La storia del quartiere dell’Arco Etrusco, dove un tempo sorgeva una Sinagoga
Alessia Chiriatti
Un piccolo quartiere, in realtà compreso in un dedalo di strade a ridosso del famoso Arco Etrusco. Dell’animo ebraico di quel luogo rimane ben poco, se non il nome della Piazzetta della Sinagoga. Storia vuole che proprio in uno di quei palazzi che oggi si affacciano sul largo dove oggi sorge anche la sede della Soprintendenza cittadina (a Palazzo Brutti) si trovasse appunto una sinagoga, costruita nel 1300. Lì, tra via Ulisse Rocchi e via di Pozzo Campana, per alcune centinaia di anni, abitarono alcune famiglie ebree (pare fossero 7 le più importanti). Non più di 200 di loro lo popolavano già nel 1300, per una storia fatta di ‘cacciate’ e accoglienza e scandita, come vuole tutto il passato di Perugia, dalla presenza dello Stato Pontificio e dell’emanazione di alcune bolle papali.
Nei secoli non si è mai parlato di un vero e proprio ghetto canonico. Tanto che si ha notizia della presenza di ebrei anche nella zona di via Maestà delle Volte e di Sant’Ercolano. A ben guardare le case che si sviluppano a ridosso della zona dell’Arco Etrusco, su via Pozzo Campana, si nota come gli edifici si sviluppino in altezza. Sembra questa sia la reale testimonianza di come la comunità ebraica si concentrasse in quella zona di Perugia data l’impossibilità (in alcuni casi per indisponibilità di denaro, in altri per costrizione) di acquistare nuovi appartamenti. I piani delle case venivano così costruiti sopra gli altri. Al loro interno, in base ad alcuni lasciti testamentari di cui si ha notizia, delle stanze con arredi preziosi.
Le prime memorie
E’ il 7 agosto 1262: è la data del primo documento attestante la presenza di un gruppo di ebrei a Perugia. Fu allora che il Minor Consiglio del Popolo dibatté il problema della liceità della loro presenza in città. Un ‘problema’ perché si trattava perlopiù di usurai, tanto che si decise di espellerli. E fu proprio per contrastare l’usura che nacque a Perugia uno dei primi Monte di Pietà in Italia, datato 1462 (dopo quello di Ascoli Piceno del 1458), quando alcuni frati francescani lo istituirono per limitare i prestiti al popolo minuto effettuato dagli ebrei anche a persone povere. Il Monte, dove i debitori lasciavano un oggetto di valore in pegno, spesso ricomprato dagli stessi ebrei, fu poi chiuso agli inizi del 1500 da Papa Leone X Medici, il quale introdusse un basso tasso di interesse per la restituzione dei prestiti.
Altri ebrei erano però anche medici (tanto da essere stati ingaggiati per curare dei Pontefici), farmacisti e venditori di libri. Si trattava di mercanti, trasferitisi da Roma a Perugia così come nel resto dell’Umbria. Già nel 1200 era vivido lo stereotipo dell’ebreo usuraio: a loro erano infatti precluse altre attività, come il possesso fondiario, mentre la Chiesa vietava ai Cristiani ogni mestiere che implicasse il rapporto col denaro, ritenendolo peccato.
Lo stesso Comune di Perugia si fece prestare molti soldi dalla comunità ebraica nel corso della seconda metà del 1200. Denaro che servì a quanto pare per ristrutturare la città, in guerra con i Comuni vicini (si parla in particolare di Trevi). Per riuscire ad ottenere questi soldi, fu garantito l’impegno di alcuni cittadini influenti, che a loro volta garantirono la restituzione del debito contratto. Ad una condizione: ossia che gli ebrei potessero rimanere in città solo fino alla restituzione del prestito in questione, e cioè per circa due mesi.
Dalle tasse alte alla coccarda gialla
Certo nessuno gli garantì un buon trattamento: le loro tasse erano di certo molto più alte rispetto a quelle pagate dal resto della cittadinanza. Erano obbligati a pagare del denaro anche per entrare in città, tanto che nel corso del 1500 gli ebrei ne uscirono impoveriti, nonostante il loro denaro provenisse perlopiù dalla mercanzia. Un inasprimento morale li colpì già prima, ed esattamente nel 1340, quando i bambini dagli 8 anni in su furono obbligati ad indossare la coccarda gialla. Le bambine invece doveva portare l’anello alle orecchie. E ancora: nel 1349 gli fu proibito di toccare la frutta, così come di macellare la carne e comprare il vino. Non potevano vendere alla comunità perugina le lasagne, nota che compare tra nei documenti più e più volte. Né tantomeno potevano fungere da nutrici per le donne perugine.
Braccio Fortebracci
La storia degli ebrei a Perugia incontra anche quella di Braccio Fortebracci, capitano di ventura. Quando quest’ultimo attaccò la città nel 1416, il Comune impose un nuovo prestito forzato agli ebrei, sotto pena di una multa decuplicata rispetto alla somma chiesta. Ma Fortebraccio riuscì a conquistare la città e ne fu signore fino al 1424. Anche lui dovette fare ricorso alla comunità ebraica per richiedere un ingente prestito. Fu poi Bernardino da Siena nel 1425 a fare degli ebrei il capro espiatorio per il clima di violenza e anarchia in cui versava Perugia, tanto che lo stesso anno vennero redatti i cosiddetti “Statuti di San Bernardino”.
Dalla cacciata fino alle leggi razziali
La loro storia continua tra l’impoverimento generale della popolazione ebraica perugina, la clandestinità delle loro attività di prestito di denaro dopo l’istituzione del Monte di Pietà, fino alla bolla papale di Paolo VI, nel 1555, quando tutti gli ebrei furono scacciati dallo Stato Pontificio, poi rafforzata dalla “Caeca et obdurata” di Clemente VIII del 1593. Degli ebrei a Perugia, alla fine, non si ha traccia per tutto il ‘600 e il ‘700. Tornarono poco prima dell’Unità d’Italia, quando grazie allo Statuto Albertino si videro riconoscere maggiori libertà.
Fu invece negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia che gli ebrei a Perugia ebbero maggiore espansione. Il censimento del 1901 contava 186 presenze in città. Famiglie importanti a Perugia, appartenenti alla borghesia, furono i Servadio, Ajò e Coen. Proprio a palazzo Ajò, sul centralissimo Corso Vannucci, c’era probabilmente un’altra sinagoga. Degli anni ’30 è anche il cimitero ebraico, costruito perché con l’aumento della popolazione nel decennio post-unitario il cimitero di via San Girolamo era ormai diventato troppo piccolo.
Nel 1938, infine, quando furono varate le leggi razziali del regime fascista, a Perugia si contato 167 ebrei. Le misure restrittive e persecutorie portarono all’emigrazione e al licenziamento anche di noti intellettuali perugini: Cesare Finzi, Gino De Rossi, Dino Levi De Veali, direttore della Ferrovia Centrale Umbra, Eugenio Alphandery, dirigente del lanificio di Ponte Felcino per citare alcuni nomi. Fino alla vicenda del 1944, quando Don Ottavio Posta, parroco di origini passignanesi, con l’aiuto di alcuni pescatori di Isola Maggiore, salvò dalla morte 30 ebrei confinati nel Castello Guglielmi. Ma questa è ancora un’altra storia.
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