La parashà di Re’è ci presenta le leggi della kasherut. A prima vista potrebbe sembrare un insieme di norme alimentari, simili a leggi igieniche o dietetiche. Ma i nostri Maestri hanno insegnato che non si tratta di salute del corpo bensì di salute dell’anima. Affermano i maestri: “Il mangiare cibi proibiti ottunde il cuore” (vedi anche Yoma 39 sulle trasgressioni in generale). Non si tratta di un problema fisico o intellettivo, ma di un ostacolo spirituale: il cuore non riesce più a percepire la luce della santità. Il Maharal aggiunge che il cuore, sede della comprensione interiore, diventa come un vetro appannato che non lascia più filtrare la verità. Sorge però una domanda: come può un cibo materiale influire sull’anima che è spirituale?
La Torah stessa ci indica la risposta: “il sangue è l’anima” (Devarim 12:23). Il nutrimento che introduciamo si trasforma in sangue, che diventa la nostra energia vitale. Per questo l’ebraismo afferma che il cibo non kasher non rimane neutro: diventa parte del nostro essere, penetra nel nefesh habehemit, l’anima vitale, e da lì influenza anche la nostra sensibilità morale e spirituale. Già i Maestri notarono che siamo ciò che mangiamo. Molto prima dei filosofi moderni, la Torah ha insegnato che il cibo plasma il carattere. Non a caso gli animali rapaci sono proibiti: essi incarnano crudeltà e violenza, e nutrirsene significherebbe introdurre dentro di sé un’essenza predatoria. Al contrario, gli animali kasher sono mansueti e più equilibrati, e la loro energia vitale si lascia trasformare dall’uomo verso la kedushà.