Il CDEC francese riesce a vedere anche l’antisemitismo arabo
L’antisionismo, così radicato nel mondo arabo e anche in Europa, non può non aver a che fare con l’antisemitismo perché va a negare il processo di liberazione di un popolo. L’accusa, corrente nel mondo arabo, di essere un popolo “creato da Hitler”. L’accusa, corrente in Europa, di comportarsi come nazisti. La ragione di entrambi i popoli, con la differenza che per gli ebrei Israele è l’unica spiaggia. Intervista a Georges Benoussan.
Georges Benoussan, storico, è direttore della Re vue d’Histoire de la Shoah, pubblicazione del Centre de Documentation Juive Contemporaine di Parigi; ha pubblicato: Génocide pour Memoi re, Plon 1989; L’Eredità di Auschwitz, come ri cordare?, Einaudi 2002; Histoire politique du sio nisme, Fayard 2003 (presto in uscita da Einaudi).
Nell’ultimo numero della rivista, La Revue d’Histoire de la Shoah, che ha come tema “Négationnisme et antisémitisme dans le monde arabo-musulman: la dérive”, si delinea un quadro molto inquietante e potenzialmente pericoloso. Si tratta di un fenomeno recente ?
Questo antisemitismo arabo-musulmano è esasperato dal conflitto ma non è nato a causa dei conflitto. Esisteva già prima dei 1948 e ancora prima della nascita del sionismo, anche se non in forma così violenta, da pogrom, come è avvenuto in Polonia o in Russia per esempio. C’era tuttavia una cultura del disprezzo che la nascita del sionismo e in seguito dello Stato d’Israele hanno esasperato. La nascita del sionismo e la creazione dello Stato israeliano sono due eventi incomprensibili, nel senso che un popolo considerato da sempre come vile, codardo sottomesso possa edificare di punto in bianco uno Stato, in una terra considerata esclusivamente araba, e che possa inoltre imporsi, in numerose occasioni, come vincitore nelle varie guerre che si sono succedute nel corso di questi anni, è appunto impensabile.
L’antisemitismo musulmano affonda le sue radici ancor prima della nascita dello Stato di Israele ed è riconducibile alla figura dei Dhimmi, l’ebreo suddito all’interno degli stati arabi. E’ risaputo che questo statuto di Dhimmi intendeva relegare perennemente gli ebrei -come anche i cristiani che vivono in Medio Oriente- in una situazione di sudditanza, all’interno dei mondo arabo. Ovviamente, la nascita dello Stato di Israele ha messo in crisi questo modello, obbligando gli arabi a misurarsi con gli ebrei da pari a pari. Tuttavia è da una trentina d’anni che l’antisemitismo arabo ha compiuto una svolta diabolica, in particolare dopo la Guerra dei sei giorni, che per il mondo arabo è stata un grosso trauma. Com’è possibile, che un piccolo paese come Israele, composto da un popolo di Dhimmi, da sempre sottomessi, abbia potuto sconfiggere la coalizione araba?
Questa incomprensione di fronte alla sconfitta ha generato, anche nel mondo arabo, la teoria dei complotto ebraico mondiale, collegandosi, in questo modo, alla medesima teoria del complotto di stampo occidentale, recuperando e integrando nel proprio immaginario il famoso falso storico I protocolli dei Savi di Sion. Tuttavia l’antisemitismo musulmano ha origini proprie; per esempio nel Corano vi sono molteplici invettive contro gli ebrei traditori. Nonostante i legami con l’antisemitismo occidentale, l’antisemitismo musulmano non è stato importato dall’Occidente, tranne che in un caso. La Chiesa cristiana, all’inizio dei XIX secolo, ha esportato in Medio Oriente alcuni schemi dell’antisemitismo, come il sacrificio rituale di bambini cristiani o l’avvelenamento dell’acqua. Tra le piccole comunità cristiane presenti nei paesi mediorientali troviamo questi aspetti. Purtroppo però, negli ultimi anni, si è assistito ad un’islamizzazione di temi e argomenti ricorrenti nell’antisemitismo occidentale. Un altro punto in comune è costituito dalla Shoah. Mi spiego. Dopo la Shoah, il termine antisemitismo, nel mondo occidentale, è diventato un tabù. Attualmente però l’antisemitismo musulmano, svincolato da sensi di colpa, sta contribuendo a scardinare questo tabù e a liberare la parola “antisemita”.
La Shoah rappresenta ancora un ostacolo per la legittimazione dell’antisemitismo?
