Le impressioni di una musulmana italiana al suo primo incontro da vicino con gli ebrei
Rasha El Sherif
Recentemente, un carissimo amico mi invita a partecipare ad un incontro tenuto dal Prof. Paolo Branca, docente di Lingua e Letteratura Araba presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
“Mmm, interessante”, gli dico, “sarei molto curiosa di conoscere il Professore, ne ho sentito tanto parlare!”.
“Bene”, mi dice, “l’ incontro è sugli Ebrei nel Corano, inizia alle 20.45 a Milano in una Sinagoga vicino Corso Lodi”.
“Ah…”, penso. Sono tanto interessata, quanto perplessa. Argomento complesso, quello degli Ebrei nell’ Islam e poi… proprio in una Sinagoga!!!
Ammetto: sono musulmana e come – quasi – la stragrande maggioranza dei miei fratelli e delle mie sorelle, ho anch’io una buona dose di indottrinamento che vuole, per mille ragioni e per nessuna, che tra musulmani ed ebrei non corra esattamente amore. Per essere precisi, arrivando al nocciuolo, sono stata abituata a non ‘andare oltre’ quando si tratta di ebrei, religione ebraica, cultura ebraica e via dicendo.
In me vince sempre la curiosità e… Diamine! Sì che ci vado, è pure una Sinagoga aperta ai non ebrei. Ma c’è un ‘problema’: mio papà. Mica gli posso dire: “Ehi ciao, stasera vado in una Sinagoga” e finisce lì. Mi devo spiegare, e anche bene. Perché se io sono stata indottrinata, figuriamoci lui. Simpatico personaggio (così definito dalle mie amiche), nato e cresciuto nel Cairo degli anni ’50, quartiere popolare di El-Sayeda, i suoi viaggi sono iniziati quando a trent’anni decise di venire in Italia. Sì, questa l’ha girata tutta, senza mai però dimenticarsi di essere arabo, musulmano, e senza mai togliersi dalla testa, nemmeno per un attimo, la convinzione di essere parte di una cultura (contaminata in buona misura da quell’indottrinamento di cui parlavo) inconciliabile, secondo lui, con quella occidentale.
Telefono a ‘Papy’:
“Ehi, stasera vado a Milano. Il Prof. Branca tiene un incontro. Ti ricordi che ti avevo parlato di lui?”
“Sì sherto, l’altra sera a shena”, mi risponde col suo adorabile italiano ‘egizianizzato’. “Bene, così lo conosci finalmente! E di che si barla?”.
“Eeee…”. Ebrei? Glielo dico? Vaiokglielodico! “… Si parla di Corano, si parla di Islam, cose così…”. Rimango vaga, non so bene che dire. Ahimè, la mezza verità funziona sempre e lui è contento se partecipo a incontri sull’Islam; mostra sempre un gran senso d’orgoglio quando gli parlo di persone che studiano l’Islam o la lingua araba. Non voglio rovinare il suo entusiasmo (già smorzato quando, durante quella cena di qualche giorno prima, gli avevo dovuto chiarire che il Professore era ‘solo’ uno studioso, non un neo-convertito), non adesso, non per telefono. Quando lo vedo gli dico tutto.
Vado all’incontro, le mie aspettative non vengono deluse: il Prof. Branca dà un quadro generale ma preciso del Corano e dell’Islam e poi mette al microscopio alcuni versi del Corano in cui non si parla affatto male degli ebrei, e in cui anzi vengono menzionati come portatori della chiave per capire lo stesso Islam.
Bella carica di entusiasmo per ciò che ho appreso all’incontro e soddisfatta di aver partecipato ad una serata di questo tipo, vado da mio papà convintissima che gli rivelerò dove, effettivamente, sono stata a parlare di Islam.
Ok. Inizio con il raccontargli tutte le cose dette a proposito, dette da una persona che l’Islam l’ha studiato davvero. Niente luoghi comuni, niente strumentalismo. Siamo entrambi soddisfatti. Arrivo alla questione spinosa: Sinagoga.
“Sì, ecco, ha citato diverse Sure in cui non si parla affatto male degli ebrei, ad esempio nella Sura…”.
“Sì, sì, è vero”, mi dice lui “nel Corano non sono sempre dipinti come traditori”. Ma la sua espressione è cambiata. Non lo vuole ammettere, non lo vuole ammettere a me: non ci crede troppo. Io me ne accorgo. Il mio moto di sincerità tramonta definitivamente quando lui, dando un paio di colpetti di tosse, sceglie di intervenire in merito citando, tra i tanti, proprio l’ episodio dei fratelli di Yusuf, ebrei, colpevoli di avere abbandonato quest’ultimo in riva a un fiume, simulandone (secondo mio padre, non senza una certa stoltezza) l’annegamento.
Fine della favola: non gli ho detto che sono stata in Sinagoga. “Ci hanno parlato di una Sinagoga lì vicino. Pensa, è persino aperta ai non ebrei! Una notevole apertura, no?”.
“Sì, sì, loro sono molto chiusi”, risponde lui.
“Loro sono chiusi?”, penso, “e noi no?”.
Sto per dirglielo, poi mi fermo. Mi rendo conto che non c’è nessun noi. Ci sono io e c’è lui. Penso al suo Islam, bonariamente fermo. E poi penso al mio, di Islam. Non biasimo le prime generazioni, forse è giusto che siano le seconde a uscire da questo incancrenimento ideologico e religioso.
Ho imparato cose che prima ignoravo. Non c’è consolazione migliore.
http://www.yallaitalia.it/2014/11/come-dico-al-mio-papa-che-sono-entrata-in-sinagoga/