Umberto Fortis – 2007, Esodo I
Premessa
Recita il salmo: “Il Signore mette alla prova il giusto” (Salmi, XI, 5): non lo fa per poter sapere o per esaminare l’animo del credente, perché Egli è certo del suo amore, della sua fede e della sua fiducia in Lui; Egli sa a priori, vede nell’interiorità del giusto; lo fa per far conoscere all’uomo il valore dell’amore per D-o e fino a dove arrivi il timore per D-o; lo fa per far capire che non si deve amare per un fine, sia esso una ricompensa o la paura di una punizione, ma amare in sé e per sé: questo è il nucleo essenziale dell’esperienza religiosa, intesa come totale, assoluta fiducia e dedizione a D-o.
Il racconto
Uno degli episodi fondamentali della Torà divenuto, per il suo valore paradigmatico, momento cardine della più alta esperienza religiosa, è il cosiddetto “sacrificio di Isacco”, noto però, nella tradizione ebraica, come aqedàt Yitzchàq, la “legatura di Isacco”. In Genesi, XXII, l’evento è presentato in modo conciso ed essenziale, come spesso avviene nel testo biblico, con la conformazione tipica di un racconto, a struttura circolare, in due tempi, che inizia con l’invito di D-o ad Abramo e si conclude con le parole dell’angelo dell’Eterno, che intervengono nel momento di maggior tensione dell’azione. La ripresa della promessa di una lunga discendenza e le benedizioni per tutte le popolazioni del mondo, sono, in appendice, il riconoscimento del valore dell’atto di Abramo.
Nello snodarsi delle brevi sequenze narrative, conferiscono al testo, fin dall’inizio, un significato simbolico sia l’assenza quasi totale di ogni coordinata spazio-temporale, sia la mancanza di aggettivazioni e di connotazioni paesaggistiche, come se l’azione si svolgesse in una dimensione astorica, quasi in un colloquio intimo e diretto tra l’uomo e il Signore, che allontana, o esclude, ogni possibile testimone.
Nel più semplice schema attanziale, D-o, il destinatore, chiede al soggetto Abramo, come ‘oggetto’ da conseguire, di andare in terra di Moriyàh e di far salire sul monte per il sacrificio il proprio figlio Isacco, colui dal quale, secondo la promessa divina, deve originarsi la sua discendenza. Abramo esegue senza esitazione l’ordine ricevuto, spinto, da un lato, dall’amore e dalla fiducia in D-o, ma contrastato certo, dall’altro, tragicamente, dall’amore paterno, benché non svelato dal testo. Quando, però, il primo sentimento sta per prevalere sul secondo, interviene la voce celeste a fermare la mano dell’uomo: D-o non vuole la morte, non l’uccisione di un figlio, come nel mondo pagano: vuole la vita, per rinnovare poi il giuramento di rendere numerosa “come le stelle del cielo e come i granelli della sabbia sulla riva del mare” (Genesi, XXII, 17) la discendenza di Isacco, ma anche per estendere, come destinatario, a tutte le genti della terra la propria benedizione, in nome di quell’estremo atto d’amore.
Interpretazioni
Il singolare valore di exemplum dell’evento biblico ha ovviamente costituito motivo di costante meditazione per tutti coloro che, nel corso dei tempi, vi hanno riconosciuto il modello più alto di ogni esperienza religiosa. L’interpretazione offerta da San Paolo, ad esempio, è centrata sulla fiducia di Abramo nella resurrezione di Isacco dopo il sacrificio ed è suggerita nell’Epistola agli ebrei: “Abramo… pensava infatti che D-o è capace di far risorgere anche dai morti” (XI, 19), per questo riebbe Isacco “e fu come un simbolo”: l’evento è dunque per il santo una ‘parabola’ che prefigura la resurrezione.
Così è ancora nella Rappresentazione di Abramo e Isacco (1449) di Feo Belcari:
El nostro D-o, che è infinito amore,
sempre più che te stesso amor ti porta;
ed ancor ti farà maggior signore,
perché susciterà tua carne morta.
E tuttavia, per tradizionale consenso critico, l’evento prefigura anche la resurrezione di Cristo. Sono proposte che costituiscono l’avvio verso la visione alla quale fece riscontro tutto il mondo medievale che ha proposto appunto una lettura in chiave figurale dell’episodio, come di tanti altri eventi dell’Antico Testamento, vedendo nel sacrificio l’umbra futurorum, l’anticipazione velata del sacrificio di Gesù; ed è una versione che rimane nei secoli, fino, ad esempio, all’oratorio Isacco, figura del Redentore di Pietro Metastasio.
