Una lezione di filosofia politica tenuta in Israele nel 1954 in cui metteva in guardia il nuovo stato dai rischi delle spinte utopistiche
Giulio Busi
Tra Gerusalemme e Atene, in eterna lotta, s’insinua a far da paciere nientemeno che San Tommaso. È il 1954, e Leo Strauss insegna per un semestre all’Università Ebraica. Sono anni stipati di emozioni. Il nuovo Stato d’Israele è sorto da poco, e sembrerebbe il momento giusto per abbandonarsi alle tentazioni dell’utopia. Ma Strauss, da buon “yekke” – ebreo di origine tedesca, è un inveterato bastian contrario.
E così, nella città santa che ha appena ritrovato, dopo millenni, una funzione politica nel cuore dell’ebraismo, sceglie di tenere il proprio corso sulla sapienza “degli altri”, sulla filosofia della polis, nata ad Atene e simbolo della civiltà greca. Certo, all’inizio delle lezioni Strauss paga il proprio tributo a Gerusalemme, «la città della giustizia, la città della fede» in cui gli sembra ancora di cogliere l’eco delle parole antiche dei profeti. Ma è solo una sorta di captatio benevolentiae davanti agli studenti caldi di entusiasmo sionista. Subito il suo discorso s’avvia nella direzione opposta, abbandona la Bibbia e la rivelazione religiosa per addentrarsi in un dominio laico per eccellenza, fidandosi sulla sola guida della dialettica.
Che cos’è la filosofia politica? – che il Melangolo porta in questo giorni in libreria – è molto più di una semplice dispensa universitaria. È un esercizio di stile, e d’ironia, di uno dei più taglienti pensatori “impolitici” del XX secolo. Una settantina di pagine in tutto, ma abbastanza per farsi irretire da un maestro d’altri tempi, con una incrollabile fiducia nei classici e una sfiducia altrettanto salda nelle astuzie e nella presunzione dei moderni. «La filosofia è essenzialmente non il possesso della verità, bensì la sua ricerca», è il caveat di Strauss, messo lì a bella posta per scoraggiare gli impazienti. E poi, di rinforzo, il vecchio San Tommaso: «La pur minima conoscenza delle cose eccelse è più desiderabile della certezza che si ha delle cose infime». Insomma, chi vuol esser filosofo è costretto a puntare in alto, e a non accontentarsi di nozioni «de minimis rebus».
Doveva certo fare un effetto singolare udire il passo della Summa Teologica pronunciato da Strauss in latino, nelle aule dell’Università Ebraica, e per di più a difesa delle ambizioni tutte terrene della riflessione politica. Non c’è dubbio che nell’espressione «filosofia politica» è il primo termine a farla da padrone. Per Strauss, erede in questo della Bildung tedesca del primo Novecento, nell’esercizio filosofico si gioca il tutto per tutto. «Le cose politiche non si comprendono se non si considera seriamente la loro esplicita o implicita richiesta di essere giudicate in termini di bontà o cattiveria, di giustizia o ingiustizia».
Da una parte il semplice pensiero politico, che si concretizza in leggi e codici, nei discorsi pubblici, dall’altra l’ambizione filosofica di trascendere il fluttuare delle opinioni, per liberarsi dalla tirannia del contingente. Ma Strauss è pensatore nostalgico. La febbrile questua di verità gli sembra ormai inattuale: «Oggi, la filosofia politica è in uno stato di decadenza e forse di putrefazione… è tagliata a pezzi che si comportano come parti di un verme». Non bisogna cercare lontano per trovare i colpevoli di tanto degrado. Innanzitutto quei gaglioffi dei positivisti, con la loro pretesa di distinguere tra fatti e valori. Scientifici i primi, eterei e indimostrabili i secondi. Senza il coraggio di innalzarsi verso l’aria rarefatta dei princìpi – ammonisce acido Strauss – si è condannati «all’ottusità morale, che è la condizione necessaria per l’analisi scientifica, prodiga di… invenzioni sterili o idiozie complicate». Bei tempi, quando Platone, nelle Leggi, non si vergognava di interrogarsi sul vero bene, e di introdurre norme migliori di quelle antiche.
«Il pensiero non deve essere moderato, ma impavido, per non dire svergognato». A paragone del nobile furore dei greci, il pensiero moderno fa una figura ben magra. A cominciare da Machiavelli, a cui Strauss rimprovera di aver striminzito il cielo della politica, insegnando che la virtù astratta è irraggiungibile e che «la morale si fonda sull’immorale, la giustizia sull’ingiustizia», tanto che l’unica virtus machiavelliana è «la devozione all’egoismo collettivo». Ma come fare a recuperare l’innocenza perduta? Anche se Strauss si guarda bene, in questo testo, dal proporre ricette pratiche, dalla sua elegante causerie traspare uno spiccato gusto elitario. La politica degli ideali – sostiene – è per pochi, e anche quei pochi devono poter accedere al nutrimento dei classici, attraverso «un’educazione che non può mai essere di massa… e che sarebbe troppo modesto chiamare educazione regale». Politica come acculturazione insomma, un obbiettivo che Strauss cercò di raggiungere in lunghi anni di insegnamento universitario, soprattutto dalla sua cattedra di Chicago, e che gli valse la fama di nume tutelare del neo-conservatorismo statunitense.
Leo Strauss
Che cos’è la filosofia politica?
traduzione e cura di Davide Cadeddu
Il melangolo, Genova
pagg.68, € 12,00
(in libreria dal 21 lugIio)
Il Sole 24 Ore
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