La prima parte di questa parashà (Vaykrà, 16: 1-34) è dedicata alla descrizione del servizio che il Kohèn Gadòl doveva fare nel Miskhàn (e poi a Gerusalemme nel Bet Ha-Mikdàsh) nel giorno di Kippur. In questo giorno il Kohèn Gadòl doveva confessare i peccati suoi e della sua famiglia, quelli degli altri kohanìm e quelli di tutto il popolo d’Israele. In quel giorno poteva e doveva anche entrare nel Kòdesh Ha-Kodashìm, la parte più sacra del Bet ha-Mikdàsh a fare ardere il profumo di fronte all’Aròn, l’arca che conteneva le tavole della legge. Questo servizio è descritto nella prima mishnà del quinto capitolo del trattato Yomà.
Il Kohèn Gadòl, entrato nel Bet ha-Mikdàsh procedeva nel Kòdesh Ha-Kodashìm. Arrivato davanti all’Aròn poneva la paletta con i tizzoni per terra tra le due stanghe dell’Aron. Accumulava sui tizzoni il qetòret (la polvere profumata) che aveva portato con sé in un contenitore, e tutto il locale del Kòdesh ha-Kodashìm si riempiva di fumo. Usciva retrocedendo per il percorso che aveva fatto per entrare e recitava una breve tefillà nel locale esterno. Non doveva dilungarsi nella sua preghiera affinché gli israeliti non si spaventassero temendo che gli fosse capitato un incidente. In questa tefillà il Kohèn Gadòl diceva: “Sia Tua volontà o Signore, mio Dio, che se quest’anno era destinato ad essere caldo, sia piovoso, che la sovranità non venga rimossa dal casato di Yehudà, che gli israeliti, tuo popolo, non abbiano bisogno di aiutarsi economicamente l’uno con l’altro, né abbiano bisogno di aiuti economici da altri popoli, e che le preghiere dei viaggiatori che chiedono che non piova non arrivino a Te”.
R. Joseph Pacifici (Firenze, 1928-2021, Modiin Illit) in Hearòt ve-He’aròt (p. 125) fa notare che il Kohèn Gadòl doveva confessare i peccati suoi e dei suoi famigliari prima di quelli dei kohanìm e del popolo. E afferma che da qui i Maestri imparano il principio che se si vuole correggere il comportamento di altri, bisogna prima di tutto correggere il proprio. Egli osserva anche che il compito dello shalìach tzibùr (l’ufficiante) al giorno d’oggi, e specialmente nei giorni di Rosh Hashanà e di Kippur, è quello di stimolare il pubblico. Questo era anche il compito del Kohèn Gadòl: quando il pubblico vedeva e sentiva il Kohèn Gadòl, si commuoveva, si pentiva e così espiava i propri peccati.
R. Yosef Caro (Toledo, 1488-1575, Safed) nello Shulchàn ‘Arùkh (O.C., 581:1) scrive che per le selichòt che si recitano prima e dopo Rosh Hashanà e per le tefillòt di Rosh Hashanà e di Kippur bisogna essere molto particolari nella selezione dell’ufficiante. Dev’essere la persona più sapiente di Torà nella comunità e di comportamento ineccepibile. A priori bisogna anche che abbia passato il trentesimo anno di età e sia sposato.
R. Israel Meir Kagan (Belarus, 1838-1933), autore del commento Mishnà Berurà allo Shulchàn ‘Arùkh (nota 11), aggiunge che non è appropriato scegliere come ufficiante di Rosh Hashanà e di Kippur una persona che si è rivolta a un tribunale civile per una causa con un altro ebreo, invece di rivolgersi a un Bet Din, a meno che non si sia pentito e abbia fatto teshuvà. Qual è la gravità della trasgressione di rivolgersi a un tribunale civile invece che a un Bet Din? Questo lo spiegò r. Feivel Cohen (Brooklyn, 1937-2022) in una derashà nel suo Bet ha-Kenèsset. Quando un shalìach tzibùr (ufficiante) conduce la tefillà del pubblico e prega il Signore di perdonare i suoi peccati e quelli del pubblico, il Santo Benedetto gli risponde: “Quando avevi una disputa con un altro ebreo ti sei rivolto a un tribunale civile invece che a un Mio tribunale. Ora che hai bisogno di farti perdonare ti rivolgi al Mio tribunale celeste?”.