Stefano Gay Tachè morì nell’assalta alla Sinagoga di Roma. “Salviamolo dall’oblio”.
Pierluigi Battista
«Mio fratello si chiamava Stefano. Stefano Gay Taché. Il 9 ottobre del 1982 aveva appena due anni quando fu ammazzato da un commando di terroristi mentre usciva dalla Sinagoga Maggiore di Roma, al termine della festa di Sukkot, assieme alla sua famiglia. Mio fratello aveva due anni meno di me, che mi chiamo Gadiel. Oggi, a ventinove anni da quel massacro su cui l’Italia ha steso un velo di ambiguo e imbarazzato silenzio, ho deciso di impegnarmi perché sia conservato il ricordo di un bambino ucciso nel cuore di Roma».
«Nel Ghetto che aveva già conosciuto la vergogna della deportazione degli ebrei portati ad Auschwitz il 16 ottobre del ’43. In uno slargo tra via del Tempio e via Catalana che la giunta di Veltroni, accogliendo la richiesta della comunità ebraica romana, decise di intestare a Stefano Gay Taché, bambino romano, italiano, ebreo».
Gadiel Taché oggi ha trentatré anni, si è laureato in Lettere, lavora come broker assicurativo, fa il musicista e per onorare la memoria del suo fratellino strappato via dalla pioggia di granate e mitragliate degli assassini antisemiti di ventinove anni fa ha composto una canzone intitolata «Little Angel». Per anni si è difeso dietro una corazza di riserbo, di timidezza, di silenzio. Per anni lo hanno invitato a parlare alle commemorazioni: «Ma io non ho mai voluto salire su un palco e ogni volta, finita la celebrazione, tornavo a casa più triste e desolato». Anche quando, nel gennaio del 2010, papa Benedetto XVI, prima di fare il suo ingresso nella Sinagoga romana, venne a stringere la mano a lui e ai suoi genitori nei pressi della targa commemorativa dedicata a Stefano, il suo «silenzio» non si spezzò. «Il dolore me lo sono sempre portato dentro, sempre, sempre», dice Gadi: «dolore morale, ma anche fisico. Io ero accanto a Stefano quando scoppiò la bomba a frammentazione che uccise mio fratello ma devastò, oltre a me, mia madre e mio padre che insieme a tante altre famiglie, avevano portato i loro figli a celebrare una festa ebraica.
Quel giorno, subito dopo l’attentato, i soccorritori mi trasportarono in elicottero al San Camillo. L’unico vago ricordo che ho di quelle ore terribili: un elicottero, e il suo rumore assordante. Dopo fui sottoposto a trenta interventi chirurgici nel corso di un anno e mezzo, alla testa, all’occhio, all’arteria femorale che doveva essere riallacciata, dappertutto. Poi, mica è finita, un’altra ventina di interventi negli anni successivi. Non sono mai guarito. Ancora adesso mi fa male sempre qualcosa. I medici mi dicono che dalle radiografie appare l’interno del mio corpo che sembra un cielo stellato, dove le stelle però non sono proprio una poesia, ma le schegge infinite che si sono conficcate dentro di me e non andranno mai via». Oggi però c’è qualcosa di nuovo che ha scosso sotterraneamente la routine dolorosa della vita di Gadiel: «È come se mi fossi risvegliato da un lungo sonno, da uno stato di torpore che mi ha sempre impedito di afferrare il significato profondo dello strazio che ha distrutto la mia famiglia con la morte di Stefano. Oggi voglio capire, informarmi, spiegarmi quello che è successo, gli eventi che lo hanno preceduto, la giustizia che non è ancora arrivata».
