Lettera firmata
Sono oramai diversi anni che ho deciso di convertirmi all’ebraismo e grosso modo un paio che ho cominciato seriamente il percorso per arrivarci. In questi anni sono entrato sempre più all’interno della vita della comunità e sto assistendo con una certa curiosità ai vari dibattiti che si sviluppano qui come nelle altre comunità italiane.
Ci si pone il problema della lenta assimilazione degli ebrei per nascita alla ricerca di una vita talvolta più comoda, talvolta solamente per diventare indistinguibili dagli altri. Sento e leggo chi si dispera perché di questo passo le comunità scompariranno, perché l’identità ebraica va a perdersi perché perché…
Eppure io, che voglio diventare ebreo, sto facendo il percorso diammetralmente opposto all’assimilazione di cui tutti si lamentano. Sto introducendomi in un mondo colorato dalle differenze, in un mondo in cui l’uomo cerca di diventare più ricco non nel conto in banca ma nel proprio spirito. Vedo chi, come me, si avvicina all’ebraismo riscoprire quel senso di appartenenza a qualcosa di più grande ed importante del singolo che tutte le religioni maggiori insegnano ma che la società moderna cerca di distruggere.
Perché, mi chiedo, così tanti ebrei di nascita vogliono scomparire nella massa mentre così tanti vogliono distinguersi da essa imponendosi il rispetto di norme che non sono loro e che non sarebbero tenuti a rispettare? I rabbini ci respingono chiedendoci chi ce lo faccia fare. Perché mai complicarsi la vita?
La risposta è che la vita sembra complicata solo a chi complicata vuol vederla.
La kasherut, la shemirat shabbat, la tefillah sono si momenti di difficoltà nella vita di tutti i giorni, ma non riesco a viverli come fastidi. Li vivo come rispetto per ciò che Hashem ha creato per me e per gli altri, come occasioni per avere rapporti umani più veri e profondi. Li vivo come momenti positivi.
Da quando ho iniziato questo cammino, sto ritagliandomi, non senza difficoltà, momenti per studiare, momenti per andare alle lezioni dei rabbini che più mi coinvolgono. Ho lottato affinché sul lavoro mi fosse consentito rispettare lo shabbat e le feste per le quali ancora non avrei alcun diritto, non essendo ancora ebreo. Talvolta salto il pasto perché non riesco a prepararmi il cibo o perché lo dimentico a casa. Non dico che sia rose e fiori, ma non è così tragica come i tanti che si allontanano dall’ortodossia vorrebbero far credere.
Cosa, allora, può aiutare queste persone a ritrovare il senso e la gioia dell’osservanza, togliendo dal loro campo visivo la meccanicità e la compulsività delle mitzvot? Di questo dovrebbero discutere coloro che tanto si preoccupano dell’assimilazione. Fasciarsi la testa ripetendo ai quattro venti che di questo passo si scompare è poco più che nascondere la testa sotto la sabbia.