Sì, per forza di cose. La Shoah, nel mondo cristiano, è il senso di colpa. Tuttavia questo discorso non vale nel mondo arabo, perché loro non si sentono, giustamente, colpevoli di nulla. Quindi, se in Occidente questo senso di colpa frena le tendenze antisemite, nel mondo arabo e fra i musulmani che vivono in Europa, non svolge alcun ruolo, perché è loro del tutto estraneo. Per loro il discorso antisemita è in un certo senso libero da tutto questo.
Questa libertà stimola il discorso e le tendenze antisemite occidentali e, soprattutto qui in Francia, rinvigorisce l’antisemitismo francese che, pur essendo minoritario, è sempre presente. Qui l’antisemitismo francese fa leva su quello arabo, esprimendosi però sotto una forma più velata. Per esempio, attraverso la delegittimazione dello Stato di Israele; questo antisemitismo si manifesta non attraverso una critica della politica israeliana, ma contestando il sionismo. Sono due cose estremamente diverse. Contestare la politica israeliana è perfettamente legittimo e plausibile, contestare il sionismo è direttamente legato all’antisemitismo, in quanto il sionismo è un movimento di liberazione di un popolo. Se si contesta questo diritto ad un popolo, rifiutandogli il diritto all’all’aut0determinazione e alla creazione di una propria nazione, e se si contesta questo diritto solo al popolo ebraico, e non agli altri, allora si fa un discorso puramente antisemita. Questo tipo di politica è, per forza di cose, antisemita, perché vuol negare a questo popolo – e ripeto: solo a questo – il diritto di essere tale, per relegarlo ad una semplice espressione religiosa. Ma il popolo ebraico ha il sentimento e la coscienza di essere un popolo, e quindi deve essere considerato tale.
Shoah, antisemitismo e negazionismo sono quindi strettamente legati tra loro.
Il negazionismo è strettamente coinvolto in questo discorso. Se si riuscisse a dimostrare che la Shoah non è mai avvenuta, ogni ostacolo verrebbe infatti rimosso. Per diversi anni il mondo arabo ha tentato di dimostrare che la Shoah non era mai avvenuta, ma che era una semplice invenzione dei sionisti; oggi non si nega più la Shoah, perché tale atteggiamento non incontrerebbe alcuna eco in Occidente, e quindi si è cambiata strategia. Oggi, la linea dominante è di riconoscere che la Shoah è avvenuta, ma proprio per questo gli ebrei dovrebbero comportarsi in un altro modo, e non come dei nazisti. In altre parole, siccome voi israeliani avete subito la Shoah, nel nome stesso della Shoah non avete il diritto di comportarvi in questo modo, e cioè come dei sionisti. Il discorso, poi, va anche oltre. Agli israeliani viene detto: se vi ostinate a volere uno Stato e a continuare ad essere dei sionisti, siete sulla stessa linea di Hitler, perché è stato Hitler, attraverso la persecuzione, a fare di voi un popolo.
In entrambi i casi si tratta dei diavolo sulla terra. E cosa si fa se si è in presenza dei male?
Insomma, continuando a definirvi come un popolo, in fondo siete ciò che Hitler voleva che voi foste. Invece, siccome voi siete solo una religione, e non un popolo, dovreste rinunciare ad uno Stato ebraico, dal momento che non esiste né uno Stato cristiano, né uno Stato musulmano in quanto tali. Se persistete nel volere un vostro Stato, siete allo stesso livello dei nazisti. In nome della Shoah, dovreste staccarvi dal sionismo.
Si tratta di un discorso molto complesso e molto perverso. Il fatto di aver islamizzato alcuni schemi dell’antisemitismo occidentale è anche una conseguenza della crisi profonda in cui versa il mondo arabo, il quale accusa e ritiene gli ebrei i principali responsabili di tutti i mali che lo affliggono. Si tratta però di un’evoluzione recente; 30 o 40 anni fa non era così.
Io credo che la grande svolta sia avvenuta nel 1967, dopo la sconfitta cocente che gli arabi hanno subito. Per il mondo arabo questa sconfitta è stato un vero e proprio trauma; in sei giorni tre eserciti sono stati battuti da un manipolo di persone considerate sino ad allora degli esseri meschini e vigliacchi. Non solo sono stati sconfitti ma hanno addirittura subito una controffensiva che ha portato l’esercito israeliano a 100 km dal Cairo. Da quel momento in poi nel mondo arabo si è cominciato a costruire un’interpretazione per spiegare come mai il mondo arabo, così valoroso e potente, avesse potuto essere battuto da un nugolo di vermi.
Oggi, gli israeliani sono visti come un esercito potente ma non era affatto così 30-40 anni fa. Basti guardare alle caricature della stampa araba degli anni ’50 e ’60: l’ebreo veniva rappresentato, secondo il classico stereotipo occidentale antisemita, come un essere gracile, malaticcio, pauroso e quindi totalmente inoffensivo.
