La Parashà di Shemot ci avvia sulla strada della redenzione, una strada che trova alcune svolte inaspettate lungo il cammino. Il primo problema che incontriamo è l’incomprensione del processo. Il primo tentativo di Moshè di liberare gli ebrei fallisce. Peggio ancora, il Faraone decide che gli ebrei hanno troppo tempo libero, con l’effetto immediato che non viene più fornita loro la paglia di cui hanno bisogno per fabbricare i mattoni per costruire le città. Con le loro vite ancora più appesantite, i leader del popolo ebraico supplicano il Faraone, che respinge le loro richieste, quindi rivolgono la loro ira su Moshè e Aharon, colpevoli, secondo loro, di aver peggiorato le loro condizioni. Moshè, a sua volta, si lamenta con Hashem: ““O mio Signore, perché hai portato del male a questo popolo? Perché mi hai mandato? Da quando sono andato dal Faraone per parlare in Tuo nome, lui ha trattato questo popolo peggio; e ancora Tu non hai liberato il tuo popolo”.” (Shemot 5;22-23). Attraverso questi pesukim sembra quindi emergere un Moshè dubbioso, o un Moshè al quale viene instillato un dubbio.
Analizzando questi pesukim, Ibn Ezra si chiede cosa stesse turbando Moshè, quando Hashem stesso gli aveva detto che il Faraone non avrebbe liberato subito il popolo ebraico se non dopo tutta una serie di miracoli: “Eppure so che il re d’Egitto vi lascerà andare solo a causa di una potenza superiore (Shemot 3;19). Se Moshè sapeva che la redenzione non sarebbe arrivata al primo tentativo, perché si lamentava?La risposta è che Moshè era cosciente che il processo non sarebbe stato semplice. Quello che però si aspettava era che già dopo la prima volta, dopo il primo incontro con il Faraone, si sarebbe arrivati ad una riduzione della sofferenza degli ebrei, sofferenza che invece aumenta. Questo anche perché D-o stesso aveva detto a Moshè: “Ho osservato attentamente la miseria del Mio popolo in Egitto e ho ascoltato il grido che rivolgono i suoi sovrintendenti; ho visto le sue sofferenze” (Shemot 3;7), che aveva visto le afflizioni degli ebrei, era sceso, per così dire, per salvare gli ebrei dagli egiziani, Moshè non riusciva a capire perché Hashem avrebbe permesso che quei problemi si aggravassero. Non capiva perché lui, Moshè, fosse stato mandato senza alcuna risposta da dare agli ufficiali ebrei che lo avevano rimproverato. Ibn Ezra pensa che Moshè (anche forse solo perché questi fatti accadono presto nella sua carriera di leader) potrebbe non vedere in questa fase il piano divino completo, anche se buona parte di questo era stato condiviso con lui. Le vie di Hashem sono spesso penetrabili anche per i più grandi tra noi.
La seconda incomprensione è che Aharon non sarà sufficiente e che la richiesta di Moshè di essere affiancato da Aharon nel suo affrontare il Faraone costituisce per Moshè una sorta di vittoria di Pirro (Shemot 4:15: “Tu gli parlerai e metterai le parole nella sua bocca. Io sarò con te e con lui mentre parlerete e dirò a entrambi cosa dovrete fare“). Dopo aver detto che Moshè avrebbe dovuto mettere, letteralmente, le parole nella bocca di Aharon, D-o aggiunge che sarà con la bocca di Mosè e Aharon, per istruirli su cosa fare. Lo Sforno pensa che le parole di Hashem mostrino l’inutilità delle proteste di Moshè. Questo è testimoniato dal fatto che sebbene D-o abbia esplicitamente riconosciuto la maggiore abilità oratoria di Aharon, questa necessita comunque dell’aiuto di Hashem affinché il Faraone rispondesse alle loro parole. Questa risposta di D-o è in realtà una risposta a Moshè: Se Io sono con te, non importa se ti reputi bravo o meno, potrai affrontare la situazione anche da solo.