Diversa, ovviamente, la posizione di molti commentatori e filosofi ebrei, da Rashì a Yosèf Albo a Nachmanide, che tendono invece a inserire la aqedàt Yitzchàq all’interno dell’intera storia di Abramo, quale prova ultima, delle dieci che il patriarca ha superato nella sua esistenza: vi lessero, infatti, la volontà di D-o di richiedere ad Abramo l’azione estrema, capace di confermare in atto, e non solo in potenza, il valore delle prove precedenti: “Ti prego, supera per me anche questa prova, perché non si dica che le precedenti non erano vere” (Rashì, ad locum)
di comprovare la sua fiducia in D-o, per fermarlo poi, per dare valore alla vita e per potergli dare, quindi, la grande ricompensa della discendenza più volte promessa. Sintetizza, a tal proposito, a fine Settecento, il rabbino di Venezia Simone Calimani, nel suo Esame o sia Catechismo ad un giovane israelita (1782): “fu impedito da Dio il sacrifizio avendo egli voluto solamente esperimentare in tal modo a qual segno arrivava la forza dell’amore di questo suo servo fedele” (p.19).
I filosofi d’impostazione razionalistica, e tra questi Kant, vi hanno scorto l’anticipazione prima dell’esasperazione e degli eccessi cui può condurre ogni atteggiamento puramente fideistico, che trascenda i limiti della ragione. Per Kant qualunque cosa sia in contrasto con la legge morale non viene da Dio, essendo Dio il bene. Nella sua opera, Il conflitto delle facoltà, egli afferma che Abramo avrebbe dovuto opporsi a quanto ordinatogli dalla voce divina, e giunge a mettere in dubbio che la voce potesse essere quella di Dio, dal momento che ciò che è in contrasto con la morale non può provenire da Dio. D-o non potrebbe mai ordinare atti contro la legge morale.
Kierkegaard, dal canto suo, che ha affrontato, in particolare, il problema nel suo Timore e tremore, vi ha individuato l’opposizione tra la vita etica e la via religiosa. L’atteggiamento religioso si pone per lui in antitesi col mondo storico: Abramo, che si accinge a sacrificare il proprio figlio per ubbidire a D-o, è l’ “eroe della fede”, che nega ogni prescrizione e ogni legame etico: è l’emblema di questa dicotomia; è la concezione della fede come scandalo e paradosso, perché essa non è in rapporto diretto con la vita etica, ma è il suo abbandono verso una prospettiva assolutamente diversa, dove il principio religioso ‘sospende’ quello morale, in una dimensione in cui domina il rapporto privato tra l’uomo e D-o, nell’assoluta, angosciosa solitudine.
La conseguente “sospensione teologica dell’etica” che comporterebbe, sia pur in una situazione eccezionale, un atto contrario alla morale, ha avuto, nel tempo, alcuni sostenitori, ma anche decisi oppositori, e Martin Buber tra questi, incapaci di ammettere la non contiguità tra morale e religione. Se è pur vero che l’episodio vuol essere esempio concreto della prontezza con la quale, in nome della verità e della giustizia, si deve andare anche incontro al martirio; se esso può valere, secondo altra ipotesi, come monito al superamento del diffuso costume antico del sacrificio dei figli per una causa ritenuta superiore, con la conseguente valorizzazione dell’essere umano, è anche possibile superare ogni risorgente contraddizione, con l’affermare, come asseriscono alcuni, che sia D-o che Abramo conoscono, appunto, a priori l’esito positivo dell’azione, perché il Signore sa che Abramo ha fiducia in Lui e Abramo, dal canto suo, sa che D-o non può mancare alla Sua promessa.
Del resto, la grandezza di Abramo non fu soltanto quella di avere obbedito all’ordine divino di sacrificare il figlio, ma anche quella di avere seguito le parole dell’angelo che gli chiedeva di non uccidere il figlio: è l’affermazione del valore della vita e di ogni singolo individuo.
Era necessario, però, secondo un’altra tesi diffusa, rendere comunicabile, visibile, attraverso un’azione concreta, il mistero del rapporto intimo che, nell’atto di fede, avviene tra l’uomo e l’Essere Supremo; era utile mostrarlo in forma di drammatizzazione, insomma, come spesso si riscontra nel testo biblico. Ci sarebbe, anche in questo caso, una ripresa della topica per visibilia ad invisibilia, perché tutti sappiano “fino a che punto arrivano il timore di D-o e l’amore di D-o, che è l’insegnamento di tutta la Torà” (Maimonide, Moré Nevukhìm – Guida dei Perplessi, III, XXIV).