Nel 1967 tutto questo immaginario collettivo è stato clamorosamente smentito e ha preso forza la teoria del complotto in cui l’ebreo diventa l’espressione di un potere malefico e mostruoso i cui tentacoli sono onnipresenti.
Le successive sconfitte militari non hanno fatto altro che accentuare e sviluppare questo nuovo arsenale ideologico. In particolare, la guerra del 1973, lanciata da due eserciti arabi durante la celebrazione della festa dei Kippur, continua a rappresentare una delle vittorie militari israeliane strategicamente più brillanti, tant’è che viene studiata nelle scuole militari europee. La vittoria del 1973 è un esempio di come si possa ribaltare a proprio a favore un confronto bellico partendo da una situazione iniziale di debolezza.
Questo particolare viene oggi trascurato, come ci si dimentica delle notevoli perdite subite che, pur essendo state pesanti da entrambe le parti, per quanto riguarda l’esercito israeliano (3000 morti e 22.000 feriti gravi in 18 giorni), se rapportate alla popolazione totale del paese – che all’epoca contava 3, 5 milioni di abitanti – sono state enormi, quasi irreparabili. Gli arabi pur considerando questa guerra una mezza vittoria non possono ignorare che dopo 18 giorni di battaglia, la situazione si sia ribaltata e che l’esercito israeliano fosse ormai a 40 km da Damasco. Questo nuovo fallimento non ha fatto che aumentare la frustrazione del mondo arabo, provocando un atteggiamento sempre più improntato sull’odio e allo stesso tempo completamente slegato dalla realtà. Per riuscire a giustificare la propria sconfitta il mondo arabo ha cambiato strategia: l’ebreo è diventato l’emblema di un complotto mondiale, il grande burattinaio che, da New York, regge i fili dei destini dell’umanità.
Attualmente poi questa ossessione ha assunto un aspetto genocidario, non solo nei confronti del popolo ebraico, ma nei confronti dei mondo occidentale in generale. Questa immensa frustrazione emerge in particolare dall’ultimo rapporto dal programma delle Nazioni Unite sullo sviluppo, sugli anni 2002 e 2003, in cui emerge una forte regressione a livello economico e culturale in tutti i paesi arabi. Mentre tutte le aree dei pianeta danno dei segnali di ripresa, in particolare in America latina e Asia orientale, l’insieme del mondo arabo affonda a livello economico, culturale e sociale. Per esempio, l’Onu ha rivelato che attualmente nel mondo arabo vengono tradotti molto meno libri che in Grecia, che ha una popolazione di appena 10 milioni di abitanti.
La frustrazione, cristallizzata in particolare sul conflitto israelo-palestinese – che dovrebbe avere una valenza solo territoriale – ipermediatizzato e esasperato, genera un discorso inquietante e genocidario, perché frutto di un’ossessione: o noi o loro. I problemi saranno risolti quando finalmente Israele sarà scomparso e con lui tutti gli ebrei. C’è quindi in atto una demonizzazione dell’ebreo e dello Stato di Israele, che, al loro occhi, rappresentano il male assoluto sulla terra. Abbiamo allora, da un lato, una versione religiosa dell’ebreo, in veste di diavolo e, dall’altra, una versione laica, rappresentata da Israele, in veste di Stato fascista, imperialista e razzista. In entrambi i casi si tratta del diavolo sulla terra. E cosa si fa se si è in presenza del male? Lo si deve estirpare.
Ci troviamo quindi in presenza di un antisemitismo che sta assumendo caratteristiche tipiche da genocidio. Questo è estremamente preoccupante. E’ un discorso prettamente genocidario, e non bisogna aver paura di usare questa terribile parola, perché i discorsi, i cliché e l’immaginario, che si stanno sviluppando all’interno dei mondo arabo, fanno pensare ai discorsi nazisti degli anni ’30 e a quelli degli Hutu contro i Tutsi in Rwanda, pri ma del genocidio del ’94.
In Europa, si è a conoscenza di questa linea e di questa piega così fortemente antisemita, che si sta sviluppando nel mondo arabo?
In Europa c’è tanta ignoranza, anche perché c’è un grosso lavoro di documentazione e di traduzione da svolgere. Sono pochi i documenti, gli articoli, i saggi che per il momento sono stati pubblicati. E’un lavoro che noi, della Revue d’histoire de la Shoah stiamo facendo. Siamo ancora all’inizio, solo adesso si comincia a prendere coscienza di questa tragica deriva, di questo sconvolgente discorso genocidario.
lo comunque non credo che ci sia una consapevole censura, anche se penso che quando se ne verrà a conoscenza, sarà una verità molto scomoda e imbarazzante, poiché contraddice gli schemi classici del pensiero occidentale. E’ infatti inconcepibile pensare che una vittima del razzismo diventi a sua volta razzista. Una vittima è sempre innocente secondo il pensiero progressista occidentale. Invece purtroppo la realtà è un’altra e anche una vittima può diventare un bastardo.
