In Ritanna Armeni Laura, Mulayka Enriello, Gadi Luzzatto Voghera, Claudio Monge, L’ospitalità di Abramo 2016
Gadi Luzzatto Voghera*
Colui che visita una persona malata le toglie un sessantesimo della malattia (Talmud Babilonese, Nedarim 39b).
La lettura ebraica del testo biblico segue delle modalità, un ritmo e delle scansioni sue proprie, connesse a una ben definita logica temporale e concettuale. È noto che per tradizione l’intera lettura del Pentateuco viene completata nel corso di un anno. Di ogni anno. Il testo viene perciò suddiviso in brani settimanali (parasha), che sono letti seguendo una ben definita cantilena musicata. La lettura è compiuta generalmente dal pulpito della sinagoga (Bimah), e viene effettuata sul testo manoscritto su un rotolo di pergamena appositamente predisposto. Il lettore non è autorizzato a toccare con il dito il testo stesso, ma deve seguire la lettura servendosi di un puntale, in genere un indicatore metallico o in legno a forma di piccola mano (yad). La lettura deve essere seguita da un assistente (Segan), che indica al lettore il ritmo e controlla da un testo a stampa che la lettura venga effettuata in maniera esatta, senza sbagliare la pronuncia neppure di una vocale.
Ma queste note tecniche non sono sufficienti. Una volta letto il brano settimanale della Bibbia, una pratica che è inserita nella liturgia mattutina dello Shabbat, il brano stesso diventa materia di studio e di riflessione. Un rabbino, o comunque un maestro, si incarica di guidare i membri della comunità in una riflessione che prende spunto dal testo biblico per inoltrarsi in interpretazioni e contestualizzazioni che collegano la parola della Scrittura con l’esperienza dell’umanità contemporanea. Lo studio della Bibbia, quindi, può essere inteso come esperienza sempre attualizzata, che guarda all’oggi e al domani ragionando sulla tradizione. L’attività di studio viene effettuata appoggiandosi su una gerarchia di testi di commento, che include prima di tutto la cosiddetta Legge Orale (cioè i commenti chiamati «Mishna» e «Talmud» su cui si fonda la tradizione rabbinica), e spaziano poi in percorsi che spesso includono alcuni dei grandi maestri medievali quali Rashi (1040-1105) e Maimonide (1135-1204). Nel commento si è comunque liberi di utilizzare autori di diverse epoche e diverse inclinazioni spirituali, mettendone a confronto le teorie.
Dal punto di vista normativo, in ogni brano settimanale letto dalla Bibbia si tendono a identificare i fondamenti di alcuni dei precetti fondamentali che vanno a formare le tradizionali 613 mitzvot, cioè le leggi positive (devi fare) e negative (non devi fare) che costituiscono il nerbo della struttura sociale ebraica.
Questa lunga introduzione è necessaria per comprendere la prospettiva nella quale si pone l’ebraismo nel ragionare su un testo così significativo e «fondativo» come quello relativo all’incontro del patriarca Abramo con i tre angeli presso Mamre. Le questioni che si aprono di fronte a questo brano di Bereshit («Genesi») sono molteplici e tutte di grande rilevanza. Innanzitutto, il tema dell’accoglienza, che di certo è quello più immediatamente riferibile alla nostra contemporaneità. A questo si lega il precetto della visita ai malati. E sempre di seguito sarà necessario aprire un ragionamento sulla «natura» degli angeli. E che dire della risata di Sara e della sua negazione agli occhi del Signore. E, infine, come non considerare la profezia su Abramo, che «diventerà una nazione grande e potente, e a suo nome si benediranno tutte le nazioni della terra». Una serie di elementi molto complessi, che nella lettura ebraica andrebbero messi in relazione con le parti precedenti e successive della narrazione biblica.
