Il punto di vista dell’Halakhà
Violenza e valore della vita
Il mio approccio al soggetto è il tipo scientifico-politico, piuttosto che storico. Inizierò, come fecero Platone ed Aristotele, con una discussione sulla natura umana. Inoltre, tratterò il soggetto da un punto di vista concettuale ed analitico, anziché cronologico. Sento il dovere di sottolineare, prima di tutto, un mio pregiudizio: sono infatti restio a eliminare una qualsiasi parte della Bibbia o dei commenti che i Rabbini hanno scritto su di essa nel corso dei secoli. Se non sono sempre d’accordo con i rabbini, e spesso ho espresso un considerevole dissenso, ugualmente nutro troppo rispetto per l’integrità e la sincerità dei miei progenitori per non cercare di capire ciò che essi hanno tentato di creare e di contribuire al pensiero ebraico e alla sua sopravvivenza.
Se iniziamo con la natura umana, bisogna precisare, come prima cosa, che agire violentemente, con aggressività, è umano. Ciò è stato riconosciuto, per esempio, da Konrad Lorenz, che ha discusso l’aggressività e la violenza nel regno animale e nella società umana. La halakhà, la legge ebraica, ha anch’essa riconosciuto questo fatto. Nella natura umana c’è una tendenza alla violenza; ma come tutti gli istinti, quali quelli per il mangiare o per il sesso, non sono totalmente repressi dalla legge ebraica, ma solo controllati e regolati, resi costruttivi e persino nobilitati e santificati, così avviene anche per l’istinto alla violenza e all’aggressività. Per questa ragione bisogna affermare che l’ebraismo non può essere considerato pacifista. Ci furono in vero, nel terzo e quarto secolo, rabbini che si opposero alla violenza come mezzo per assicurare la sopravvivenza ebraica, ma il loro fu decisamente un punto di vista minoritario. È possibile dimostrare, tramite le fonti, che il pacifismo non è un ideale ebraico: se il pacifismo consiste nel perseguimento della pace ad ogni costo, allora esso non è mai stato un insegnamento ebraico autorevole.
L’ebraismo cerca di regolare le circostanze che permetterebbero l’esercizio della violenza – da parte di singoli, gruppi o stati – piuttosto che eliminarla totalmente. La violenza è nello stesso tempo un importante modo sia per distruggere che per conservare uno fra i fondamentali valori dell’ebraismo: la vita umana. Se si è coinvolti in un’azione violenta, ciò deve essere fatto in accordo alla legge ebraica, nell’interesse del valore della vita, o di un valore ancora più importante della vista stessa. Non bisogna mai perdere divista lo scopo ultimo che si vuole raggiungere. Così, la guerra per la guerra, che nell’ebraismo è rappresentata da Amalek, è l’essenza del male. Non ci può essere compromesso nell’opposizione a una tale linea di condotta. Duelli per vendicare il proprio onore sono considerati deplorevoli nefandezze. Sadismo e masochismo non devono essere tollerati. Persino l’ascetismo è disapprovato, in quanto è considerato una violenza contro se stessi.
Violenza contro se stessi
Il primo esempio, in questo tipo di violenza, è il suicidio, che è proibito. La halakhà contempla la proibizione contro l’auto-accusa, e la confessione di un criminale non ha valore in un processo: secondo Maimonide, infatti, questo tipo di violenza contro se stessi è inaccettabile, perché ci sono persone che potrebbero voler distruggere se stessi confessando di aver compiuto atti criminali. È interessante notare come nel XIII secolo Maimonide si interessava dell’impulso di morte, che sarebbe stato enfatizzato, secoli dopo, da Sigmund Freud.
Un’altra forma di violenza contro se stessi è l’eroismo, il rischiare la propria vita per salvare un altro. Questo è ciò che la halakhà chiama safeq sakanà (pericolo probabile): il mettere a repentaglio la propria vita sperando di salvare qualcuno che sta in pericolo certo (wadai sakanà). Questo problema è discusso nei commenti al Maimonide e nello Shulchan Arukh.