Questo antisemitismo riguarda tutti i paesi arabo-mussulmani o solo alcuni?
Purtroppo, secondo le nostre fonti di informazione, riguarda tutti i paesi, dal Marocco all’Iran. Il fatto grave è che sia attecchito e penetrato in tutti gli strati della società, diventando un discorso molto popolare e populista, che identifica negli ebrei i soli responsabili di tutte le loro sventure. La popolazione ha fatto proprio questo discorso antisemita, che si manifesta attraverso le caricature, le vignette, la stampa, la televisione, il cinema, gli slogans, le canzoni. E’ per questo che è estremamente pericoloso.
In Francia, la consistente comunità araba è impregnata di questo discorso antisemita, soprattutto nelle classi sociali più umili e, fatto grave, fra i bambini. Quando nelle scuole elementari, tra gli scolari, emergono sentimenti antiebraici, significa che questo atteggiamento lo hanno respirato a casa. E’ doloroso constatare come si stia pian piano sviluppando una cultura dell’odio, non solo nei paesi arabi, ma anche qui in Francia, dove esiste una forte comunita’ araba.
Oggi, purtroppo, la stessa pace civile interna è seriamente minacciata da questo fenomeno. Ci sono fatti, che avvengono addirittura all’interno delle scuole, che devono farci riflettere. Comunque le autorità francesi sono a conoscenza di ciò e devo riconoscere che, essendo consapevoli dei pericoli, hanno preso le misure adeguate.
Da due anni il governo francese, profondamente consapevole della gravità della situazione, sta lavorando e seguendo molto da vicino la situazione, anche perché i rapporti e le informazioni che giungono dalla polizia e dai servizi investigativi sono molto preoccupanti.
Ci sono forze nel mondo arabo consapevoli della pericolosità di questa fobia antisemita e che cercano di frenarla ?
E’ molto difficile oggi riuscire ad arginare ed emarginare questa degenerazione che sta colpendo il mondo arabo. Tuttavia, vi sono dei segnali che inducono all’ottimismo e che mostrano come anche all’interno della variegata società araba vi siano delle forze che si stanno opponendo a questa deriva genocidaria.
Si può citare anche l’Algeria, un paese che ha co nosciuto il terrorismo islamico in casa propria e, dopo aver sconfitto i fondamentalisti, è una delle coscienze più critiche all’interno del mondo ara bo. Le algerine oggi si battono per i loro diritti rischiando la propria vita, poiché dagli estremisti islamici sono considerate un vero e proprio nemi co del loro modello di società arcaica, quasi alla stessa stregua degli ebrei.
Il celebre negazionista francese Garaudy ha ricevuto la laurea honoris causa in Egitto
Vi sono anche degli intellettuali che alzano la voce per condannare certe iniziative di chiara impronta antisemita. Per esempio, nel 2001, era stato organizzato un congresso antisemita a Beirut, che per fortuna venne annullato, ed alcuni intellettuali arabi (pochi purtroppo) gridarono allo scandalo, manifestando la propria vergogna. Nello stesso tempo però, il celebre negazionista francese Garaudy ha ricevuto la laurea honoris causa in Egitto e le sue opere sono tradotte in 5 versioni diverse in arabo. I Protocolli dei Savi di Sion sono presenti oggi in 126 diverse edizioni. Si tratta peraltro di edizioni recenti, che vanno dagli anni ’70 sino al 2002, che vengono vendute ovunque anche presso le librerie arabe di Parigi.
C’è dunque solo un manipolo di intellettuali arabi che è consapevole di questa degenerazione e che la ritiene un aspetto della regressione in atto nel mondo arabo. In ogni caso, questa ondata di antisemitismo avviene purtroppo sotto la spinta di impulsi irrazionali, e di fronte all’irrazionale la ragione è disarmata. D’altra parte invece – e questo non appartiene all’ambito dell’irrazionale – oggigiorno, il fatto che l’Europa, per dei motivi complessi, appoggi troppo spesso la causa dei mondo arabo, a causa della Palestina, potrebbe spianare la strada ad una nuova catastrofe.
L’Europa non riesce a rendersi conto dei pericolo, nello stesso identico modo in cui una grossa parte degli intellettuali europei chiuse gli occhi davanti ai crimini dello stalinismo, del comunismo e dei gulag, sino almeno al XX congresso del partito e anche oltre.
