L’opinione di un rabbino americano
“Rossi o morti”
La traduzione di questo articolo richiede qualche spiegazione preliminare. L’autore, un rabbino che vive negli Stati Uniti, propone, con un gioco di parole in inglese, il dilemma tra “Red”, che significa rosso, e “Dead”, che significa morto. Per rosso si intende il potere comunista dell’Europa orientale, e la domanda è quindi se è meglio vivere sotto quel potere o morire in una guerra nucleare. Il presupposto del dilemma è che il mondo è diviso in due blocchi, quello occidentale e quello comunista, e che il primo rappresenta la libertà e l’altro l’oppressione. Da questa ferma convinzione l’autore deriva la sua analisi. Ora qui in Italia la prospettiva è senz’altro differente, sono in pochi ad accettare negli stessi termini una contrapposizione così radicale tra buoni da una parte e cattivi dall’altra; e allora il ragionamento che guida questo articolo è difficilmente condivisibile. Ci è tuttavia sembrato opportuno sottoporre il testo all’attenzione dei lettori, per vari motivi. Il primo è che si tratta comunque di una testimonianza, di un documento di come una scelta ideologica ebraica possa essere pesantemente condizionata dal modo di concepire la realtà e la politica in un luogo e in un momento determinato. Il secondo motivo è che se ci si astrae dalla convinzione dell’autore su chi è il buono e chi il cattivo, il problema resta sempre lo stesso: se cioè sia legittimo l’uso ma resta sempre lo stesso: se cioè sia legittimo l’uso della violenza, della guerra e della minaccia della catastrofe nucleare per salvare alcuni valori fondamentali. In questo tipo di discussione le considerazioni dell’autore sono comunque degne di attenzione. Ma dopo aver letto l’articolo si riaffaccerà la questione fondamentale: in nome di quali sistemi e valori l’ebraismo può accettare il ricorso alla violenza e ai rischi ad essa connessi. L’autore non ha dubbi; noi sì; ed è questo un altro motivo per leggere queste note (n.d.r.).
I problemi che l’umanità si trova ad affrontare nei nostri giorni sono incommensurabilmente più gravi e radicali di quanto mai la storia abbia riportato.
Prima dell’era atomica, “guerra o pace” poteva essere una scelta ragionevole. Ora con lo sviluppo delle nuove armi che possono annientare interi continenti e popolazioni, che annullano la distinzione tra civili e militari, che vanificano le possibilità di vittoria, tale scelta è divenuta priva di senso. Nuove perplessità e dubbi sorgono ogni giorno, ma sebbene tali questioni siano prevalentemente religiose per quanto concerne lo scopo e il significato della vita, e sebbene richiedano soluzioni religiose, le religioni organizzate non solo non hanno trovato soluzioni, ma a parte qualche presa di posizione pietosa e priva di senso, non hanno neanche tentato di indagare il problema. Può permettersi la religione di divenire una variabile dipendente, sempre pronta a reagire e criticare, ma mai a costruire?
La scarsità di opinioni religiose è ancora più deprimente se consideriamo l’Ebraismo, tanto più perché l’Ebraismo è una religione che abbraccia la totalità dell’esistenza: chi sostiene che una fede sinaitica può avere un rilievo inconsistente nelle incursioni interplanetarie, ignora lo spirito che è implicito nella legge e nella tradizione d’Israele.
Non è esatto sostenere che l’Ebraismo sia stato improntato nei secoli alla ricerca della pace incondizionata. È vero che il Talmud si pronuncia spesso contro la guerra, ma né i Profeti né i saggi erano pacifisti: se una guerra è condannabile, una specie ingiusta è immorale. La ricerca della pace ad ogni costo non è mai stata una direttiva d’insegnamento ebraico. Nel corso dei secoli gli ebrei hanno combattuto per raggiungere la loro indipendenza: la tradizione ebraica ha lottato per la pace, ma non è mai stata pacifista, ha approvato azioni militari, ma non è mai stata militarista. Secondo l’Halakhà esistono Milchamot mitzwah (guerre obbligatorie) e Dio viene anche appellato ish milchamà (uomo di guerra), ma mai lo spirito militare è stato glorificato. Pertanto è mancanza di fede nello spirito universale della Torah, presumere che essa non possa offrirci direttive in questi tempi di cataclisma apocalittico.