Subito dopo la guerra del Kippur si verificarono casi in Israele in cui alcuni soldati misero avventatamente la propria vita in pericolo, facendo il bagno nel canale di Suez. Si pose quindi il problema, dal punto di vista halakhico, se fosse permesso ad altri soldati tentare di salvarli. Il rabbinato israeliano rispose affermativamente, e diede il permesso di entrare in una situazione di safeq sakanà (possibilità di pericolo) per salvare quei soldati che stavano in wadai sakkanà (pericolo certo). Quello che è interessante è la giustificazione data da Rabbi Yehudà Gershuni, un grande studioso talmudico. Il ragionamento di Gershuni fu semplicemente che il fatto in sé di mettere imprudentemente in pericolo la propria vita non implica necessariamente la perdita del diritto a un interesse divino per essa. Il nostro corpo non appartiene a noi, ma a Dio.
Lo stesso principio si applica pure per i trapianti di organi. La halakhà non accetta la nozione che un danno irreversibile del cervello significhi morte. Può qualcuno lasciare, come ultima volontà, che il proprio cuore venga donato a un altro, in caso di danno cerebrale irreversibile? Purtroppo, secondo la halakhà, egli non è il proprietario dei suoi organi, e dunque non può disporne a piacimento.
Anche ili problema dell’aborto, che può essere considerato come una violenza contro se stessi, si ricollega a questo principio. In termini generali l’aborto è proibito dalla legge ebraica a meno che ci sia un danno per la madre. In questo caso, il feto rientra nella categoria del rodèf, cioè di qualcuno che attenta alla vita di un’altra persona, e pertanto può essere eliminato. Comunque, c’è un’enorme letteratura rabbinica che discute quest’argomento, e già due secoli or sono uno dei più grandi studiosi talmudici scrisse che l’aborto può essere permesso nel caso in cui il nascituro è un mamzèr (figlio illegittimo, ossia nato da un rapporto adulterino o incestuoso), e conseguentemente destinato a una notevole sofferenza. Non si parla qui di sofferenza fisica, bensì del danno emotivo subito da persone che non potranno sposarsi secondo le proprie scelte. In questo caso, la violenza contro la vita è permessa perché una vita senza un livello minimo di qualità non è considerata sufficientemente sacra da impedire l’uso della violenza.
Questo ci porta alla situazione più problematica di violenza contro se stessi: il martirio. Se il concetto di martirio. può aver aiutato gli ebrei, dal punto di vista psicologico, a confrontarsi con determinate situazioni, dal punto di vista della halakhà esso non è considerato una mitzwà di primaria importanza. È assai più meritevole salvare la propria vita. L’attivismo sionista non è dunque una posizione nuova, perché questo fu l’atteggiamento dell’ebraismo da sempre. Può essere che nel XIX e nel XX secolo fosse possibile agire maggiormente a favore dell’auto-preservazione di quanto fosse fattibile prima di allora, ma in nessun tempo nella storia ebraica il martirio fu anteposto al mantenimento della propria vita.
In nessun posto della Torà c’è la mitzwà di sacrificare la propria vita a Dio; al contrario, c’è in essa il comandamento di preservarla. Se si cercano nella letteratura casi concernenti il martirio, si trovano solo tre situazioni in cui ci si deve far uccidere: nel caso in cui si venga richiesti di commettere un omicidio, o di avere rapporti sessuali proibiti, o di compiere idolatria. Quindi, se pensiamo ai martiri di Massada che eroicamente dichiararono di voler morire piuttosto di essere catturati, difficilmente potremmo affermare che essi compirono la mitzwà di morire per il Qiddush ha-Shem (santificazione del Nome).
Il termine Qiddush ha-Shem è usato nella letteratura talmudica non solo in legame alla morte, ma anche alla vita. Secondo il Talmud, Qiddush ha-Shem significa: comportati in modo tale che chiunque ti veda dica “Benedetto sia il Dio di quell’uomo”. Questa è la sola definizione talmudica del Qiddush ha-Shem, spingere qualcuno a riconoscere che il Dio degli ebrei deve essere assai grande per ispirare un tal genere di comportamento come è osservato fra gli ebrei.