È la radicata consapevolezza che il più sublime atto di ubbidienza al Signore – ricordato ogni giorno nella preghiera del mattino ed elemento centrale nella liturgia ebraica dei giorni penitenziali – e, quindi, il “merito dei padri” (zechùth ‘Avòth) -, possano costituire motivo di perenne indulgenza davanti alla giustizia divina.
L’exemplum
In realtà, a meglio valutare le molteplici ‘letture’ o per comprendere appieno il significato della aqedà, anche nei suoi risvolti umani, intimi, non svelati dal testo, e immaginare quindi quanto essa possa aver turbato tragicamente l’animo di Abramo di fronte alla richiesta divina, può essere opportuno inserire l’episodio all’interno dell’intero arco di vita del patriarca: la richiesta del sacrificio, infatti, rappresenta l’ultima tappa, la più difficile, di un lungo percorso che ha segnato il graduale processo di avvicinamento di un uomo alla volontà del Signore e al più elevato livello spirituale.
Dopo che Abramo, attraverso gravi pericoli, si era allontanato dall’idolatria e dal padre Térach, tutto iniziò quando D-o gli chiese di lasciare la sua città e la sua terra (lèkh lekhà me’artzékha – va via dalla tua terra – Genesi, XII, 1): il patriarca aveva già 75 anni e il Signore gli promise una nuova terra e una lunga discendenza. Da allora, però, la sua vita fu un lungo seguito di peregrinazioni, attraverso pericoli, guerre, carestie, con una famiglia vuota, senza figli, ma senza mai alcun dubbio sulla parola divina. Nonostante le sofferenze e i dolori, Abramo continuò a credere, ad aver fiducia in quella promessa che per ben sette volte gli venne ripetuta.
Finché una notte il Signore lo chiamò, lo pose di fronte al cielo stellato e lo invitò a contar le stelle (Genesi, XV, 5-6): tanto numerosa sarebbe stata la sua discendenza. E Abramo, di fronte all’infinito, ancora, come sempre, he’emìn – “ebbe fiducia”. La ‘emunà, la fiducia totale, ha portato il patriarca a superare ogni prova, a dimostrare il suo amore assoluto per il Signore.
“Dieci prove ebbe a subire Abramo e resistette a tutte. Ciò valse a mostrare quanto fosse l’amore di Abramo (per D-o)” (Pirqé ‘Avòth – Massime dei Padri, V, 4): dieci come i comandi con i quali fu creato il mondo (Genesi, I, 1); dieci come i ‘comandamenti’ (Esodo, XX, 1-14); dieci come le piaghe d’Egitto (Esodo, VII, 10 sg) “prove”, come dice la tradizione rabbinica (pur diversamente individuate nelle versioni dei vari maestri, da Rashì a Maimonide a ʽOvadyàh da Bertinoro), tutte vinte con la fiducia e nella ferma certezza della promessa divina.
Quello di Abramo è come un lungo viaggio, connotato nella Torà, emblematicamente, da verbi di movimento al suo inizio (lèkh lekhà – va via –… Genesi, XII, 1) e alla sua conclusione (lèkh lekhà – Genesi, XXII, 2). Le prove sono come le tappe di un itinerarium ad Deum, durante le quali il patriarca mostra sempre la sua integrità morale, nonostante le continue sventure. E sono prove, come notano i maestri, superate tutte coram populo, davanti agli occhi di tutti, quasi testimoni dell’azione dell’uomo che è diverso, perché tale lo ha reso la sua ‘emunà.
L’ultima tappa, tuttavia, il segmento estremo del suo percorso spirituale, imprevedibile e incredibile, diventa la prova suprema che D-o gli impone. Dopo avergli dato il figlio Isacco, il figlio tanto atteso, il Signore chiede al padre di “far salire per il sacrificio” (Genesi, XXII, 2) proprio quel figlio. Abramo, che tante volte ha discusso con D-o, che ha cercato di difendere dalla distruzione Sodoma e Gomorra, non fa come Giobbe, che chiede e protesta: si mette subito in cammino, in silenzio, deciso a percorrere fino in fondo la via indicatagli. Il suo è amore totale, totale sottomissione: questo, in realtà, è ciò che vuole il Signore da lui, non certo l’uccisione del figlio. Rashì insiste a mettere in evidenza la cautela con la quale D-o parla ad Abramo per non turbarlo: non dice di “sacrificare” il figlio, ma di farlo “salire per l’olocausto”, per poi farlo scendere.
