“Mosè pascolava il gregge di Ytrò suo suocero, sacerdote di Midian; e guidando il gregge dietro al deserto, giunse alla montagna di Dio, a Chorev” (Esodo 3:1). La prima volta che il Signore parlò a Mosè, gli apparve nel Seneh, in un roveto ardente che non si consumava. In questa rivelazione, il Signore consacra Mosè come profeta e gli ordina di far uscire i figli d’Israele dall’Egitto. La Torah ci informa che tutto questo accadde quando Mosè, che lavorava come pastore per il suocero Yitrò, un giorno portò le pecore verso il deserto.
Perché Mosè si dirige verso il deserto che tra l’altro non è un posto idoneo per far pascolare un gregge? Il Midrash Tanchuma risponde a questa domanda e dice che Mosè si sentì improvvisamente attratto dal deserto, come se avesse avuto la percezione che li sarebbero accaduti aventi eccezionali. Fu nel deserto che i figli d’Israele avrebbero ricevuto la Torah e tutte le sue mitzwoth da osservare. Fu nel deserto che i figli d’Israele costruirono il Mishkan, il Tabernacolo del deserto dove la Presenza divina avrebbe preso la sua dimora terrena. Fu nel deserto che i figli d’Israele ricevettero il sostentamento miracoloso della manna, che cadeva dal cielo ogni mattina, e un pozzo d’acqua che viaggiava sempre con loro.
Mosè era attratto dal deserto perché era attratto dalla grandezza spirituale e sentiva l’avrebbe raggiunta proprio lì.
Il Malbim (Rabbì Meïr Leibush ben Jechiel Michael Weiser, 1809-1879), sviluppa ulteriormente questo simbolismo e spiega che un deserto, una regione desolata e inabitabile, rappresenta l’assenza di corporeità. È un luogo in cui bisogni fisici di una persona non possono essere soddisfatti pienamente, dove si può, nella migliore delle ipotesi, sopravvivere con lo stretto necessario. Il deserto, spoglio di tutte le necessità materiali, simboleggia la possibilità dell’espressione completa della spiritualità.
Il Malbim spiega che Mosè cercava la “Qedushà”, la santità incontaminata, che voleva vivere senza alcuna prerogativa materiale di sorta. Questo sarebbe dunque il significato dell’espressione “guidare il gregge dietro al deserto”: Mosè voleva andare nel deserto, lasciare il mondo materiale e vivere un’esistenza interamente spirituale. Fu per questo che quando Mosè vide per la prima volta il roveto ardente e iniziò ad andare verso di esso, il Signore gli ordinò di non avvicinarsi (Esodo 3:5), perché in questo incontro, e anche per il futuro, Mosè non avrebbe dovuto spogliarsi completamente della sua essenza materiale per legarsi al Signore in una unione pienamente spirituale. Tutti gli esseri umani – compreso Mosè – hanno un corpo che necessita cure materiali. E anche se siamo spinti ad uscire nel “deserto” e “sospendere” per così dire la nostra esistenza fisica, possiamo farlo ma riconoscendo che non siamo in grado di rimuovere del tutto la nostra materialità.
Il Malbim ci insegna che per vivere una vita di Qedushah/santità, dobbiamo andare nel “deserto”, nel senso che dobbiamo rimuovere solo determinate cose dalla nostra vita. In termini attuali, significa che dobbiamo togliere rilievo alle culture estranee che ci circondano, che creano ostacolo ad una vita ebraica. Naturalmente, chi vive in diaspora, in mezzo a luoghi e ambienti non ebraici, non può isolarsi completamente. Tuttavia, è imperativo creare una sorta di “deserto” nelle nostre case, discernendo attentamente ciò che vi permettiamo all’interno. In una certa misura, dobbiamo creare per noi stessi un “deserto”, un luogo veramente libero da influenze esterne negative.
Se vogliamo vivere una vita ebraica significativa, dovremmo trattenerci da gran parte di ciò che la società circostante consuma e a cui si abbandona. Non possiamo permettere indistintamente, a noi e ai nostri figli, tutto ciò che la società circostante ritiene per sé accettabile. Mosè, il più grande profeta mai vissuto, ci ha mostrato che siamo stati scelti per perseguire la Qedushah, la santità, e che per raggiungerla dobbiamo come lui andare nel “deserto”, ponendo limiti a ciò che portiamo nella nostra vita materiale, Shabbat Shalom!