È stato suggerito che gli ebrei, in passato, sostituirono il martirio alla resistenza attiva, alla quale sarebbero tornati solo nell’era moderna: è però difficile accettare questa tesi. In realtà gli ebrei hanno sempre adottato ogni tipo di resistenza che fosse loro possibile. Bisogna ricordare che gli ebrei, sia prima che durante l’olocausto, sono stati in una situazione di enorme svantaggio. Ci sono stati molti esempi di auto-difesa nella storia ebraica, ma gli ebrei troppo spesso sono stati soverchiati dal numero, dalle capacità e dall’armamento dei loro nemici. Bisogna anche sottolineare un altro punto, che rende unica la condizione ebraica. La minoranza musulmana in un paese cristiano può sempre usare, come arma di difesa, la rappresaglia contro le minoranze cristiane in altri paesi, ma gli ebrei, anche quando furono in posizione di poter contrattaccare, preferirono subordinare il destino della propria comunità particolare il destino della propria comunità particolare al benessere del popolo intero. Gli ebrei hanno un forte senso di solidarietà con i correligionari in qualsiasi posto essi siano, e ciò li spinge a essere più cauti ogni volta che le loro azioni possono sì facilitare la loro causa in un posto, ma provocare un danno irreparabile in un altro.
Quando fu loro possibile, comunque, gli ebrei si difesero. Yitzhak Nissembaum, uno dei martiri dell’olocausto, parlando agli ebrei in un campo di concentramento nel giorno di Kippur, disse loro che il Qiddush ha-Shem, la santificazione del Nome, è sì una mitzwà, ma le circostanze cambiano col tempo e con il luogo. Nel medio-evo gli ebrei sentirono di osservare la mitzwà del Qiddush ha-Shem facendosi uccidere, poiché a quell’epoca i cristiani volevano conquistare l’anima degli ebrei e convertirli al cristianesimo. Se un ebreo moriva, il cristianesimo perdeva dunque un possibile candidato al battesimo. Ma oggi, disse Nissembaum agli altri deportati, i nazisti non vogliono l’anima ma il corpo dell’ebreo. Quindi, la più grande mitzwà è la sopravvivenza. Per questo li esortò a fuggire, a nascondersi nelle foreste, a unirsi alla resistenza, a fare qualsiasi cosa pur di vivere.
Violenza contro gli altri
Ci sono molte forme di questo tipo di violenza. Prima di tutto, come abbiamo visto, c’è la violenza contro chi ci attacca, il rodèf, e questa è permessa. È lecito a me uccidere chiunque mi voglia assassinare o abusare sessualmente di me, ma questa è la sola giustificazione che il Talmud dà per l’esercizio della violenza, a parte quando si tratti di un’autorità costituita.
Il concetto di rodèf è stato esteso ad includere anche le spie. È permesso uccidere una spia, per evitare che egli continui la sua opera contro la comunità; l’esecuzione è però considerata una misura preventiva, e non punitiva, e se quindi è possibile impedirgli l’attività in altri modi, la pena di morte non è lecita. Nei nostri giorni, Aharon Lichtenstein ha suggerito che nella categoria del rodèf su debba includere non sono chi fornisce ad altri informazioni riservate, ma anche chi minaccia la comunità nel tentativo di sovvertire l’intera struttura sociale ed economica: chi tenti di avvelenare l’acqua, o sabotare le comunicazioni o le fonti energetiche di un paese è un rodèf, e pertanto la violenza contro di lui sarebbe permessa.
Si può far ricorso alla violenza per liberare dei prigionieri, perché questi sono considerati in pericolo di vita. Gli ebrei hanno sempre assunto che chiunque venga fatto prigioniero possa subire il destino di quei prigionieri israeliani fatti dalla Siria durante la guerra del Kippur. Ciò ci può aiutare a capire perché Giacobbe non si oppose al piano dei suoi figli Simeone e Levi per liberare la sorella Dina fatta prigioniera dagli abitanti di Shechem. Simeone e Levi volevano liberarla dalla prigionia, e per questo scopo l(uso della violenza è permesso. Ciò non implica, però, l’approvazione del massacro che essi compirono, che fu aspramente condannato da Giacobbe, prima di morire (vedi Nechama Keibovitz, Riflessioni su Bereshit, pp. 264-265, Ha’ameq Davàr su Numeri 25, 12).