Nel 1974, la pubblicazione del libro L’Arcipelago Gulag di Solzenytsin fu un’autentica sorpresa per molti intellettuali. Tuttavia, 40 anni prima, nel 1935, Boris Suvarin aveva pubblicato in francese Stalin; nel 1936 Anton Siliga, comunista iugoslavo, Viaggio nel paese delle menzogne; sempre nel 1936, André Gide Ritorno dall’Urss. Ebbene, questi autori non vennero letti, o vennero letti male, o addirittura disdegnati. Eppure, se fossero stati presi sul serio, in particolare Suvarin, si sarebbe capito immediatamente quello che stava avvenendo. Occorre sottolineare anche l’estrema diffidenza con cui vennero accolti questi libri. Suvarin, nel 1935, dovette pubblicare il suo libro presso una piccola casa editrice. André Malraux gli disse che avrebbe pubblicato il suo libro quando lui e i suoi compagni sarebbero andati al potere.
Ma per tornare al discorso di prima: come interpretare l’odierna cecità degli intellettuali europei? A me fa pensare appunto alla cecità che c’è stata nei confronti dell’Unione Sovietica, o dei crimini comunisti in Cina.
Mi viene in mente il libro di Maria Antonietta Macciocchi Sulla Cina e l’eco che ha avuto in Europa. Il libro esce nel 1972, presso una grande casa editrice francese, ” Seuil”. Questo libro diventa subito un best seller, letto da numerose persone. Ebbene, questo libro fa letteralmente schifo, perché è stato un’apologia dell’orrore, un’apologia del regime cinese, un’apologia dell’orrore della rivoluzione culturale cinese, di quel bagno di sangue che ha segnato la rivoluzione culturale cinese. La cecità della Macciocchi e di tutti coloro che hanno seguito la Macciocchi e hanno chiuso gli occhi di fronte ai crimini dei Khmer rossi in Cambogia è la stessa che mostrano oggi i filo-arabi e i filo-palestinesi.
La forza dell’esercito israeliano annebbia loro la mente, impendogli di rendersi conto che invece Israele corre un gravissimo pericolo.
Nel mondo occidentale il sionismo non gode dunque di una maggiore legittimità.
Decisamente no. In Occidente il sionismo è sempre più delegittimato e in particolare per gli europei. Io credo per una ragione in particolare e cioè che il sionismo, nella sua ambizione di costruire il proprio Stato nazionale, va contro l’attuale tendenza europea che consiste invece nel superamento dello Stato nazionale come è stato inteso sino a poco tempo fa. Queste due opposte tendenze fanno sì che per gli europei il sionismo sia attualmente incomprensibile, appunto perché viene considerato anacronistico. Da una parte c’è l’Europa che va verso una federazione di Stati, verso un’integrazione, e dall’altra c’è il sionismo che invece va esattamente all’opposto, collocandosi quindi controcorrente, per apparire agli occhi degli europei come un movimento retrogrado, simbolo di un modello arcaico di apartheid e di conseguenza come una forma di razzismo.
Questa è una delle ragioni di fondo che secondo me tendono a delegittimare il sionismo. Ma ve sono anche delle altre. Una di queste è il senso di colpa per la Shoah: sono state la Germania, l’Austria e i vari collaborazionisti europei ad aver commesso questo crimine, quindi si tratta di un crimine europeo.
Che gli ebrei possano, oggi, commettere delle violenze in Palestina, contro un popolo che per il momento stanno sottomettendo e dominando – che è un fatto innegabile -, che si comportino da oppressori contro un popolo oppresso, è qualcosa che rassicura gli europei in quanto li aiuta a liberarsi dal proprio senso di colpa. Paragonando gli ebrei ai nazisti, ci si libera di un senso di colpa. Si tratta però di un paragone aberrante perché, se gli ebrei stessero veramente usando i metodi dei nazisti, oggigiorno non ci sarebbero più palestinesi.
Seguendo questo ragionamento gli europei non hanno più nulla da rimproverarsi poiché in questo momento gli ebrei si stanno macchiando dello stesso crimine commesso 60 anni fa contro di loro, e quindi le colpe a questo punto sono equamente ridistribuite.