Non si tratta più, questa volta, di un cammino, per così dire, in orizzontale, tra gli uomini, come in altre occasioni, ma di un itinerario tutto ‘in salita’ (wehaʻaléhu shàm – fallo salire là – Genesi, XXII, 2), quasi a simboleggiare non solo la difficoltà dell’ascesa, ma anche a quale vertice di santità potevano condurre l’amore e la fiducia nel divino. È un viaggio dell’uomo verso l’assoluto, in tre giorni di lunga meditazione, come dice Maimonide; tre, come i giorni che il popolo, nel deserto, attese, in stato di purità, prima di ricevere il dono del Decalogo (Esodo, XIX, 15).
Lasciati sul piano, infatti, i due servitori, Eliézer e Ismaele, come suggerisce il midràsh dei maestri, solus ad Solum, Abramo procede, con al fianco il solo Isacco, nella solitudine interiore e nel silenzio. Lo scontro tra l’etica, i valori seguiti lungo l’arco di tutta la vita, e la richiesta divina si fa insuperabile, se non valicando quel limite nella ferma convinzione che D-o non sarebbe venuto meno al Suo giuramento. Ed è proprio nel momento di maggior angoscia, nella vera Spannung del racconto, quando Abramo sta per alzare la mano sul figlio, che l’intervento divino, del D-o che prevede e provvede, scioglie ogni tensione: “Ora so che sei temente del Signore” (Genesi, XXII, 12); quella prova è stata tale da valere “per tutte le altre prove messe insieme” (Bereshìth Rabbà, LVI, 11), è la convalida dell’azione di un’intera vita.
La ‘salita’ di Abramo verso quella sublime altezza spirituale è certo aspra e difficile, ma il valore dell’exemplum non sarebbe completo, se non si considerasse che non meno dura e aspra è la prova anche per Isacco. Il figlio segue in silenzio il padre, spinto, secondo la tradizione, soprattutto dal ‘timore’ di D-o (pàchad Yitzchàq). Egli chiede solo dell’agnello per il sacrificio e la risposta di Abramo: “il Signore provvederà” (Genesi, XXII, 8), gli fa capire ogni cosa. Basterebbe, del resto, spostare solamente un elemento del testo (Rashì, ad locum e Bereshìth Rabbà, LVI, 4) e le parole di Abramo possono significare: “l’agnello sei tu, figlio mio”.
Isacco non è più un bambino: nato quando il padre aveva cento anni e Sara ne aveva novanta (e Sara muore a 127 anni, dopo l’aqedà) egli ha già 37 anni e quindi consapevolmente si sottomette alla volontà del Creatore e al desiderio del padre; tanto che il testo, proprio per questo, ripete due volte che egli andava “insieme” con lui, in perfetto accordo con lui. Racconta un midràsh che Isacco chiese al padre di legarlo bene, affinché il sacrificio fosse eseguito in modo corretto (Tanchumà Wayerà’, 22 – 23) e lo aiutò; aggiunge che gli angeli, in cielo, dopo aver ricordato al Signore tutte le opere pie di Abramo, piansero e le loro lacrime caddero sugli occhi di Isacco (Rashì, ad locum). Il suo amore per D-o non ebbe esitazioni.
Isacco diviene, in tal modo, il simbolo del martirio, del martirio non consumato, certo, ma esempio di sacrificio nel nome di D-o, il qiddùsh ha-shèm, la “santificazione del nome”, modello di tanti martìri che sono avvenuti nel corso dei lunghi secoli della storia del popolo ebraico.
Il midràsh
Due atti estremi, allora, in realtà complementari, compiuti comunque da due uomini: ma proprio in quanto tali, con sentimenti e stati d’animo diversi. Molteplici, spesso contrastanti, sono state, al riguardo, nel tempo, le interpretazioni di questo evento, come s’è visto; nessuna lettura, però, come quella offerta dai midrashìm, i commenti e le spiegazioni dei maestri, sa cogliere i risvolti umani, intimi della vicenda, quello che l’essenzialità e la concisione del testo biblico non dicono: le inquietudini e i turbamenti di un padre e di un figlio in momenti di tanto tragica tensione.