L’uso della violenza per difendere i propri beni è lecito, ma questo solo perché c’è la presunzione, secondo il Talmud, che il ladro stesso usi la violenza contro il proprietario: anche questo rientra quindi nel caso di legittima difesa. Di nuovo, il ricorso alla violenza da un punto di vista halakhico ruota attorno al valore centrale della santità della vita. Solo in questo caso è lecito difendere la proprietà a scapito della vita di qualcun altro.
Si ha il diritto di esercitare la violenza per sostenere l’onore di Dio, per difendere la legge divina? Posso uccidere chi profana il sabato, o un uomo e una donna che abbiano un rapporto illecito? Nella Bibbia leggiamo che Pinechas, nipote di Aharon, fece esattamente così. Ma la risposta di Dio fu, come afferma Rabbi Naftalì Zevì Yehudà Berlin, che gli fu dato “un patto di pace” per calmarlo e ridargli la pace della mente. Dio non vuole la vendicatività a Suo favore, benché alcune persone troppo zelanti dimentichino a volte questo fatto. L’essere vendicativo porta con sé uno strascico di altre colpe e altri mali.
La vedetta per un torno subito è anch’essa vietata. Ma c’è un’eccezione, che richiede una spiegazione: il caso del goel ha–dam. Se un uomo commette un omicidio involontariamente, non è punibile con la pena di morte, ma ha il privilegio di fuggire alla ricerca di protezione in una “città rifugio”. Un parente della vittima ha il permesso di inseguire l’omicida involontario, e anche di ucciderlo. Costui è alla mercé del parente della vittima “vendicatore del sangue” (goeld ha–dam), fino a che non giunga in una città rifugio. Questo indicherebbe che abbiamo una situazione in cui è permesso il ricorso alla violenza per vendicare un torto subito. Bisogna però precisare che, secondo l’opinione prevalente nel Talmud, il goel ha–dam non ha l’obbligo, ma solo il permesso di vendicarsi. Non usare la violenza deve rimanere la soluzione preferita. Ciò nonostante, l’istituzione del goel ha–dam serve a un importante scopo nel contesto della legge ebraica in epoche primitive o semi-primitive. Come era possibile in quei tempi, infatti, in cui non c’erano agenzie di investigazioni, arrestare un omicida? Se qualcuno commetteva un omicidio involontario, invece di tentare di nascondersi, chiedeva asilo e protezione a una città rifugio. Così era possibile avviare un processo, stabilire se l’omicidio era in effetti involontario, e dare le punizioni del caso.
La violenza contro l’autorità costituita
Il termine legale per questo tipo di violenza è morèd be–malkhut, ribellione contro il regno, ed è passibile della pena di morte. Per regno bisogna intendere non solo una forma di stato indipendente, ma anche una qualsiasi forma di autorità legale autonoma e sovrana, anche se limitata, come spesso ebbero gli ebrei nella loro storia, in particolare nei paesi sotto il dominio musulmano.
La fonte di questa norma non è nel Pentateuco, ma nel Libro di Giosuè. Gli ebrei delegarono il potere di far osservare la legge a Giosuè e ai suoi successori. Il patto fra gli ebrei e il loro re prevedeva obbligazioni da entrambe le parti, e determinate sanzioni per il mancato adempimento di tali obblighi. Al re era dovuta ubbidienza; chiunque non lo facesse, e sfidasse l’autorità di Dio o un’autorità da Lui delegata, era punibile in quanto rodèf, poiché minava alle basi la struttura che teneva insieme la società.
Il divieto di ribellarsi o commettere violenza contro l’autorità costituita non significa però che gli ebrei dovessero sottomettersi passivamente ad essa. C’è un considerevole corpo letterario di protesta non-violenta contro l’autorità costituita. Gli ebrei aveva l’obbligo di far sì che anche i re si comportassero secondo giustizia. Ricordare ai re i loro doveri era nella migliore tradizione profetica. I profeti furono dei ribelli contro l’autorità costituita;ma persino Elia, che fu il ribelle maggiore e spesso in fuga dalle ire del re Acab e della regina Isabella, prestava la dovuta deferenza al re, che egli accusava, perché era comunque necessario rispettare il re e conservare la sua autorità.