Però, a queste due ragioni appena evocate ne ag giungerei una terza, più sfumata. lo credo che gran parte dell’economia psichica dell’Occidente cristiano si sia costruita intorno al rifiuto dcll’ebreo. Questo rifiuto ha una matrice religiosa, an che se successivamente ha assunto una forma na zionale e razziale. In ogni caso tutta l’economia psichica occidentale è avvelenata da questo rifiu to dell’ebreo. Il sionismo è un’ideologia naziona le che mette fine a questa oppressione e denigra zione dell’ebreo, nello stesso modo in cui l’anti colonialismo mette fine alla dominazione del co lonizzato. Per l’economia psichica occidentale l’ebreo era stato la vittima designata che garanti va il funzionamento di tale economia, dal mo mento che per farla funzionare abbiamo sempre bisogno di rifiutare e respingere qualcuno o un gruppo. Essere privati della propria vittima prefe rita ha messo in pericolo la stabilità di tale mec canisimo.
Mi spiego: l’ebreo che si ama in Europa è la vittima. Ciò emerge, in particolare, negli ambienti della sinistra e dell’estrema sinistra occidentale, dove le stesse persone, da una parte, commemorano la Shoah con grande contrizione e sincerità e, dall’altra, detestano il sionismo e lo Stato d’Israele. L’ebreo forte, sicuro, vittorioso, alla testa del suo esercito non corrisponde più all’immagine dell’ebreo vittima e di conseguenza non è più amato. Si è disposti a piangere per l’ebreo, ma non si sopporta di vederlo in veste di colonnello al comando dei suoi carri armati. E’ per questa ragione che il sionismo disturba l’economia psichica del l’Europa.
In Europa c’è ancora chi sostiene che in una certa misura lo Stato d’Israele sia stata un’operazione tutto sommato artificiale, che sia sorto improvvisamente, quasi dal nulla, dopo 3000 anni, su di una terra occupata da un’altra popolazione, come compenso per la persecuzione subita.
Certo, lo so, ma è un ragionamento sbagliato e che alla prova dei fatti non tiene assolutamente. Si vorrebbe che fosse artificiale, ma non è così. Basta andare in Israele per accorgersi di quanto sia forte il sentimento nazionale. E’ una nazione estremamente viva che ha un senso della propria identità molto marcato. In Israele ci sono dei dibattiti politici abbastanza animati riguardo al conflitto con i palestinesi, ma nessuno mette in discussione l’identità nazionale israeliana, e tutti si sentono ben radicati sulla loro terra.
E’ inspiegabile l’accanimento su di un territorio così piccolo che a malapena equivale a due province europee
In Europa si fa fatica a cogliere questo aspetto fondamentale, ma non appena un europeo si reca in Israele è quasi costretto a constatare questo forte sentimento d’identità nazionale, e quindi deve ricredersi. Affermare che Israele sia uno Stato artificiale è semplicemente ridicolo e non corrisponde assolutamente alla realtà.
Per capire la nascita di Israele occorre conoscere la storia del sionismo. Il sionismo viene generalmente visto solo sotto un aspetto protettivo: gli ebrei da sempre perseguitati avevano bisogno di un rifugio.
Poiché oggi il pericolo di persecuzione non c’è più, perchè ci sono la democrazia e i diritti dell’uomo a proteggere gli ebrei, si pensa che il sionismo e Israele non abbiano alcuna ragion d’essere. Questo ragionamento è completamente sbagliato, perché il sionismo non nasce come reazione all’antisemitismo. Il sionismo nasce dalla laicizzazione dei pensiero ebraico occidentale, ovvero in risposta a un processo di secolarizzazione. A questa secolarizzazione il mondo ebraico ha dato una risposta di tipo nazionale, che è appunto il sionismo.
Il sionismo è quindi una reazione interna al mondo ebraico e non una risposta ad un’aggressione antisemita. L’aggressione antisemita ha sicuramente, in seguito, svolto un ruolo propulsore, ma all’origine dei movimento sionista vi è la ricerca innanzitutto di dare una definizione nazionale dell’ebraismo, al di fuori della tradizione, della religione e della Torah. In altre parole, come restare ebrei quando si diventa atei.
Si tratta dunque di una rivoluzione intellettuale, e chi afferma che lo Stato d’Israele, oggigiorno, nell’Europa democratica e dei diritti dell’uomo, non ha più alcuna giustificazione, non ha capito nulla del sionismo. Non è la Shoah l’origine della nascita dello Stato d’Israele. Anche senza Shoah oggi esisterebbe lo Stato israeliano.
Anche in questo caso si parte da una idea falsa degli ebrei, considerati tali solo dal punto vista strettamente religioso. Si continua a non rendersi conto che gli ebrei, oltre a essere una religione, sono anche un popolo.
Per il mondo arabo l’illegittimità del sionismo e di Israele poggia su presupposti molto diversi.