Gli antichi testi, invece, vogliono immaginare sia gli attimi che hanno preceduto l’evento, sia momenti di crisi durante il cammino. Narrano che sia stato Satana, il maligno, a provocare il Signore, perché mettesse alla prova Abramo:
Questo Abramo al quale a cent’anni hai dato un figlio, non ti ha offerto un sacrificio da tutti i suoi banchetti, non una sola colomba, nemmeno il più piccolo piccione. D-o gli rispose: “Egli fa tutto per suo figlio, è vero? Ebbene: se gli dico: offrimelo; me lo darà subito”. Disse:”Mettilo alla prova”. Allora D-o mise Abramo alla prova (Rashi e Séfer ha-aggadà, XXX, b).
Abramo avrebbe dunque trascurato qualcosa, non sarebbe stato ospitale ed era necessario richiamarlo a una presa di coscienza: e D-o, che conosce l’ubbidienza incondizionata del Suo fedele, gli impone l’atto estremo. Non solo Abramo, però: il midrash esalta anche Isacco, immaginando la sua risposta in una piccola disputa con il fratello Ismaele, che si vantava di aver accettato la circoncisione a tredici anni senza opporsi:
“Tu tenti di intimidirmi per uno solo dei tuoi organi, ma se il Signore mi domandasse di sacrificarmi interamente per lui io non esiterei a farlo” (Bereshìth Rabbà, LV, 4).
Abramo non esita: dopo aver rassicurato la moglie Sara, s’incammina con il figlio per il lungo viaggio. Per tre volte, Satana, la tentazione, cerca di fermarlo: dapprima si trasforma in un vecchio, che tenta di impaurire il patriarca, di dissuaderlo dal compiere un gesto tanto folle:
“Vecchio, hai perduto la ragione? il figlio che finalmente hai avuto a cent’anni vai a scannare”? Abramo rispose: “Sì lo farò, malgrado tutto” (Séfer ha aggadà, XXXI, a-b).
Poi, sotto le sembianze di un giovane, prova a illudere Isacco e ad allontanarlo dalla morte:
“Poveretto, figlio di una poveretta: quanti digiuni ha fatto tua madre e quante preghiere perché tu nascessi e ora questo vecchio impazzito vuole scannarti”? Isacco rispose: “Malgrado tutto, non trasgrediirò la volontà del mio Creatore e l’ordine di mio padre” (Séfer ha-aggadà, XXXI, a-b).
Satana tentò ancora una volta, mutandosi nelle acque di un fiume che cercano di impedire il cammino dei due (Bereshìth Rabbà, LVI, passim). Invano. Padre e figlio giungono, entrambi consapevoli, al luogo destinato, decisi, pur tra lacrime e tormenti, a seguire fino in fondo il volere di D-o.
E qui, quando si sta già per compiere la tragedia, interviene la voce celeste a fermare la mano del padre; qui, dopo il sacrificio sostitutivo del montone, il testo biblico e il midràsh, alla fine, convergono: da entrambi nasce un unico, universale invito all’amore e alla fratellanza, nella benedizione a tutte le genti della terra in nome di quel gesto eccezionale che, infine, esalta la vita contro la morte.
Eppure, aggiungono i maestri, il timore e l’amore di D-o hanno portato l’uomo a una tale altezza spirituale, che, forse, la discesa da un così elevato vertice acquista un ideale valore esemplare quanto l’ascesa. Per questo, forse, non una, ma due volte la voce angelica chiama Abramo perché faccia scendere Isacco dall’altare del sacrificio; perché, al fine, la grande prova consiste anche nel saper scendere, nel saper andare verso il mondo degli uomini per poter diffondere nella società quel modello d’amore che ha guidato Abramo lungo tutto l’arco della sua vita; perché tutta l’umanità sappia poi ‘salire’ come lui verso il Signore e possa ottenere indulgenza di fronte alla giustizia divina.
“Ti auguro che tutti i tuoi discendenti possano essere come te” – dice D-o in un midràsh al patriarca.
Ed è, in realtà, un altro grande messaggio finale, conseguenza dell’atto sublime di “colui che (mi) ama” – ohavì, parafrasando Isaia (XLI, 8), il Signore: “Tutte le popolazioni della terra saranno benedette tramite i tuoi discendenti, perché tu hai ascoltato la mia voce” (Genesi, XXII, 18). Lo scopo di tutta una vita ha ricevuto, nella prova suprema, il suo eterno sigillo.