C’è una tradizione ebraica di disobbedienza civile. Un esempio classico si trova nel Talmud. I rabbini vietarono l’uso del vino prodotto da non-ebrei, e tentarono d’imporre la stessa regola anche per l’olio. Gli ebrei accettarono la legge per il primo ma non per il secondo caso, e i rabbini furono costretti ad abolire la proibizione per quanto riguardava l’olio. Questo è uno dei più grandi aspetti democratici della legge ebraica: per principio, nessuna corte con potere legislativo può emettere una legge che la maggioranza della gente non può e non vuole accettare.
Come oggi negli stati democratici, anche nell’antichità presso gli ebrei si poteva obiettare contro la costituzionalità di un comando dato dal re. Se qualcuno disobbediva a un ordine perché questo violava quanto scritto nella Torà, non poteva essere punito.
Nella legge ebraica c’è un’altra forma di resistenza all’autorità costituita, spesso sorvolata, la legge del zaqèn mamrè. Se una Corte Suprema stabilisce che un giudice è in errore, lo si obbliga ad applicare la legge secondo le decisioni che essa ha preso. Se il giudice si rifiuta, commette un’offesa imperdonabile e un criterio capitale. Comunque, dice il Talmud, ciò non gli può impedire di girare per le strade della città e proclamare che, secondo lui, la Corte Suprema ha sbagliato. Gli viene garantito il diritto di continuare il suo dissenso, non con l’azione, ma con la parola.
Il diritto alla protesta contro l’autorità costituita è quindi profondamente radicato nella tradizione ebraica. Il Talmud riporta tutte le opinioni contrarie, e quella che era un’opinione di minoranza in un secolo, può sempre divenire maggioritaria in un altro.
Un’altra forma di protesta prevista, antica quanto il Talmud stesso, è il diritto allo sciopero, che si affianca a molte altre norme a difesa dei diritti delle classi meno abbienti.
Come ci si deve comportare, in quanto ebrei, quando la violenza è rivolta contro lo stato, non ebraico, nel quale si vive? Prima di tutto, non è affatto certo che secondo l’ebraismo la rivoluzione per la libertà politica sia permessa. Questo problema risale all’epoca dei Maccabei, quando si mise in discussione il fatto che la guerra contro i greci fosse giustificata per motivi diversi dal diritto di servire Dio in accordo alle proprie credenze. La sovranità politica, di per sé, non era considerata così fondamentale.
Anche oggi Joseph Schultz sostiene che combattere per la sovranità politica può costituire la rovina del popolo ebraico (vedi l’articolo in questo inserto a pag. 18). Egli ritiene che gli ebrei, a causa del loro complesso messianico,si mettano spesso in situazioni tali da rischiare la loro stessa sopravvivenza, come fecero negli anni 70-71. Egli critica Rabbi Shlomo Goren (ex Rabbino Capo d’Israele) ed altri che incoraggiarono il popolo ebraico in questo senso, poiché crede che gli ebrei non saranno più capaci di ritirarsi dai territori conquistati se verranno ossessionati dall’idea che questa è l’era messianica e che perciò non dobbiamo rinunciare neanche a un palmo della Terra d’Israele. Questa situazione si ricollega alla controversia di Rabbi Johanan ben Zakkai negli anni 70-71.
Il punto di vista opposto è rappresentato da Ablert Memmi, che ritiene che ciò che conta realmente è la sovranità politica. Secondo Memmi, tutta la storia ebraica fino ad ora è stata uno sbaglio: l’intera tradizione ebraica è semplicemente l’evidenza del fatto che gli ebrei furono colonizzati, con il contemporaneo sviluppo di una filosofia e di un pensiero ebraico che rese possibile vivere in queste condizioni. Ora, dice Memmi, gli ebrei devono determinare il loro proprio destino, ma la rivoluzione non è ancora completa, a causa del fatto che gli ebrei non hanno sostituito alla vecchia una nuova tradizione che fornisca l’ideologia appropriata alla nuova era. Ciò che conta, comunque, secondo lui, è che gli ebrei siano liberi e indipendenti.