Prendiamo quindi le mosse dall’accoglienza dello straniero. Si tratta di un tema affrontato a varie riprese nella tradizione biblica e rabbinica. Ospitalità significa necessità di mettersi in relazione con l’«altro», una relazione disponibile, fatta di curiosità e di offerta. Nella tradizione ebraica il non ebreo viene introdotto tramite l’utilizzo di almeno due termini: gher e goy, in genere tradotti il primo come «residente provvisorio, straniero» (in realtà la parola deriva dal concetto di abitare, risiedere) e il secondo come «non ebreo» (ma letteralmente goy significa «popolo», «nazione»). L’incontro con queste due entità è descritto nei testi biblici e post-biblici in diversi modi e con diverse accezioni: a volte un incontro pacifico (le nazioni dell’ultimo verso che qui commentiamo sono appunto «goy»), a volte un incontro conflittuale, altre volte ancora con indifferenza. Si potrebbe con facilità costruire un discorso politically correct, tutto incentrato sulla bontà del dialogo fra culture, utilizzando le fonti ebraiche per ricavarne un’immagine di amorevoli affetti. Tuttavia, si potrebbero anche utilizzare i testi della tradizione per disegnare un muro di separazione quando non di aperta ostilità verso altre realtà umane, più o meno simboliche. Che io sappia questa seconda opzione non è stata in passato particolarmente battuta dai pensatori ebrei, mentre ha assunto grande rilevanza nell’ideologia antisemita, dichiaratamente ostile all’ebraismo. Per questa, l’ebreo viene generalmente identificato come essere arrogante e infido, abusivamente abbarbicato al concetto di «popolo eletto»: un’idea che lo spingerebbe a escludere a priori il contatto con l’altro e a mantenere il diverso da sé a debita distanza in maniera cosciente e programmatica.
Ma si tratta di una prospettiva che non è propria del pensiero ebraico. Al contrario, la storia del pensiero ebraico e delle sue tradizioni spirituali e liturgiche è piena di spunti di incontro e confronto con l’altro. Per fare riferimento, ad esempio, alla tradizione religiosa, basterebbe dire della benedizione inclusa nella «Amida», quel complesso di 18 benedizioni (nella tradizione ashkenazita 19) che si recitano tre volte al giorno in piedi, rivolti verso Gerusalemme. Già in tempi molto antichi, la preghiera detta «degli ospiti» ricordava agli ebrei riuniti in sinagoga come fosse possibile per qualsiasi persona, a prescindere dalla sua origine e dalla sua fede, prendere parte alla preghiera pubblica. Del resto, una delle preghiere fondamentali della liturgia ebraica, l’Alenu, include la speranza che si possa giungere al giorno in cui «tutte le creature riconosceranno» la lode di Dio, e ciò si lega con forza al passo biblico che commentiamo: «a suo nome si benediranno tutte le nazioni della terra». Non una benedizione esclusiva per il popolo di Israele, quindi.
Nel brano di Bereshit questa è proprio la natura dell’incontro di Abramo, che dà ospitalità ai tre angeli che sono a tutti gli effetti una rappresentazione di Dio. E qui subentra un elemento problematico, che la tradizione ebraica tenta di affrontare e risolvere: che bisogno ha Dio di servirsi di angeli per comunicare con Abramo (e con l’uomo in generale)? Visto che a distanza di pochi versi egli stesso interviene per parlare con Sara, non poteva palesarsi direttamente anche ad Abramo? La tradizione rabbinica ragiona innanzitutto sul numero degli angeli: perché tre? Perché, si risponde in Bereshit Rabba 30 (un commento talmudico), esiste una regola che dice «un angelo non può compiere due missioni, né due angeli una missione unica». Tre angeli, quindi, con tre missioni diverse: uno per annunciare ad Abramo la nascita del figlio Itzhak, uno per provvedere alla successiva distruzione di Sodoma, e uno per assicurare la salvezza di Lot. In ogni caso gli angeli non sono una reductio di Dio, ma appaiono sempre accompagnati da Dio, che li userebbe per far capire all’uomo le sue intenzioni in modi semplici che lui possa comprendere. Come ben esprime il filosofo livornese Elia Benamozegh:
Gli angioli sarebbero un’apparizione come tutte le apparizioni ed epifanie, che non sono realtà tangibili e materiali, ma provvidenziali allucinazioni, volute e preordinate da Dio e create apposta perché l’obiettività, l’autonomia, l’esteriorità, l’impersonalità del Vero fossero dagli uomini apprese come la possono apprendere¹.
