Il “Maghèn nashim” di Leone de’ Sommi
Umberto Fortis – Toscana Ebraica 2024
Dalla seconda metà del XVI secolo, l’ingresso nel mondo della cultura aveva rappresentato per la donna un primo passo verso l’acquisto di una patente di nobiltà, capace di accreditare una distinzione e un’“eccellenza” altrimenti negate. La folta schiera delle rimatrici che, all’interno del codice petrarchesco, avevano composto molti canzonieri, aveva raggiunto nella “femminil scrittura” poetica un posto di rilievo nel contesto della produzione letteraria italiana. Ludovico Ariosto nel suo Orlando Furioso annotava:
Ben mi par di veder ch’al secol nostro
Tanta virtù fra belle donne emerga,
Che può dare opra a carte et ad inchiostro (XX, 3, 1-3).
E la veneziana Moderata Fonte poteva allora scrivere nei suoi Canti del Floridoro (1581):
E così ne le lettere, e in ciascuna
impresa, che l’uomo pratica e discorre,
Le donne sì buon frutto han fatt’e fanno,
Che gli uomini a invidiar punto non hanno.
Certo, non erano però conquiste prive di contrasti e di opposizioni, in una diatriba spesso accesa, soprattutto in anni di risorgente antifemminismo. In netta antitesi, infatti, con tali aperture, si moltiplicavano frequenti, da più parti, le opere che con violenza riproponevano il topico tema dell’inferiorità dell’ingegno femminile: i “donneschi diffetti”, descritti da Giuseppe Passi, rilanciavano le tradizionali accuse e facevano loro eco le irriverenti parole di Traiano Boccalini, per il quale la “vena poetica delle donne” è e resta “l’arco e il fuso”. Fu comunque un fenomeno storico molto diffuso, che coinvolse letterati e poeti, di varia estrazione e all’interno del quale s’innesta agevolmente, da vero esercizio di bravura, la polemica sorta anche tra scrittori, rabbini o poeti di parte ebraica, quasi nella volontà, anche in questo caso, di inserirsi nel contesto di una tendenza all’epoca dominante.
Fu di vero avvio alla lunga disputa letteraria, all’interno della cultura ebraica, l’apparizione, negli anni Ottanta del Quattrocento, delle terzine del Sonè nashìm (Il misogino) di Abramo da Sarteano, un testo fortemente avverso al genere femminile, con versi che suscitarono, tra l’altro, la reazione, in senso contrario, di Avigdor da Fano, con il suo ‘Ezràth nashìm (L’aiuto alle donne). Da allora, lo schieramento tra le opposte posizioni era già chiaro, anche se si trattava, in effetti, della ripresa di una disputa antica, sorta in Spagna già nel XIII secolo, rinata in seguito in Provenza, ma poi rimasta senza attestazioni per almeno due secoli. Ora, nel nuovo contesto storico, di fronte anche al rinato misoginismo, dovuto al pesante clima della Controriforma, molti poeti si sentirono coinvolti in un dialogo, sia pur astratto e da puro esercizio formale, per sostenere contrapposte posizioni, attorno a un problema tornato, in quegli anni, di inattesa attualità.
Fra i vari Israele da Cortona, o Ya‘aqòv da Fano o Samuele da Castiglione e alcuni anonimi, il Magèn nashìm di Leone de’ Sommi, il celebre autore mantovano del Cinquecento, è certamente la più nota tra le ballate o le canzoni di rabbini e letterati ebrei, che hanno dato vita a questo eccentrico, spesso sofisticato, esercizio letterario, sorto all’interno della rinascimentale querelle des fammes sul valore della donna, sulla sua importanza all’interno della società e nel campo dell’attività letteraria. Composta forse nel 1556, da un autore ancor giovane, è il testo più attentamente strutturato, dal punto di vista letterario, ma anche quello che nasce da una concezione della donna più profonda e sentita, dalla convinzione di un’esperienza forse realmente vissuta, lontana dai tanti tradizionali stereotipi presenti in molti altri versi. La genesi della canzone è senza dubbio polemica. Afferma infatti de’ Sommi nella sua introduzione:
“Mi è stato riferito che un tale ha stampato una sua composizione che, con sua vergogna, ha scritto contro le donne e che l’ha chiamata Davàr be’ittò (ogni cosa a tempo debito); io allora ho preparato contro di lui una poesia di 50 strofe e l’ho chiamata Magèn nashìm (Il difensore delle donne). Quell’uomo ha composto la sua canzone in ebraico e in italiano; perciò, anch’io ho scritto la mia poesia in lingua Santa e in lingua straniera”.