Anche riguardo alla possibilità di fare uso della violenza a favore dello stato in cui si vive c’è divergenza di opinioni. Il Hafetz Hayim, che visse solo con una generazione fa, e fu una delle autorità più rispettate nella halakhà, ritiene che gli ebrei debbano combattere per il paese in cui vivono poiché, in base alla halakhà, tutte le regole che riguardano il re ebreo valgono anche per quello non ebreo. I re ebrei sono responsabili del mantenimento della legge e dell’ordine, e ciò vale anche per i re non ebrei. Pertanto noi dobbiamo loro l’obbedienza, e gli ebrei devono persino combattere nell’esercito del paese in cui essi vivono. Altri, tuttavia, hanno assunto la posizione opposta, e sostengono che un ebreo non può rischiare la propria vita in una guerra di non-ebrei. Certamente un ebreo non può fare il mercenario.
Violenza dello Stato contro i singoli individui
La prima forma di questo tipo di violenza è, ovviamente, la pena corporale, che secondo la legge ebraica può essere capitale, o consistere nella fustigazione. Abbiamo pochissime evidenze di pena tramite la reclusione, fino al medio-evo. Certamente, una delle più grandi conquiste della legge ebraica è il fatto che la prigionia per debito non è autorizzata né dalla Bibbia, né dal Talmud. Questa norma deriva da un verso della Bibbia, che prevede che un ebreo possa essere venduto come schiavo per non poter risarcire un furto commesso, ma non per aver chiesto denaro in prestito e non essere in grado di restituirlo. Questa norma viene estesa dal Talmud, che protegge il debitore non solo dalla schiavitù e dalla prigione, ma anche da perquisizioni e confische. Secondo la legge biblica e talmudica, non si può entrare in casa del debitore per vedere cosa abbia. Il diritto alla privacy risale fino ai primi tempi degli ebrei nel deserto, e fu esteso enormemente dal Talmud e dai legislatori.
Purtroppo, queste norme a protezione del debitore furono in parte abbandonate durante il medioevo. È un brutto capitolo della storia ebraica il fatto che la prigione per debito venne allora introdotta. Sembra che troppi ebrei contraevano debiti, pur continuando a vivere nel lusso, e Rabbenu Tam ritenne necessario entrare nelle loro case e compiere perquisizioni e confische.
Riguardo all’auto-accusa, ho già sottolineato che la proibizione contro di questa fu basata sul fatto che gli ebrei non volevano dare nessuno sfogo all’impulso di morte. Questo diritto è ben più esteso, nella legge ebraica, di quanto lo sia in qualsiasi altro sistema giuridico. Se qualcuno entra in un tribunale e sostiene di aver ucciso una persona, secondo la legge ebraica la sua affermazione non ha alcun valore e non può avere nessuna conseguenza. Ciò mostra fino a che punto la halachà protegga gli individui da una forma di violenza da parte dello stato, la confessione forzata.
Qual’è la posizione dell’ebraismo riguardo alla coercizione religiosa? Non si può negare che secondo l’ebraismo lo stato può imporre ai singoli individui l’osservanza dei comandamenti di Dio. Ci sono molte razionalizzazioni, nella letteratura apologetica, per questo punto di vista, ma nessuna molto soddisfacente. Nell’epoca moderna il problema è molto serio, particolarmente per i capi del sionismo religioso nello Stato d’Israele. Se essi fossero in maggioranza, eserciterebbero una coercizione nei confronti della minoranza? Risposte sono state date in questo secolo dai Rabbini Capo Abraham Kook e Yitzhak Herzog, che furono profondamente legati alla fondazione dello stato ebraico, e dalla rinomata autorità in campo halachico conosciuta con il nome di Hazon Ish, che si opponeva alla fondazione dello Stato d’Israele: tutti loro concordarono che non ci sarebbe dovuta essere alcuna coercizione religiosa.