Ma la visita degli angeli ad Abramo è intesa dalla letteratura rabbinica anche con il valore prescrittivo legato alla visita dei malati (bikur cholim). Abramo era ancora convalescente per la recente circoncisione, effettuata all’età di 99 anni. Il precetto positivo che i maestri traggono da questo episodio è quello dell’obbligo di andare a visitare gli infermi, un’azione che assume un carattere privilegiato nel più generale complesso di attività note con il nome di Ghemiluth Chassadim (messa in pratica di buone azioni di assistenza). La visita ai malati assume in quest’ottica tre forme: l’assistenza materiale (portare al malato ciò di cui ha bisogno), la vicinanza (parlargli e dirgli parole di conforto per risollevarne lo spirito) e la preghiera. Si tratta – si badi bene – di prescrizioni che appartengono completamente alla letteratura post-biblica e che non trovano un effettivo appiglio con le parole che si leggono in Bereshit. Abramo non si comporta come un convalescente: siede al sole e al caldo, corre verso i tre uomini e porta loro del cibo in modo frenetico. Eppure è stato appena circonciso. I rabbini, che non trovano in nessun altro luogo della Bibbia una chiara indicazione dell’obbligo morale di visitare i malati, identificano questo passaggio «originario» come quello più appropriato per costruirvi un’indicazione normativa chiara e inequivocabile. Maimonide include questo precetto fra le mitzvot ordinate dai rabbini².
La complessità del testo biblico interseca temi che possono apparire anche molto diversi fra loro, ma che pure assumono un senso e una direzione se analizzati attentamente. Dopo il quadro descrittivo incentrato sulla visita degli angeli e sull’ospitalità di Abramo, ecco che agli angeli si sostituisce Dio stesso, che annuncia a Sara la sua maternità. Si tratta della ripetizione, con altre parole, di un’annunciazione che pochi versi prima Dio stesso aveva fatto ad Abramo, provocando nel patriarca la stessa reazione di risata (radice linguistica del nome Itzhak «Isacco» «riderà»). Di fronte all’annuncio di una maternità in età anziana, Sara ha la stessa reazione, seppure in forma più contenuta e modesta. Dio la vede e chiede ad Abramo: «Perché Sara ha riso?». Sara nega e si vergogna un po’, ma Dio non intende mollare: «No. Tu hai riso!». Il tema della risata nella tradizione ebraica è centrale in un momento così importante come l’annuncio della nascita di un patriarca, Isacco, e continuerà a esserlo per tutta la successiva letteratura rabbinica. È, ad esempio, noto l’episodio del cosiddetto «forno di Aknai»³, una discussione molto libera fra rabbini, che prevede l’intervento diretto di Dio che alla fine ride compiaciuto, poiché i suoi figli (cioè i rabbini) sono riusciti a «vincerlo» in una discussione.
La risata è parte fondamentale della narrazione, non si tratta di un elemento posticcio. Il commentatore medievale Rashi analizza la natura numerica delle lettere che compongono il nome di Isacco: yod (= 10), tzadi (= 90), cheth (= 8) e kof (= 100). Dieci sono state le prove che Abramo ha dovuto sostenere, come anche gli anni trascorsi prima di poter avere un figlio da Sara. Novanta sono gli anni di Sara quando nasce Isacco. Otto sono i giorni che devono passare dalla circoncisione del figlio maschio e cento sono gli anni di Abramo alla nascita di Isacco. Su questa base, Rashi costruisce un percorso che è la sceneggiatura dell’annunciazione: «Avrò un figlio dopo dieci anni di attesa?»; «Ma lei ha novant’anni!», «Un figlio che verrà circonciso all’ottavo giorno»; «Ma ho già cento anni!». In questo modo Rashi fa assumere alla risata una molteplicità di significati, lavorando sulle parole e sulle lettere e facendo loro assumere senso compiuto anche scontrandosi con una realtà impossibile. Una maternità e paternità alle soglie dei cento anni è di fatto un’esperienza assurda, che pure diventa fondativa di un intero popolo e assume risvolti dichiaratamente comici che vanno interpretati. Scrive Moni Ovadia:
In sintonia con questa linea si costruisce l’umorismo ebraico. Il suo scopo è quello di esiliare l’arroganza delle certezze, di introdurre una dimensione imprevista che stimoli a creare una nuova fonte di pensiero consapevole della propria precarietà. L’umorismo ebraico appartiene a una forma mentis irriducibilmente anti-idolatrica. La sua ambizione è quella di smascherare la violenza del pregiudizio e di sculacciare la stupidità del mondo⁴.
*Insegna storia contemporanea e storia degli ebrei in Italia presso la Boston University Study Abroad di Padova ed è direttore della Biblioteca Archivio Renato Maestro di Venezia.
Note:
¹ E. BENAMOZEGH, Dio, 267, cit. in D. LATTES, Nuovo commento alla Torah, Carucci Editore, Roma-Assisi 1976, 47.
² M. MAIMONIDE, Mishne Torah, Leggi relative al lutto 14:1.
³ Talmud Babilonese, Baba Metzia 59b.
⁴ M. OVADIA, L’ebreo che ride, Einaudi, Torino 1998, 10-12.