Per gli arabi il discorso è semplice perché, secondo loro, la Palestina è una terra esclusivamente araba e quindi gli ebrei sono dei colonialisti, tanto più che i primi sionisti provenivano dall’Europa e quindi il sionismo non poteva che essere un ramo del colonialismo europeo. Infatti espansione sionista e espansione imperialista sono concomitanti. Per gli arabi, inoltre, il sionismo è strettamente legato alla dichiarazione di Balfour del 1917 e quindi all’imperialismo britannico. Insomma i sionisti sono figli dell’imperialismo britannico. Senza gli inglesi i sionisti non sarebbero mai riusciti a costruire un proprio Stato.
Tutto questo è vero da un punto di vista politico, nel senso che senza l’ombrello britannico, nel pe riodo che va dal 1920 al ’48, i sionisti sarebbero stati spazzati via. Però, gli inglesi non sono venu ti in Palestina per curare gli interessi dei sionisti, ma i propri. La fortuna dei sionisti è stato incon trare, sulla loro strada, gli inglesi, ma è stato un puro caso. Gli inglesi si sono installati in Palesti na per curare i propri interessi, e infatti, già nel 1922 avevano cominciato a rimangiarsi le pro messe fatte ai sionisti nel 1917, perché si erano re si conto di aver commesso un grave errore politi co-diplomatico nei confronti del mondo arabo. Successivamente, le rivolte arabe contro i sioni sti, nel 1929 e nel 1936, furono represse dalle truppe inglesi per ripristinare l’ordine pubblico e non per proteggere i sionisti.
Per quanto riguarda Israele e Palestina siamo comunque di fronte a due popoli che hanno entrambi una propria legittimità su questa terra…
Su questo non c’è dubbio. Entrambi i popoli hanno ragione. Si può sempre arguire che gli ebrei non hanno ragione, perchè quella non era più la loro terra, ecc., ma io sono convinto che il sionismo abbia una sua legittimità.
Voglio aggiungere un’altra cosa: quelli che tentano di delegittimare il sionismo sono, a loro volta e involontariamente, gli artefici di un’ingiustizia, perché la caratteristica dell’ingiustizia consiste nel voler trattare in maniera paritaria delle persone che non sono uguali.
Quello che voglio dire è che per gli ebrei Israele significa tutto, e quando dico tutto intendo che non hanno nient’altro al mondo, se non questo fazzoletto di terra, su cui poggiano il loro imma ginario spirituale, le loro tradizioni, la loro reli gione e la loro lingua. Per il mondo arabo e per i palestinesi, invece, la Palestina è solo una parte del mondo arabo. Se anche perdessero la Palesti na, non avrebbero per questo perso tutto, come in vece gli ebrei. C’è quindi una sproporzione a li vello territoriale, tra i 4 milioni di kmq dei mon do arabo e i 2 1.000 kmq di Israele. E’ inspiegabi le questo accanimento su di un territorio così pic colo, che è a malapena l’equivalente di due pro vince europee. La posta in gioco è molto spropor zionata, perché per gli ebrei perdere Israele sarebbe drammatico e rappresenterebbe la fine del popolo ebraico. Nel 1963 Hannah Arendt disse ad un’amica: “Se per disgrazia dovesse scomparire lo Stato di Israele, ciò significherebbe la fine del popolo ebraico”. Per quanto riguarda i palestinesi, questo rischio non c’è, perché il popolo arabo non rischia l’estinzione. Si fa fatica in Europa a prendere in considerazione questa gigantesca sproporzione.
Da un punto di vista mediatico, si tende sempre ad accentuare le sofferenze e le miserie del popolo palestinese, mettendo in secondo piano le difficoltà ed i pericoli della popolazione israeliana…
Questo è dovuto al fatto che il rapporto tra l’Europa e l’ebreo è completamente marcio, avvelenato e mi viene in mente un’osservazione che fece a suo tempo Sartre, riguardo al rapporto padre-figlio. Sartre diceva: ” Quando, per strada, vedo un uomo e un giovane, che camminano insieme, senza dirsi una parola, allora so che sono padre e figlio”. Con questo intendo dire che i rapporti fra ebrei ed europei sono letteralmente schifosi, e questo è da imputare alla chiesa cattolica.
Per quanto riguarda la stampa si stigmatizza molto, ad esempio, la sofferenza dei palestinesi, ma si evita di fare approfondimenti sulle sofferenze subite dagli israeliani a causa degli attentati suicida. Su questa realtà, fatta di paura, di angoscia con il suo corollario di morti, di feriti e di persone che, pur essendo sopravvissute agli attentati, sono ridotte oggi a delle larve, c’è purtroppo in Europa un angosciante silenzio.