Essi si basavano sul fatto che nella tradizione halachica c’è un’eccezione alla regola secondo la quale i dissenzienti possono essere obbligati a un determinato comportamento religioso. Se un bambino ebreo è stato rapido nell’infanzia, è cresciuto in mezzo a non-ebrei e successivamente ritorna a far parte della comunità ebraica, non si può esercitare alcuna coercizione religiosa su di lui. Non può essere accusato di disobbedienza alla volontà di Dio, poiché egli soffre di una mancanza emotiva o intellettuale. Rav Kook e Rav Herzog, come anche il Hazon Ish, sostennero che oggi ognuno rientra nella categoria di un bambino ebreo fatto prigioniero durante l’infanzia. A causa dell’ambiente in cui noi viviamo e delle dottrine che ci ricordano, la maggior parte di noi è prigioniera, in un certo senso, dei non-ebrei e dei modi di vedere non ebraici, ai quali soccombiamo con riluttanza. In questo senso, siamo tutti paragonabili agli infanti contro i quali non si può esercitare alcuna coercizione religiosa. In realtà, questa è una finzione legale. I primi pionieri dello stato d’Israele, e perfino i capi più prestigiosi, crebbero in ambienti totalmente legati alla tradizione ebraica. La loro ribellione a questa giunse assai dopo la loro infanzia, e non ha senso quindi considerarli come dei bambini ebrei fatti prigionieri da non-ebrei. Ma le finzioni legali sono una maniera assai rispettata per aggiornare i sistemi legali, e ciò vale anche per la halakhà.
Violenza fra gli Stati
Riguardo alla violenza fra uno stato e l’altro, c’è una vasta letteratura halachica che distingue fra guerre obbligatorie e facoltative.
Secondo la halakhà, una guerra obbligatoria – ossia conquistare la terra d’Israele e difenderla – era comandata da Dio. Una guerra facoltativa – per espandere il proprio territorio o per incrementare l’economia – richiedeva il consenso combinato del re e del Sinedrio, il gruppo di 71 giudici che aveva la suprema autorità legislativa e giudiziaria. Dovevano quindi concordare i poteri esecutivi, legislativi e giudiziari dello stato ebraico.
Anche se il Sinedrio e il re concordavano, comunque, poteva la loro dichiarazione di guerra essere considerata ingiusta? Maimonide non avrebbe sollevato obiezioni alle decisioni del re e del Sinedrio; al contrario, secoli dopo, Samuele David Luzzatto ritenne che non c’è alcuna giustificazione biblica né talmudica per una guerra contro qualcuno che non è un nemico e non minaccia la propria salvezza. Il fatto che la Bibbia parla della guerra contro oyevekhem – i vostri nemici – significa che le guerre possono essere intraprese solo contro chi rappresenta un pericolo. In nessun’altra circostanza la guerra è permessa.
L’ultimo punto che si può sottolineare riguardo all’esercizio della violenza è che difficilmente essa può raggiungere il suo obiettivo. Ho già fatto notare che si può far ricorso alla violenza per il fine più nobile, ossia la santità della vita stessa. Ma se le probabilità che questo valore venga conservato sono poche, e se, d’altra parte, la vita viene posta in un pericolo ancora maggiore, allora bisogna essere molto esitanti sull’esercizio della violenza.
Questo punto è specialmente rilevante per i problemi attuali dello Stato d’Israele un gruppo assai rispettabile di autorità halakhiche che ritengono che gli ebrei non possano restituire neanche un palmo del suolo sacro, basandosi su ovvie fonti halakhiche. Questa terra è nostra, essi dicono, e ci è stato donata da Dio. Dio ci ha ordinato di prenderla e di conservarla a rischio della nostra vita. Quindi, Rabbi Yitzhak Nissim e Rabbi Zevì Yehudà Kook, il figlio del primo rabbino capo d’Israele, si oppongono inequivocabilmente alla restituzione di alcuna parte della terra.