La premessa alle cinquanta strofe in ottave coglie già molti dei tratti distintivi di un testo originale. Esso è costruito, da un lato, entro i canoni di un codice tradizionale (la canzone) e di una metrica diffusa anche in ambito ebraico (l’ottava); dall’altro, è organizzato innovandone, però, dall’interno, la struttura, attraverso l’uso di due lingue, che si sviluppano in versi alterni, ma in un continuum, che, per la diversa direzione grafica delle stesse, impone una nuova lettura in senso bustrofedico (ds > sn / sn > ds): una lettura cioè senza interruzione tra verso e verso, come avviene invece di norma: si tratta di un’infrazione, dunque, eccentrica, all’interno di un ben codificato ‘sistema’, ma tipica di un gusto ricercato, diffuso nel Cinquecento, seguito anche da altri poeti ebrei, prima dell’apertura verso le molte esuberanze barocche: una sorta di ‘manierismo ebraico’, si direbbe, esempio di una sofisticata esibizione letteraria. L’alternanza linguistica fu subito naturalmente condannata: nel suo Shiltè gibborìm (Gli scudi dei forti), Ya‘aqòv da Fano rifiutava con fermezza la contaminazione tra le due lingue, definendo come una vera profanazione della lingua Santa il suo uso in versi che troppo esaltano il valore delle donne. Eppure, l’esperimento innovativo fu seguito anche da altri poeti, impegnati nella questione femminile e l’uso del volgare fu apprezzato, invece, non solo da Baraq ben Avino‘am, ma anche da altri poeti. Del resto, come è stato osservato, la nuova forma di bilinguismo, era, in qualche modo, il riflesso della compresenza pacifica della cultura ebraica e della lingua ‘laica’, proprio nella corte mantovana, dove de’ Sommi godeva di un posto di prestigio e non solo all’interno della propria comunità.
Nella nuova veste linguistica, la canzone rispetta però la tradizionale partizione del genere: dopo la protesi e l’invocazione, il corpus è costituito da una serie di sequenze che, dopo avere richiamato i pregiudizi e le prevaricazioni degli uomini contro le donne, ricordano invece figure femminili, sia del mondo antico, greco e romano, sia del mondo biblico e di quello contemporaneo, per chiudere con un ‘congedo’, dedicato alla donna amata. L’ottava alterna versi in ebraico (qui tradotti in corsivo) a versi in italiano, secondo la rima ABABBCCD (non riproducibile in traduzione):
Ascoltate le mie parole.
Donne sagge honeste e belle
Che ho unito le mie parole
Contra queste ciurme felle
Degli vecchi che a le stelle
Hanno innalzato la vostra vergogna
E perciò io vengo in vostro aiuto
Per diffendervi a ogni via.
E tu, mia bella amica
Che mi chiami a questa impresa
Per sostenere la mia poesia
Delle donne alla difesa
Dammi aiuto alla contesa
Contro parole di calunnia
Che fanno offesa a Dio
Et co’l mondo villania.