– Rossi o morti? È la scelta che si pone tra il disarmo immediato unilaterale con il rischio conseguente di resa al comunismo, o il proseguimento degli armamenti nucleari con la possibilità di un disastro cosmico. Rossi? Rischiare di arrendersi per continuare una vita sicura? Morti? Rischiare la morte per continuare nella libertà?
Il disaccordo fra i due punti di vista nasce sulla preminenza del valore al quale sia giusto sacrificare ogni cosa.
Secondo i sostenitori della prima posizione, l’accumulo progressivo di armi nucleari porterà prima o poi a una catastrofe, che solo il disarmo completo potrebbe evitare. Essendo la vita il valore supremo e prevalente sugli ideali di libertà e democrazia, è giusto rischiare un’invasione comunista per il proseguimento della vita. Nel peggiore dei casi l’umanità conoscerebbe altri lunghi anni di oscurantismo, gli anni del buio, ma alla fine ne riemergerebbe come in passato.
Secondo i sostenitori della seconda posizione, vale la pena di continuare ad usare il potere deterrente degli armamenti nucleari, perché il vero valore non è l’esistenza fisica, ma la vita secondo il codice morale occidentale. Vivere privati della libertà di agire e pensare è peggio della morte fisica.
Naturalmente esiste una terza alternativa possibile per i sostenitori di entrambe le posizioni, e cioè il disarmo bilaterale controllato, ma il fatto che tale alternativa non siamo in grado di attuare, testimonia solo la disfatta morale dei nostri tempi.
Dunque il punto centrale del dibattito è il seguente: cosa va posto su un piano superiore, l’esistenza fisica o la vita morale? Per gli avvocati dei “rossi”, perfino sotto il giogo comunista potrebbe sussistere un livello morale minimo sufficiente a valorizzare l’essere umano. Per gli avvocati dei “morti” in nessuna circostanza dobbiamo rinunciare alla vera e buona vita per la salvezza della vita.
L’individuo deve trovare una sua personale filosofia di fronte a tale dilemma, ma in aggiunta a questo l’ebreo si trova a fronteggiare un problema di solidarietà nei confronti del suo fratello al di là della cortina di ferro, ed è a questo specifico problema che intendo rivolgermi.
L’Halakhà fornisce i criteri per la decisione individuale se sia preferibile il martirio alla resa, se isa meglio scegliere la vita o la buona vita.
La vita è uno dei più alti valori del pensiero ebraico, ma possiamo dividere la buona vita in due categorie: la vita morale fondamentale e l’altra vita morale.
L’altra vita morale prevede la piena osservanza dei precetti divini, ma ciò nonostante, essa non è considerata il valore principale, ovvero non è permesso mettere a repentaglio la propria esistenza per osservarne i principi e le regole.
Secondo Maimonide chi muore per l’osservanza delle mizwòt non è un partire, ma un colpevole di grande peccato. Gli ideali di moralità, rettitudine e giustizia sociale devono essere prevaricati per preservare la vita.
Invece, la vita morale fondamentale comprende l’osservanza dei rudimenti della morale, dei precetti fondamentali, a favore dei quali è giusto affrontare persino il martirio. Proprio per tali fondamenti (i doveri verso D-o e verso il prossimo, la purezza personale), l’Halakhà richiede all’uomo il sacrificio della vita.
Pertanto, se vivere sotto la dominazione comunista porta alla violazione di tali fondamenti, l’ebreo deve scegliere il martirio, altrimenti non deve rischiare la vita ribellandosi. Non c’è dubbio che in Unione Sovietica all’ebreo non è permesso osservare i precetti dell’alta vita morale, ma non gli è neanche imposto di commettere atti immorali o di adorare altri dei, e quindi in tale circostanza meglio Rosso che Morto.
Naturalmente i criteri morali individuali non sono gli stessi per la collettività e lo Stato, dal momento che interessi più vasti richiedono un codice più ampio. Quindi se c’è una differenza tra individuo e pubblico, riguardo alla questione del sacrificio e della guerra, ci devono essere anche dei criteri per formulare una filosofia pubblica dell’ebreo in quanto facente parte di uno Stato.
L’Halakhà classifica le guerre secondo le loro cause.
Le guerre obbligatorie erano dirette contro gli idolatri che occupavano la terra d’Israele, contro gli Amaleciti e contro gli aggressori che minacciavano Israele, ovvero erano le guerre necessarie per garantire la sopravvivenza nazionale. Amalek, la personificazione del male, doveva continuare a essere combattuto in ogni generazione, senza confini di tempo o di luogo.
