Teresa Rauzino 9 Aprile 2019
Molte suggestioni vengono ispirate dai viaggi, che per il narratore diventano pretesto di scrittura. Nel 1948, nel Mezzogiorno poverissimo di un’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale, su una piccola Fiat rumorosa, viaggia un newyorkese di origine ebraica: Arthur Miller, uno degli intellettuali più impegnati del Novecento, che balzerà agli onori della cronaca dopo il matrimonio con Marilyn Monroe .
Il giovane scrittore è in compagnia dell’amico italo-americano Vincent Longhi e visita Monte Sant’Angelo, un “nido d’aquila turrito” denso di memorie medievali. Quell’angolo di Puglia lascia un’impronta indelebile nell’animo di Miller, che l’anno dopo pubblicherà il capolavoro che gli valse il Premio Pulitzer: “Morte di un commesso viaggiatore” (1949).
Il racconto “garganico” appare nel 1951 sull’autorevole rivista “Harper’s Magazine”. Tradotto in italiano dalla Rizzoli nel 1970, è stato ripubblicato da Davide Grittani nell’antologia “Verso Sud” (ed. Grenzi). Monte Sant’Angelo diventa il luogo dove Miller va alla ricerca del tempo perduto, riscopre la propria identità. L’autore ritrova nella luce tersa del Sacro Monte tutta la sua essenza. L’ambiente e le persone destano in lui strane suggestioni, facendogli riconoscere, in alcuni gesti e situazioni, una componente etnica latente: l’ebraismo. Miller, che nella finzione del racconto è l’ebreo Bernstein, resta colpito dall’asprezza del paesaggio e del contesto; vorrebbe ritornare a casa. Ma Vinny Appello (Longhi), l’amico d’origini italiane, che prima a Lucera, poi a Monte Sant’Angelo sta ricercando le proprie radici presso una zia e nel santuario di San Michele, gli comunica il desiderio che guida il suo viaggio: “appartenere a una storia”.
Quando scendono nella cripta del santuario, il pavimento di pietra è bagnato dallo stillicidio della grotta carsica. Lungo le pareti e ai lati dei tortuosi corridoi che si diramano da una sala centrale a volta, vi sono delle tombe antiche, con iscrizioni illeggibili. Il prete ricorda vagamente una nicchia degli Appello, ma non ha idea della sua ubicazione. Vinny passa da una cripta all’altra, facendosi luce con una candela. Si curva, sembra un monaco o un archeologo, scompare poco a poco nella lunga oscurità dei tempi, in cerca del suo nome su una pietra. Bernstein (Miller) ne è fortemente turbato. Ricorda i racconti di suo padre sul paese d’origine in Europa, la tinozza dove tutti attingevano l’acqua, lo scemo del villaggio, il barone del luogo. Nessun motivo di orgoglio in tutto questo, niente. E del resto, ora non è un americano a tutti gli effetti?
Trovano un ristorante, sul precipizio al margine opposto della città, un grande, unico locale con quindici o venti tavoli; sulla parete di fondo una fila di finestre si affaccia sulla piana sottostante. Fa freddo. Il vento imperversa. Una ragazza, la figlia del padrone, arriva dalla cucina, e Appello le chiede cosa c’è da mangiare. La porta si apre ed entra un uomo. Guardandolo, Bernstein prova un’immediata impressione di familiarità, di cui non sa trovare la ragione. Si chiama Mauro di Benedetto, porta un cappello nero, insolito da quelle parti, dove tutti portano il berretto: “Vendo stoffe, qui, alla gente, e ai negozi, se così si possono chiamare” dice. Il suo sguardo non ha l’innocenza contadina degli uomini del paese. Dopo aver mangiato, beve un’ultima, lunga sorsata di vino, si alza e comincia a rivestirsi. Prende il suo fagotto posato su un tavolo e comincia a disfarlo. Bernstein lo osserva leggermente curvo sopra il fagotto. Vede le sue mani occupate a disfare il nodo. Ora l’uomo sta togliendo la carta che avvolge due pezze di stoffa, ne spiana con cura le grinze. La cameriera porta un’enorme pagnotta rotonda di almeno mezzo metro di diametro. Gliela offre, e lui la mette in cima alla pila di scampoli. A quel gesto, un’ombra di sorriso increspa le labbra di Bernstein. Ora l’uomo riavvolge con attenzione il fagotto, lo chiude con un laccio e lo riannoda. Bernstein ride, sollevato, dicendo ad Appello: “È esattamente il modo in cui faceva un fagotto mio padre… e mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via. Solo un israelita sa legare un fagotto così!” Perché tanta fretta di arrivare a casa? L’uomo scrolla le spalle: “Non so. Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera, e mi piace arrivare prima del tramonto. E mio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto”.
“Porta a casa il pane fresco per il Sabbath, che comincia al tramonto del venerdì – dice Bernstein all’amico. – E’ un ebreo, ti dico. Domandaglielo, per piacere”. Alla domanda di Appello, l’uomo scuote la testa, in segno di diniego. Quindi va via, ma Bernstein è felice lo stesso. Si sente finalmente a proprio agio. Ridiscende nella cripta e mentre l’amico continua a cercare la tomba dei monaci medievali suoi avi, egli non si muove, cercando dentro di sé il perché di quello che è accaduto. Vede quell’uomo cortese scendere giù per la montagna, camminare attraverso la piana, per strade segnate da generazioni di uomini, un viandante senza nome che porta a casa una pagnotta ancora calda il venerdì sera… e s’inginocchia in una chiesa la domenica. Un’ironia indescrivibile: sotto l’insensato impulso della storia, un ebreo è segretamente sopravvissuto. Pur spogliato della sua coscienza, osserva il Sabbath in un paese cattolico. La sua stessa inconsapevolezza finisce per essere una muta prova di un passato ancora vivo.
“Un passato anche per me” pensa Bernstein, attonito nel sentire quanta importanza abbia questa cosa per lui. Per lui che non ha mai avuto una religione, e nemmeno una storia. Finalmente Appello ritrova la tomba tanto cercata. Anche lui è felice di aver ritrovato l’identità perduta. Quando risalgono, il paese è deserto. L’aria odora di carbone di legna e olio d’oliva. Qualche pallida stella è apparsa nel cielo. Bernstein pensa a Mauro di Benedetto che sta scendendo per la strada sassosa e serpeggiante, affrettandosi per arrivare a casa, prima del calar del sole.