La polemica tra Israele e Vaticano
Pierluigi Battista
Certamente non è stata un’omissione voluta, una negligenza deliberata e carica di significati negativi. Se nel suo Angelus di domenica scorsa Benedetto XVI non ha incluso Israele nell’elenco dei Paesi (Egitto e Turchia, Iraq e Gran Bretagna) esplicitamente menzionati come vittime degli attacchi terroristici degli ultimi giorni, si sarà sicuramente trattato di una banale dimenticanza, di un veniale errore diplomatico. Però è comprensibile che il governo di Gerusalemme abbia convocato il Nunzio apostolico in segno di protesta per la cancellazione dello Stato di Israele dall’elenco di chi patisce, tra lutti infiniti, le aggressioni terroristiche di un nemico che fa della strage degli innocenti la propria arma, seminando il panico non su obiettivi militari, ma tra la gente normale intenta nelle occupazioni della vita ordinaria.
Israele protesta ancora una volta contro un doppio standard morale e interpretativo. Quello che impedisce a molti, a troppi, di riconoscere nel terrore in grado di colpire la metropolitana di Londra come le stazioni di Madrid, le spiagge di Sharm el Sheikh come le strade di Istanbul lo stesso identico terrore che da anni affligge gli inermi cittadini israeliani: non i soldati impegnati in attività di guerra ma i civili che ogni giorno a Gerusalemme e a Tel Aviv salgono sull’autobus per andare a scuola, vanno al ristorante con gli amici, frequentano discoteche e luoghi di ritrovo come in una qualunque città minacciata dalla guerra del fondamentalismo islamista. Per i cittadini di Israele, però, la pietà dell’opinione pubblica mondiale sbiadisce e addirittura si dimezza. Forse, si mormora, i civili israeliani che saltano in aria quando i kamikaze si fanno esplodere «se la sono andata a cercare» (del resto, non è stata detta la stessa cosa per gli americani dopo l’11 settembre?). Come se per Israele non valesse l’orrore generato dalla guerra asimmetrica scatenata dai terroristi.
A Israele l’opinione pubblica internazionale stenta a riconoscere il risultato della riduzione di quasi l’ottanta per cento degli attentati terroristici da quando è cominciata la costruzione della barriera difensiva. Anzi, non si è affievolita la polemica contro la costruzione di quello che viene impropriamente definito un «muro» per evocare grotteschi paragoni con il muro di Berlino, eretto, è bene ricordarlo per chi si dimostra prigioniero del pregiudizio, per impedire l’uscita dei tedeschi dell’Est, non già per far da filtro all’ingresso di kamikaze intenzionati a uccidere il maggior numero di cittadini innocenti. Non viene adeguatamente riconosciuto nemmeno lo sforzo del governo di Sharon di procedere alla demolizione degli insediamenti dei coloni in terra palestinese.
Nell’oblio collettivo, allo Stato di Israele si fa fatica addirittura a riconoscere lo status di vittima di un terrorismo che, proprio come quello che compie i suoi massacri nei simboli della quotidianità occidentale, non si prefigge uno specifico e circoscritto e negoziabile obiettivo politico ma la distruzione esistenziale della stessa presenza ebraica organizzata in uno Stato. Una dimenticanza collettiva che è l’ultimo schiaffo morale alle vittime del terrorismo. L’omissione di Papa Ratzinger non ha certo il senso di un gesto aggressivo, come del resto ha chiarito il portavoce vaticano Joaquín Navarro Valls. Ma davvero lo Stato di Israele non può essere accusato di un eccesso di suscettibilità.
Corriere della Sera – 26 luglio 2005