Con il «risveglio», una voglia febbrile di informarsi, di ricostruire l’atmosfera intossicata di odio antiebraico di quel tempo, di chiarire i dettagli ancora in ombra di quella tragedia. Ora Gadiel legge con avidità i giornali dell’82, anche quelli precedenti al 9 ottobre. Legge che in Europa, da Parigi ad Anversa a Vienna, il nuovo antisemitismo, eccitato dalle proteste per l’intervento israeliano in Libano, aveva preso di mira i cimiteri e le scuole israelitiche, i luoghi di culto degli ebrei. Legge che sul muro della piccola sinagoga romana di Via Garfagnana era stato affisso nell’82 uno striscione con su scritto «Bruceremo i covi sionisti». Legge che l’antisionismo stava diventando, nell’indifferenza generale, nuovo odio per gli ebrei, anche per i bambini ebrei, come Stefano, che uscivano dal Tempio dopo aver celebrato una festa della comunità. Legge che proprio a Roma, nel mezzo di un corteo sindacale, si staccò un gruppo che depose vicino alla Sinagoga una bara in segno di oltraggio e di disprezzo e che il comunicato con cui la Cgil chiese scusa alla comunità ebraica per quell’efferatezza antisemita fu imbarazzato e reticente. Legge che, per i funerali di suo fratello Stefano, il rabbino Toaff, per evitare incidenti e contestazioni, supplicò il presidente Pertini di non presenziare alla cerimonia dopo che il Quirinale aveva accolto come un eroe dell’umanità Arafat, applaudito pochi giorni prima dell’attentato da tutte le istituzioni italiane, tranne che dall’allora presidente del Consiglio Spadolini, dai Repubblicani e dal Partito radicale di Pannella.
Si chiede che cos’è quel cosiddetto «Lodo Moro» di cui parlava Cossiga: un patto con i terroristi palestinesi perché potessero agire indisturbati in Italia in cambio dell’«immunità» italiana. Legge che quel 9 ottobre, incredibilmente, nessuna camionetta, tra polizia e carabinieri, era lì a difendere la Sinagoga e gli ebrei romani.
Legge tutto questo e si chiede se, «sebbene nessuna sentenza terrena mi possa ridare indietro mio fratello Stefano, sia stata fatta giustizia con la punizione di chi faceva parte del commando di assassini». E a questa domanda Gadiel Taché si risponde: «No, non è stata fatta». L’assassino Abdel Al Zomar, condannato all’ergastolo dalla giustizia italiana, ha vissuto indisturbato nella Libia di Gheddafi dopo essere stato consegnato ai libici dalla Grecia a metà degli anni Ottanta: «So che in tutti questi anni l’Italia è stata molto blanda nel chiedere l’estradizione di Al Zomar. Adesso si trincerano dietro cavilli formali. Con Gheddafi al potere, fino all’ultimo nessuno ha preteso che gli assassini di mio fratello fossero assicurati all’Italia. Ma ora so che la comunità ebraica romana chiede formalmente al ministro Frattini di rivolgersi al nuovo governo di Tripoli per ottenere l’estradizione di Al Zomar e degli altri componenti del commando che stanno in Libia. Ovviamente faccio mia questa richiesta». E chiede qualcos’altro, Gadiel Taché: che abbia termine la «rimozione psicologica e storica» di quell’attentato terroristico da parte dell’Italia. «So per esempio», dice Gadi, «che il presidente Napolitano non è insensibile alle proteste degli ebrei romani affinché il nome di Stefano sia incluso nel triste elenco delle vittime del terrorismo in Italia che ogni anno, il 9 di maggio, vengono solennemente ricordate al Quirinale. Credo che qualcosa si stia muovendo. Voglio sperare che questa ferita della memoria italiana possa essere sanata».
Ed effettivamente non si comprende perché un bambino romano, italiano ed ebreo ucciso dai terroristi non sia considerato e onorato come «vittima» del terrorismo che ha insanguinato l’Italia. Non si capisce perché debba essere solo la comunità ebraica a Roma, guidata da Riccardo Pacifici, figlio di un uomo che in quell’attentato del 9 ottobre fu ferito e riportato in vita quasi per miracolo, a intestare vie, fondazioni, scuole, premi, sinagoghe con il nome di Stefano Gay Taché. «Oggi tocca a me salvare Stefano dall’oblio collettivo, tocca a me impedire che quella tragedia sia rimossa e considerata un episodio minore della violenza che ha insanguinato il nostro Paese», promette il fratello. Per questo ha deciso di rompere il silenzio. Dopo ventinove anni. Con dentro un dolore immenso e un «cielo stellato» di schegge assassine.
* Il bambino nella foto d’archivio del giorno dell’attentato è Jonathan Pacifici
Corriere della Sera 9 ottobre 2011 – Grazie a Informazione Corretta