Questo messaggio è rafforzato da un altro episodio. Dopo che Moshè è stato persuaso da D-o ad intraprendere la missione di condurre gli ebrei fuori dall’Egitto, gli viene comandato: “e prenderai in mano questo bastone con cui farai i miracoli” (Shemot 4:17). Moshè quindi procede a congedarsi da suo suocero e lascia Midian per il pericoloso viaggio in Egitto. In obbedienza al comando divino, leggiamo, “e Moshè prese in mano il bastone di D-o” (Shemot 4:20). In quel momento, D-o si rivolge a Moshè e dice, quando tornerai in Egitto, assicurati di fare davanti al Faraone tutti i miracoli “che ho messo nella tua mano” (Shemot 4:21). Perché, chiede Abarbanel, D-o non menziona il bastone come l’agente con cui i miracoli devono essere effettuati? Non aveva ordinato a Mosè di portarlo con sé? Sembra che D-o stia evitando di proposito di menzionare il bastone. Per quale motivo?
Lo stesso Abarbanel fornisce una risposta che è, nella sua intuizione psicologica, di un significato senza tempo. Moshè aveva una paura naturale di tornare in Egitto. Era considerato dal Faraone un ricercato, un nemico pubblico. Gli stessi ebrei non avevano una gran considerazione di lui. Quindi Moshè era probabilmente contento quando D-o gli comanda di prendere il “bastone di D-o”. Questo divenne per lui la garanzia della sua stessa sicurezza mentre si imbarcava in questa impresa altamente pericolosa. In quel preciso momento, D-o interviene facendogli notare come il bastone sia solo uno strumento che di per sé non ha alcun valore speciale. “Guarda tutte le meraviglie che ho posto nella tua mano” – è lì che risiedono la capacità di grandezza, la sicurezza della missione e le redini del destino: “beyadekha”, nella tua mano. Il bastone è meramente uno strumento divino, sono Io che ho chiesto che tu lo porti con te. Ma nel momento in cui un uomo ripone la sua fede in un bastone, nega la fede in se stesso e indebolisce la sua fede in Me. Quando il bastone diventa una stampella per l’uomo, interrompe il dialogo di fede tra D-o e l’uomo stesso. L’interpretazione di Abarbanel di questo dialogo tra D-o e Moshè è significativa per tutti noi in ogni momento.
Nelle leggi sulla tefillà, lo Shulcĥan Arukh (Orach Chayim 94:8) insegna che durante la recitazione della Amidà è improprio appoggiarsi all’amud, ad un tavolo o ad un supporto. Nelle nostre relazioni con D-o, dobbiamo avvicinarci a Lui direttamente. Questa è una peculiarità dell’ebraismo. Dobbiamo stare in piedi sulle nostre gambe e prendere i nostri destini spirituali “beyadekha”, nelle nostre mani. Cercare un Rabbino o uno studioso come insegnante della Torà, significa usare correttamente il bastone di D-o. Ma guardare al Rabbino come qualcuno su cui appoggiarsi ed evitare così le proprie responsabilità religiose intime, personali, come un osservatore vicario dei propri obblighi religiosi, questo significa usare una stampella. Dobbiamo fare affidamento su D-o, non sul Suo bastone sul Creatore, non sulle Sue creature.
La Parashà di Shemot è piena di esempi positivi di persone che hanno preso decisioni importanti e fondamentali grazie alle capacità innate e peculiari che D-o ha messo “beyadecha”, nella loro mano. Le decisioni e le azioni di Miriam, di Yocheved, di Batya, sono atti straordinari che sono stati fondanti per il popolo ebraico.
Naturalmente nessuno ci chiede di essere leader del calibro di Moshè, Aharon, Miriam, Yocheved, Amram ed altri. Quello che ci viene insegnato è di imparare a riconoscere quelle che sono le nostre capacità, quello che è il nostro valore, quello che ci contraddistingue, e sviluppare queste capacità per la nostra crescita personale. Attraverso l’osservare le mitzvot, attraverso atti di “eroismo quotidiano”, atti di chesed, tzedakà e comportamenti corretti, D-o ci manda la berachà di poter effettuare cose straordinarie “beyadecha”, con le nostre mani, rendendoci capaci non solo di migliorare noi stessi e di influenzare chi ci sta intorno, ma anche di innescare un circolo vrtuoso nel quale potremo stupirci e renderci conto di quante cose che noi consideriamo alla stregua di miracoli siamo in grado di fare, anche collaborando tra di noi, ma senza bisogno di ulteriori orpelli.