILANO, 1964, pp. 397-414.
[11] Cfr. FOA, 1995; ISRAEL, 1991; TOAFF – SCHWARZFUCHS, 1988.
[12] Cfr. SPIZZICHINO, infra.
[13] Ibidem.
[14] FOA, 1995, pp. 95-140
[15] Cfr. DEL PANE, 1959; VOLPI, 1983; WEBER, 1994.
[16] D’ERME, 1989.
[17] NATALUCCI, 1975.
[18] CALISSE 1983.
[19] Cfr. MILANO, 1935, pp. 324-338 e pp. 409-426.
[20] MILANO, 1964, pp. 144-152.
[21] PROCACCIA, 2003, pp. 129-146.
[22] GROSS, 1990, p. 9.
[23] MILANO, 1964, pp. 99-101.
[24] Cfr. FERRARA, PROCACCIA, 2007, pp. 173-194.
[25] GROSS, 1990, pp. 97-102.
[26] È bene sottolineare che il termine ebraico zedaqah, che erroneamente viene tradotto con “carità”, ha la stessa radice di zedeq, ovvero “giustizia”. Infatti, secondo la tradizione ebraica aiutare il prossimo implica la ricostruzione di un ordine interrotto, cioè la ricomposizione di una situazione di giustizia violata. ANTONUCCI, PROCACCIA, SPIZZICHINO, 2004.
[27] FIORANI, 1984, pp. 155-196, p. 166.
[28] Al momento dell’istituzione del Claustrum Haebreorum erano oltre 2.000 gli ebrei rinchiusi. All’epoca della proclamazione di Roma Capitale, il numero aveva raggiunto le 5.000 unità. Nel corso dei trecento anni di reclusione, l’area di residenza aveva subito una serie di trasformazioni ed allargamenti, l’ultimo dei quali risalente al 1825, senza che ciò modificasse nella sostanza le precarie condizioni di vita. Cfr. BACHI, 1939; BACHI, DELLA PERGOLA, 1984, pp. 155-191; LIVI, 1918-1920.
[29] MILANO, 1964, p. 236.
[30] Ivi, p. 247.
[31] ANTONUCCI, PROCACCIA, SPIZZICHINO, 2007.
[32] MILANO, 1964, pp. 249-250.
[33] Per quanto riguarda le condizioni economiche e sociali della popolazione dell’Urbe nel XIX secolo, cfr. FRIZ, 1974; FRIZ, 1980; BARTOCCINI, 1985; CARAVALE, CARACCIOLO, 1978.
[34] Queste erano: Ghemiluth Chasadim (in ebraico, Opere Pie, detta anche Hesed Vemet, ovvero, Compagnia della Carità e della Morte); Talmud Torah (Studio della Torà, altrimenti detta Scuola de’ Putti); ‘Ozer Dallim (Aiuta i poveri); Moshav Zeqenim ( Ospizio dei Vecchi); Shomer Emunim (Custodi della Fede). Cfr. MILANO, 1964, p. 237.
[35] Cfr. PAVONCELLO, 1984.
[36] Cfr. PAVONCELLO, 1992.
[37] ASR, Coll. Not. Cap. 501, f 49, in ESPOSITO, 1995, p. 279.
[38] ANTONUCCI, 2009.
[39] Cfr. PAVONCELLO, 1979; ANTONUCCI, 2008.
[40] Cfr. MIGLIAU, 1990, pp. 191-205; MIGLIAU, 1984, pp. 442-447.