Sotto sotto la Palestina rappresenta la causa per tutti quelli che sognano una rivoluzione
A me, lo scorso febbraio, mentre ero in Israele è capitato, di trovarmi non molto distante dal luogo in cui era appena avvenuto un attentato. Nel giro di 5 minuti sono passate una ventina di autoambulanze e le persone erano completamente agghiacciate e immobilizzate dalla paura, ed io stesso (che quel giorno dovevo recarmi in una bibiloteca per cercare dei documenti) mi sono sentito come paralizzato e ho dovuto rinviare ciò che mi ero proposto di fare.
Però vorrei aggiungere anche altre due ragioni, riguardanti le posizioni quasi esclusivamente filopalestinesi dei media. Perché la Palestina è così presente all’interno della sinistra? Nel momento in cui il mito della rivoluzìone proletaria ha cominciato a vacillare, la causa palestinese ha assunto un ruolo sempre maggiore, sino a diventare l’emblema della lotta degli oppressi di tutta la terra. Sotto sotto la Palestina rappresenta la causa per tutti quelli che sognano una rivoluzione. Come a suo tempo c’era il mito di Cuba e della rivoluzione cinese, oggi è la Palestina a incarnare questo mito rivoluzionario della sinistra. Con questo non voglio negare che la causa palestinese non abbia una sua legittimità e che non sia degna di questo nome. In Palestina c’è effettivamente un’ingiustizia a cui occorre riparare. Detto questo, il fatto che però abbia assunto un carattere mondiale credo sia dovuto al fascino esercitato dalla violenza e dalla forza sugli ambienti dell’estrema sinistra. Ma questo è un argomento tabù, perchè siamo di fronte ad un discorso che, da una parte, si fa promotore della pace, dei diritti dell’uomo, della non-violenza e, dall’altra, sottintende una sordida realtà, da cui emerge un fascino per tutto ciò che è forza, violenza di tipo bolscevico. C’è una distorsione tra un discorso umanista ed una certa attrazione per la violenza.
Questo fascino si manifesta anche nei confronti del mondo arabo, che oggigiorno inneggia costantemente alla forza e alla violenza.
Israele, pur essendo uno Stato ben armato e potente, non alimenta però un discorso di forza e di violenza. Intendo dire che Israele possiede la forza, ma non la usa fino in fondo, cosa che invece farebbero gli altri se avessero gli stessi suoi mezzi.
Porto un piccolo esempio: durante una lezione di storia un adolescente di origine araba di un liceo parigino ha detto che non riusciva a capire come mai questi imbecilli di israeliani, con tutti i mezzi militari a disposizione, non fossero capaci di servirsene adeguatamente in Palestina. Si tratta di uno dei tanti episodi che avvengono nelle scuole francesi in cui si assiste purtroppo a diverse manifestazioni di antisemitismo tra gli alunni di origine araba. Questo episodio mi ha fatto venire in mente il racconto di un ex soldato dell’esercito israeliano, il quale, nei corso di un’operazione militare, durante la Guerra dei sei giorni, nel 1967, è entrato, insieme a un gruppo di soldati, nella casa di un palestinese abbastanza anziano, che alla loro vista ha cominciato a tremare di paura. Hanno perquisito la casa e, non avendo trovato nulla, sono andati via. Sei mesi dopo, questa persona, ormai in congedo, passeggiando per strada ha incontrato l’anziano palestinese e l’ha salutato. Il tipo ha fatto finta di non riconoscerlo. L’ex soldato è tornato indietro e gli ha chiesto: “Ti ricordi di me ?’” e l’altro ha risposto: “Sì mi ricordo di te, ma siccome avete vinto la guerra non voglio avere nulla a che fare con voi”. L’ex soldato però, prima di andarsene ha voluto sapere da questa persona anziana cosa pensasse dei fatto che i soldati israeliani, quel famoso giorno, non gli avessero neanche torto un capello. L’anziano palestinese gli disse allora, testuali parole: “Io penso che voi israeliani non siate dei veri uomini”. Questo dimostra sino a che punto le nozioni di guerra e di virilità siano strettamente connesse. La virilità si dimostra attraverso la forza e la violenza.
Questa mentalita è molto radicata nel mondo arabo, e mi ha colpito che fosse presente anche in questo adolescente di origine araba nato in Francia. Ciò che è preoccupante è questo abisso culturale, che gli europei non riescono o non vogliono capire. Non ci si rende conto del conflitto culturale, anzi ogni volta che lo si mette in evidenza si viene considerati razzisti.
Anche in questo caso appare la solita miopia, incapace di riconoscere che, volenti o nolenti, si è in presenza di un conflitto culturale. C’è un conflitto di valori, anche nel ruolo assegnato alla donna; riconoscere questo conflitto non significa essere razzisti.
Una Città – Novembre 2004