“Non affilerai i loro coltelli”
La vendita delle armi
Potrebbe sembrare un problema del tutto moderno, ma non lo è. Il commercio delle armi ha rappresentato per il mondo ebraico un problema morale fin dall’antichità: è legittimo vendere degli oggetti che possono recare danno ad altri? Il problema si è posto in passato per due possibili categorie di acquirenti pericolosi: ebrei delinquenti e idolatri. Per entrambi la regola stabilita dal Talmùd e confermata dalla letteratura ritualistica successiva è che è proibita la vendita di armi, di strumenti militari e altri oggetti simili e pericolosi (come possono essere, ad esempio, catene di ferro); a costoro, come persone pericolose, è proibito anche affilare dei coltelli (cfr. Talmud Babilonese, Avodà Zarà 15b, Maim. Jad, Rotzeach, 12).
Alle origini di queste norme si può individuare una evidente preoccupazione per la tutela dell’ordine sociale e della sicurezza collettiva. Nei testi ritualistici questa motivazione è integrata da un’altra: non bisogna “sostenere le mani dei peccatori”, in altri termini fornire a chi non è in grado di giudicare il valore di un’azione scorretta, o che è particolarmente tentato a compierla, gli strumenti necessari. È l’applicazione estensiva della regola biblica che proibisce di “mettere inciampo davanti al cieco” (Lev. 19), dove per cieco si intende non solo chi non può vedere fisicamente, ma chi non è in grado di giudicare, un “accecato” metaforicamente, perché mosso – è una delle possibilità – da una particolare passione o desiderio: sarebbe come, seguendo un esempio classico, porgere del vino a chi ha fatto voto di astinenza dall’alcool.
Una volta stabilito il principio, il rigore originario fu moderato da una serie di precisazioni. Il Talmùd riferisce (ibid.) che mentre citavano la regola dei loro più antichi predecessori, alcuni maestri si chiesero meravigliati del perché, nonostante il divieto, ai loro tempi, la vendita delle armi ai non ebrei (i persiani) fosse una pratica normale e indiscussa. La risposta fu che è comunque consentito vendere armi a chi protegge l’ebreo. Di qui il principio codificato, che malgrado l’enunciato iniziale è consentita la vendita di armi agli idolatri presso i quali gli ebrei vivono, perché le usano per proteggere non solo loro stessi, ma anche gli ebrei; Maimonide in realtà limita questa autorizzazione ai casi in cui esista tra la maggioranza e gli ebrei un patto ufficiale di protezione.
Per quanto riguarda la seconda motivazione (non sostenere il potenziale peccatore e non indurlo in tentazione) una complessa giurisprudenza ammette che questo principio si applica solo quando l’ebreo sia l’unico ad avere in quel momento lo strumento necessario; se lo strumento è reperibile altrove, non costituisce colpa darlo al potenziale peccatore, perché potrebbe comunque procurarselo.
Queste regole, nate e sviluppate in una realtà diasporica, sono oggetto di vivace discussione oggi, sia per l’evidente attualità, che per la configurazione modificata della questione: ad esempio se sia o meno legittimo, alla luce della Halakhà, per lo Stato di Israele commerciare armi.
Confrontando i termini attuali del problema con i dati della tradizione, gli orientamenti emersi sono questi: 1) In generale gli Stati a maggioranza cristiana non sono da considerarsi come gli “idolatri” di cui parla il Talmùd, cioè con la supposizione preliminare di persone pericolose e immorali che possono usare le armi per offesa; per altri Stati invece , non cristiani e non musulmani (questi ultimi ovviamente purché non in guerra con Israele) potrebbero invece valere i rigori talmudici. 2) Se si tratta di alleati dello Stato di Israele la fornitura delle armai è da considerare legittima come lo è sempre stata quella ai popoli che difendono le minoranze ebraiche che vivono in mezzo a loro. 3) L’argomento della reperibilità in altra sede delle armi limita la possibilità di vendita, nei casi controversi, di armi sofisticate, che come tali non sono facilmente disponibili altrove.
In sostanza non è possibile una risposta univoca al problema, ma bisogna valutare, caso per caso, la natura e la cultura dell’acquirente, il suo rapporto di amicizia e di alleanza ufficiale con lo Stato d’Israele e con gli ebrei che vivono nel territorio considerato e il tipo di arma richiesta. Ciò fa sì che nell’applicazione pratica le opinioni a livello di Halakhà siano spesso diverse.
(la discussione delle fonti segue una nota del Rav Jehudà Ghershoni, di Gerusalemme, pubblicata in Bargai, Bittaòn Rabbanì Merkasì, 1, p. 58-67, 5743).
RDS