Nella protesi, rivolgendosi direttamente alle donne, con una triplice aggettivazione elogiativa, Leone dichiara di unire la sua poesia a tutte quelle voci che, come i Proverbi o il Cantico dei Cantici, tanto diffuso ai suoi tempi, hanno celebrato la donna contro ogni parola di oltraggio; mentre, nell’invocazione, al posto della tradizionale musa ispiratrice, l’appello è rivolto a un’amica, forse Hanna Rieti, che pare lo abbia realmente convinto a entrare nella contesa letteraria di allora e a scrivere il suo poema. Il consiglio, poi, per esplicito invito di Leone, era che il testo dovesse essere letto, direttamente, e non semplicemente ascoltato, per la sua singolare conformazione eufonica. L’obiettivo polemico, esemplare dei pregiudizi degli uomini, è un autore mantovano che, nelle sue esternazioni, fu, per Leone, “matto e vano”: l’oggetto del rimprovero fu forse Samuele da Castiglione, che nelle sue poesie, in ebraico e italiano, fu aspramente misogino, con parole ostili e spesso scurrili: “Non stare a prender moglie, / che è una grand’impresa; / disdoro, onta, vergogna…”. Per Leone, la misoginia è irrazionale, è pazzia, e per esaltare invece il valore femminile, elenca, nelle lunghe sequenze del testo, le virtù di molte donne sia ebree che del mondo greco e romano. Ma accanto a Rachele e Lea, Abigail o Giuditta, o Ester, passano anche donne contemporanee, quali Benvenida Abrabanel o una sconosciuta, “fiore” delle donne di Bologna, per offrire un ventaglio ampio, sviluppato nel tempo, secondo l’antico elogio:
Chi potrà trovare una donna di valore
Che più in grado d’honor saglia
Che di saggezza o consiglio
Huomo certo non l’agguaglia (Prov., XXXI, 10).
La lunga sequenza enumerativa e i molteplici aspetti del valore delle donne, sembra vogliano rinviare, però, per esplicito suggerimento del poeta, a un significato più profondo, legato all’idea stessa che Leone aveva della donna. Egli afferma infatti nella sua prefazione, come a indicare una precisa linea di lettura: “Cantico dei Cantici / difesa delle donne / perché loro sono la fonte / di tutti gli esseri / senza di loro / non ci sarebbero uomini / e nella loro condotta / si vede la creazione in sanc / ta sanctorum / arcana e allegorica / per la presenza di Dio”. In una visione ‘altra’, dunque, quasi mistica, Leone vede nella donna una sorta di alone di sacralità. Nella sua azione creatrice, senza la quale l’uomo non esisterebbe, essa è la “fonte” di ogni essere; in essa, e nella sua presenza nel mondo, si vede la presenza di D-o, in una sorta di ‘continuità creativa’, che vede nella donna un essere superiore, degno di un rispetto e di un’ammirazione, quali si devono appunto alla divinità, che in essa sembra essere sempre presente. La distanza dalle superficiali affermazioni di tanti altri poeti, perciò, è degna di particolare rilievo. Ne consegue anche la singolare attenzione che Leone riserberà più tardi alle donne, nei suoi Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, là dove, pur ammirando la valentia di molte attrici del suo tempo, si dimostra contrario alla possibile presenza femminile sulla scena del suo teatro, sia per il valore in sé della donna, sia, soprattutto, per lo scorretto comportamento maschile. Il riscontro vero della sua reale concezione emerge, in tal modo, però, soprattutto nella convincente esaltazione della sua donna, la sua amante, seppur mai nominata: “Bellissima è la mia donna / lei è una colomba pura”; là, dove essa risiede, è come se ci fosse la presenza divina. Perciò è a lei, che, nel congedo, Leone affida, in un nuovo non omnis moriar, il compito di ricordarlo come colui che, nella sua donna, ha onorato per sempre il vero valore femminile:
Il suo nome nasconderai
Canzon mia, nostro amore
Ma il nome mio ricorda
Fa palese e dallo fuore
Di pur via senza rossore
Yehudà, colui che mi scrive
Colui che al mondo ha avuto la sorte
D’honorar la donna mia.