Una risposta a Vito Mancuso sull’evoluzione dello Stato ebraico
Roberto Della Rocca – La Stampa – 17 Luglio 2025
Ho letto con vivo sgomento l’articolo di Vito Mancuso comparso su La Stampa il 13 luglio, nel quale l’autore introduce il neologismo “israelismo” per separare la dimensione politica dell’ebraismo dalla sua ideale “fiamma spirituale”. Il risultato è una caricatura: da un lato l’ebreo «buono, geniale e perseguitato», dall’altro lo Stato ebraico moderno descritto come proiezione di un sentimento etnico religioso degenerato. Vale la pena rimettere in fila i fatti – storici, biblici e attuali – prima che la discussione deragli. Israelismo, l’etichetta coniata da Vito Mancuso, promette di distinguere la politica dalla spiritualità ebraica. In pratica, cancella la prima per salvare – a parole – la seconda. È un trucco già visto: trasformare gli ebrei in un popolo di filosofi inoffensivi e lo Stato di Israele in una devianza malsana. La storia, però, è più testarda delle astrazioni.
Mancuso arriva perfino ad accostare il concetto biblico di “ḥērem” (il cui campo semantico è “interdetto” piuttosto che “sterminio”) alla “endlösung” nazista, la soluzione finale , presentando la guerra di Israele a Gaza come esito inevitabile di un presunto razzismo strutturale dell’ebraismo stesso. Ma il “ḥērem” non è un manuale di genocidio: è piuttosto un divieto contro quei culti che prevedevano sacrifici umani praticati abbondantemente dai popoli idolatri che abitavano Canaan. Anche oggi combattere quei culti, ispirati a una pulsione di morte, per i quali i bambini devono essere immolati alla “causa”, non è un protocollo di dominio etnico né, tantomeno, un precedente della Shoah. Equipararlo ad Auschwitz non è interpretazione creativa: è amputazione del contesto, operazione che gli ebrei conoscono bene perché l’hanno subita per secoli.
L’autore fonda gran parte della sua requisitoria sul settimo capitolo del Deuteronomio, isolandone le frasi più dure per sostenere che l’ebraismo includa un codice di eliminazione dell’altro. Equiparare il ḥērem ad Auschwitz è decontestualizzare un precetto antico e, paradossalmente, fare ciò che per secoli è stato fatto contro gli ebrei: usare un versetto per condannarli.
Mancuso ignora però che lo stesso Deuteronomio, al capitolo 17, costringe il re a un regime di poteri limitati, vieta la moltiplicazione dei cavalli (l’equivalente antico dei carri armati) e gli impone di scrivere, sotto supervisione sacerdotale, una copia personale della Torah. La guerra, secondo il Talmùd , richiede il consenso del Sinedrio. Un’anticipazione di una autentica monarchia costituzionale dove la conquista non può mai diventare impresa privata del monarca. Il filosofo Micah Goodman, nel suo libro L’ultimo discorso di Mosè, descrive con grande maestria come la Torah contrasta e cerca di prevenire il sovranismo.
Il nome “Israele” non sorge in un’aula parlamentare bensì in una lotta notturna. Nel capitolo 32 della Genesi Giacobbe si batte fino all’alba con un avversario misterioso che solleva un polverone cercando di togliergli la terra sotto i piedi per renderlo instabile ed etereo. La storia non passa senza ferite. Giacobbe ne esce zoppicante ma non viene polverizzato. Con un mirabile paradosso l’angelo misterioso lo colpisce nel nervo sciatico slogandogli l’anca. Rallenta dunque il suo cammino tentando in tutti i modi di scollegare la parte superiore della persona dalla parte inferiore : ovvero la mente e la spiritualità da ciò che sta sotto, il corpo e la materialità. Proprio in questo contesto, nel tentativo di scindere materia e spirito (che il sogno della scala ha cercato viceversa di congiungere per sempre) Giacobbe diventa Israele, come se lottare con l’angelo significasse difendere anche la parte terrestre e concreta dell’ebraismo, dove questo ipotetico angelo rappresenta invece il tentativo della sua polverizzazione. Una lotta si potrebbe dire contro un certo modo “angelico” e celestiale di concepire l’ebraismo. Una lotta interiore e quotidiana che scandisce la cadenza di un cammino che persegue una missione nonostante le zoppie e le difficoltà del percorso. Chi riduce Israele a “simbolo morale” dimentica questa matrice terrena e quotidiana.
L’identità d’Israele nasce dunque da una dialettica permanente fra cielo e terra, fra l’esigenza etica dello Spirito e l’urgenza concreta della storia.
Ridurre l’ebraismo a “sito dell’idealità” significa amputarne due terzi: popolo e terra. Fin dal patto abramitico la Torah è consegnata a una collettività storica chiamata ad abitare uno spazio concreto. È la cifra che rende ebraismo e storia indissolubili: si può criticare la politica dello Stato d’Israele, ma negare la legittimità di quella saldatura equivale a pretendere un cristianesimo senza Vangelo o un islam senza Corano. Ogni dialogo che censura uno di questi tre fili si trasforma in monologo.
Israele reale — non quello dei nostri sogni e né quello demonizzato dei detrattori — è un laboratorio di fratellanze difficili (non è forse questo il filo rosso del libro della Genesi?) , un esperimento democratico giovane, rumoroso, plurietnico.
I suoi governi cambiano spesso, la piazza protesta, i tribunali intervengono: segnali di vitalità, non di suprematismo. Chi visita Tel Aviv o Beer Sheva avverte, accanto ai conflitti, la forza centripeta di una società che tiene insieme ebraismi al plurale e una nutrita minoranza araba che siede in parlamento. Si può «odiare», per dirla con Albert Memmi, solo ciò che funziona: l’avversione smodata nasce spesso dall’invidia per una resilienza inattesa.
L’ebraismo dispone di un correttivo strutturale al potere: il Talmùd, dialogo ininterrotto fra generazioni che impedisce di trasformare un versetto in slogan e un concetto in ideologia. Mancuso chiede una “ristrutturazione” della coscienza biblica; forse non sa che questa operazione è in corso da ventisei secoli ed è il cuore stesso della cultura ebraica. Il compito dei maestri non è santificare ogni decisione di un governo , ma nemmeno delegittimare, per presunti motivi morali, il diritto all’esistenza collettiva del popolo ebraico.
Nell’epoca che esalta l’identità liquida, la persistenza d’Israele appare scandalosa. Ma un’identità che rifiuta di dissolversi non è per forza violenta; è semplicemente responsabile. Come Giacobbe dopo la lotta, Israele cammina zoppicando, ferito ma vivo, e proprio per questo incarna la sfida di un’etica che non si accontenta di restare ideale. Al contrario di quanto teme Mancuso, la “fiamma” non si spegne perché si radica in un’etica concreta e quotidiana: continua a bruciare grazie alla tensione fra Spirito e storia.
Chi desidera un dialogo onesto non ha bisogno di inventare etichette come “israelismo”, né di brandire analogie improprie con la Shoah. Basterebbe riconoscere che, nella Torah come nella democrazia, la critica vive sotto la stessa tenda della fedeltà. È in quel campo polveroso che, giorno dopo giorno, continuiamo a batterci – senza santificare la forza, ma senza rinunciare al diritto di esistere.
https://www.lastampa.it/cultura/2025/07/17/news/israele_guerra_pace_ebraismo_mancuso-15234811