Le “colombe”, d’altra parte, includono Rabbi Joseph B. Soloveitchik, le cui affermazioni pubbliche e i saggi scelti sull’argomento hanno ricevuto attenzione in tutto il mondo. Secondo lui il problema è se non vada anteposta la salvezza della vita, a causa della sua gran santità, nel caso in cui gli ebrei possano ottenere la pace restituendo parte dei territori. Si aggiunge inoltre che gli ebrei devono andare in guerra solo quando le probabilità di vittoria sono alte. Quando Dio disse agli ebrei di conquistare la Terra Santa, Egli era dalla loro parte. È una richiesta halachica il non far ricorso alla violenza o alla guerra a meno che la vittoria non sia probabile. Ed oggi la vittoria non è qualcosa di cui Israele possa essere sicuro.
In questo contesto Rabbi Yehudà Gershuni cita la storia di Rabbi Jochanan ben Zakkai, che nel 70 dell’era volgare ritenne che gli ebrei non potessero riportare la vittoria sui romani. Gli zeloti sostenevano la tesi opposta, e questo era il problema di quei giorni. Quando Rabbi Jochanan ben Zakkai stava in punto di morte, iniziò ad agitarsi, e alla richiesta dei suoi allievi sul motivo del suo tremore, rispose: “Perché non dovrei tremare! Se io stessi di fronte a un re di carne ed ossa, tremerei. Non dovrei tremare adesso, che sto per andare al cospetto del Re dei Re?“. Forse, dice Rabbi Gershuni, le sue parole rivelano i suoi sentimenti di colpa. Forse egli sbagliò, e non doveva arrendersi ai romani. Forse doveva comportarsi come il re Ezechia, assediato da Sennacheribbo. Ezechia non sapeva se combattere o meno contro il capo del grande impero assiro. La piccola Giudea avrebbe resistito di fronte al leone? Egli decise di combattere, e avvenne un miracolo: il nemico fu colpito da un’epidemia e Gerusalemme fu liberata dall’assedio. Sul letto di morte Rabbi Jochanan ben Zakkai si chiedeva se forse anche ai suoi tempi potevano sperare in un miracolo, o se invece la situazione era allora differente, e non si avesse più il diritto di appoggiarsi ai miracoli. La situazione attuale d’Israele presenta un altro problema. Anche se si fosse d’accordo che la sovranità politica è una causa per la quale la guerra e la violenza sono giustificate secondo la halakhà, c’è da chiedersi se per un piccolo stato, nell’era moderna, sia mai possibile raggiungerla. Lo stato d’Israele è oggi totalmente dipendente dagli Stati Uniti per la sua sopravvivenza, e intraprendere una guerra suicida contro la volontà degli Stati Uniti significherebbe fare una guerra in cui la vittoria è virtualmente impossibile. Può questa guerra essere considerata giusta?
Il Talmud, riferendosi a uno schiavo che è libero solo per metà – come nel caso che appartenga a due persone, di cui solo una avrebbe concesso l’emancipazione – suggerisce che nessuno è libero fino a che non abbia un solo padrone, Dio. Può Israele ingannare se stesso nel credere di essere libero, autonomo e sovrano?
Forse il destino d’Israele è oggi – anche come Stato – di svolgere il proprio ruolo storico, che, secondo Jacob Talmon, è di porre sempre in discussione la legittimità del potere dell’uomo sopra l’altro uomo. Chi impone il potere ricorre alla violenza; e così fanno coloro che vi si oppongono. Il problema è sempre se non ci debba essere la violenza, ma quando e come.
In un’affermazione fatta dopo la guerra del Kippur, André Schwarz-Bart disse: “Noi (ebrei) siamo esseri umani come chiunque altro. … ogni volta che abbiamo avuto una storia nazionale, questa è stata sanguinosa come qualsiasi altra. Nondimeno, mi sembra che non è a causa della nostra ingiustizia, ma per la nostra insistenza a favore di una giustizia assoluta, anche quando non le fummo fedeli, che noi siamo giunti a vivere il nostro particolare destino fra le nazioni”.
La verità è che noi ebrei abbiamo avuto una quantità tremenda di violenza nella nostra storia. Ma non abbiamo mai perso di vista quello che era la giustizia assoluta, e abbiamo tentato almeno di essere di freno e di controllo, e di contribuire in qualche modo alla dignità e alla santità umana nella maniera unica che ci è stata propria.
Emanuel Rackman