Nella parashà di Yitrò i primi cinque comandamenti trattano dei doveri dell’uomo verso l’Eterno e gli altri cinque dei doveri nei confronti degli altri uomini. Così infatti è scritto: “Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non attestare il falso contro il tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo…”’ (Shemòt, 20:13-17). Mentre nei dieci comandamenti l’ordine di “non rubare” è al singolare, nella nostra parashà lo stesso ordine appare al plurale: “Non ruberete, e non userete inganno né menzogna gli uni a danno degli altri” (Vaykrà, 19:11).
R. Avraham ibn ‘Ezra (Tudela, 1089-1167, Calahorra) commenta che nella nostra parashà viene usato il plurale perché anche una persona che assiste al furto e non dice nulla è considerato un complice del furto.
R. Barukh HaLevi Epstein (Belarus, 1860-1941) in Torà Temimà (Vaykrà, 19:11, nota 61) cita un’altra opinione secondo la quale viene usato il plurale perché il ladro non può operare senza complici. E quindi anche il ricettatore è incluso nella proibizione di “Non ruberete”. Infatti nel Midràsh (Bereshìt Rabbà) è detto che il ladro non è il topo; il ladro è il nascondiglio nel quale il topo porta la refurtiva”. Questo per dire che senza un ricettatore non vi sarebbero ladri.
Un’altra questione che viene discussa tra i Maestri è il motivo della ripetizione della proibizione di non rubare in questa parashà dopo che è già stata scritta nei dieci comandamenti.
Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento a questa parashà spiega il motivo: “Non ruberete [scritto qui] è un avvertimento a chi ruba denaro, mentre non rubare dei dieci comandamenti è un avvertimento a non rapire persone, la cui pena è quella di morte (Sanhedrin, 86a), come si impara dal contesto”. Infatti chi uccide e chi commette adulterio sono passibili della pena di morte. Nel parlare di contesto, Rashì ha citato una delle tredici regole ermeneutiche della Torà elencate da r. Yishma’el e che vengono recitate prima della tefillà mattutina di Shachrìt. Rabbi Yishma’el era un contemporaneo di rabbi ‘Akivà che visse nella terza generazione dei Maestri della Mishnà (II secolo E.V.)
Una spiegazione delle tredici regole ermeneutiche, ossia di interpretazione della Torà, la diede r. David Nieto (Venezia, 1654-1728, Londra) nella sua opera Kuzarì Shenì (Vikùach Shelishì: 164-182). La dodicesima regola di interpretazione è quella di imparare dal contesto (“Davàr ha-lamèd me-inyanò”). Quando nella Torà è scritto “…ognuno stia dov’è; nessuno esca dalla sua tenda il settimo giorno” (Shemòt, 16:29), il contesto è di non andare a raccogliere la manna di cui si parla in precedenza. Non si proibisce di andare a fare una passeggiata di Shabbàt. Similmente riguardo al Kohen Gadol, dove è scritto che “non esca dal Santuario” (Vaykrà, 21:12) non significa che è obbligato a rimanere lì chiuso per tutta la vita, ma che non esca per andare al funerale di un parente stretto e si renda impuro per la vicinanza del cadavere.
Questi esempi di r. Nieto servono a sottolineare gli errori che commisero i Caraiti nell’interpetrare letteralmente il testo della Torà, ignorando le regole trasmesse da Moshè. R. Nieto scrisse il Kuzarì Shenì per difendere la Torà Orale contro coloro che mettevano in dubbio gli insegnamenti dei maestri. Chiamò la sua opera “Kuzarì Shenì”, il Secondo Kuzarì prendendo spunto da r. Yehudà Halevi che aveva scritto il suo Kuzarì, per difendere la Torà scritta.