Per costruire una società positiva gli ebrei dovevano costantemente tenere lontano il male, cioè Amalek, il quale minacciava non solo Israele ma l’umanità intera. Era obbligatorio non solo tentare di migliorare la nazione, ma tentare id migliorare il mondo.
Secondo Machiavelli “La guerra è giusta quando è necessaria”, ma invece secondo il postulato ebraico “la guerra è necessaria quando è giusta”. Le guerre volontarie erano invece quelle dirette ad allargare i confini della nazione o a prevenire probabili attacchi esterni.
In linguaggio moderno una guerra difensiva è una guerra di attacco al primo colpo. È logico che secondo l’Halakhà noi non saremo mai i primi a iniziare una guerra, proprio perché la bomba nucleare non può più essere definita un’arma, ma il tradimento di ogni espressione di morale umana.
Così come per l’individuo abbiamo preso in esame la possibilità di “Rosso o Morto”nei confronti, della vita morale fondamentale, altrettanto dobbiamo fare per la scelta pubblica.
Sebbene il paragone sia facile, non possiamo identificare la Russia con un Amalek supermeccanizzato, e non possiamo considerare obbligatoria una guerra contro di essa, pertanto non c’è ragione per noi di rischiare la vita. Diversamente dai nazisti, i sovietici non vogliono distruggere le vite, ma piuttosto gli spiriti degli ebrei. Diverso è il problema per lo Stato d’Israele attuale: possiamo ragionevolmente prevedere che se l’occidente divenisse rosso, Israele non rimarrebbe in mani ebraiche. La guerra di difesa per lo Stato d’Israele sarebbe incontestuabilmente una guerra obbligatoria, e correre il rischio di una morte nucleare sarebbe secondo me l’unica alternativa alla perdita di Eretz Israel.
Ma questa decisione verrebbe modificata nella prospettiva del sacrificio non di qualche cittadino ma di intere popolazioni, della distruzione non di qualche città ma di interi continenti. Proprio perché la catastrofe sarebbe inimmaginabile, dobbiamo alterare i nostri principi etici nei riguardi della guerra, e spingere gli ebrei ad andare oltre i diritti di un’unica nazione, sebbene sacra, in favore dell’umanità intera.
Dovremmo agire in favore di una morale universale, non nazionale, e rinunciare eroicamente alla Terra Santa in favore della pace. Saremmo nonostante ciò impegnati a difendere con le nostre vite la religione, il valore, la morale, la vera vita del nostro popolo: il Giudaismo.
L’esistenza dell’ebraismo in Russia è per certi versi paradossale: da una parte c’è tolleranza ufficiale e negazione dell’anti-semitismo, dall’altra esistono le persecuzioni sommerse e l’effettiva impossibilità di poter vivere una vita ebraica apertamente.
Se questo accade oggi mentre la Russia è ancora sensibile all’opinione mondiale, cosa accadrà se il mondo diventerà “rosso”? Al momento attuale una decisione per il “Rosso” porterebbe una tragedia universale sul popolo ebraico. Non solo l’ebraismo sarebbe minacciato, ma tutte le strutture religiose occidentali.
Non c’è dubbio che se l’ebraismo non ha preferenze per governi politici o sistemi economici, è la democrazia che più si accorda con gli ideali profetici e rabbinici.
In conclusione, il singolo individuo di fronte alla scelta “Rosso o Morto” non deve rinunciare alla vita e decidere “Rosso”. Ma la collettività alla vita e decidere “Rosso”. Ma la collettività deve determinare se tale decisione porterebbe alla violazione delle condizioni della morale fondamentale.
Secondo la nostra analisi ciò sarebbe inevitabile, e pertanto la decisione pubblica deve deplorare il disarmo unilaterale che renderebbe possibile l’avvento del comunismo.
Ma se la guerra nucleare è considerata immorale, esiste qualcosa di più immorale? Noi rispondiamo che essere ridotti alla pura esistenza fisica, negando i principi del nostro popolo e privati dalla fede che ci ha assicurato la sopravvivenza, vale la pena di correre il rischio di una guerra. Ma noi viviamo nella speranza che il successo possa coronare la terza alternativa: né “Rosso” né “Morto”, e su questo poggia la credenza ebraica che la guerra non sia la condizione permanente dell’umanità, ma solo una misura temporanea che conduce alla pace ultima.