Segulat Israel – Numero 15
Alla memoria di mio fratello
David Dodi Bahbout z.l.
combattente per Israele
che sapeva guardare molto lontano
La domanda che si pone ogni volta che vengono fatti dei prigionieri e si è chiamati a negoziare per la loro liberazione, è quali siano i limiti entro i quali svolgere la trattativa. L’argomento non è nuovo e più volte è stato posto nella storia ebraica e in particolare negli ultimi tempi dato che la parte avversa non dà in sostanza alcun valore alla vita. Il problema è se sia legittimo rilasciare dei terroristi che si sono macchiati di gravi omicidi e stragi in cambio di soldati o di civili. Ricordiamo l’affare Jibril, quando i tre soldati della IDF catturati da Fatah furono rilasciati in cambio di 1150 terroristi; o ancora il caso di Gil’ad Shalit, un soldato in cambio di oltre mille terroristi.
Nella storia ebraica i rapimenti non sono una novità: ora però non è una comunità o un singolo che deve rispondere alla trattativa ma uno Stato, che ha la responsabilità di tutelare la sicurezza dei suoi cittadini. Le domande cui dobbiamo rispondere sono sei:
1. Qual è il prezzo che si può/deve pagare per liberare degli ostaggi? Un prezzo eccessivo incoraggerebbe futuri rapimenti e la liberazione di terroristi comporterebbe poi che essi si uniscano ad altri nemici aumentando il rischio per la popolazione;
2. La liberazione di terroristi non viola i principi generali dello Stato di diritto?
3. C’è una differenza quando il rapito non è un soldato ma un civile? (vedi il caso di Elhanan Tenenbaum rilasciato dalla prigionia di Hezbollah in cambio di oltre 400 terroristi).
4. Quando i rapiti sono persone che abitano nelle cittadine vicino al confine, non si tratta di persone che sono in quella posizione per garantire sicurezza allo Stato e necessitano quindi maggiore sicurezza?
5. È giusto rilasciare i terroristi per riscattare i corpi dei soldati detenuti dalle organizzazioni terroristiche: non sarebbe più giusto scambiare corpo di soldato ucciso con corpo di un terrorista ucciso? (ricordiamo i casi di Eldad Regev e Ehud Goldwasser).
6. Leggi della guerra e leggi civili: come vanno applicate e se esiste una differenza.
Queste domande e molte altre sono state poste ai poseqìm (decisori di Halakhà) anche nel caso di cittadini che sono stati catturati mentre non svolgevano missioni di Stato. Queste domande fanno parte del dibattito pubblico e impegnano i poseqìm, interpellati dalle famiglie dei rapiti che premono per ottenere il loro rilascio con un accordo con i rapitori.
Vale la pena notare che non risulta siano state emanate leggi o decisioni giuridiche dello Stato sulle questioni sopra sollevate, ma solo pareri basati sulla Halakhà, da Maestri della nostra generazione. Quanto segue non ha la pretesa di volere essere un parere con valore halakhico, ma solo un tentativo di studiare il problema da vari punti vista.
Premessa
Innanzi tutto è necessario distinguere tra quanto avveniva in passato e quanto accade oggi nello Stato d’Israele. In passato il problema era quale era il prezzo da pagare per la liberazione di un prigioniero. Uno degli obblighi del marito nei confronti della moglie nel quadro del matrimonio è l’impegno a riscattare la moglie in caso di rapimento. Mentre un tempo il problema era quello di valutare quale fosse il giusto prezzo da pagare per riscattare un prigioniero rapito, nel nostro caso il rapimento di soldati o civili da parte di organizzazioni terroristiche si pone nel quadro della loro lotta contro loStato di Israele e la sua società: il loro obiettivo è quello di recuperare forze per continuare la lotta contro lo Stato e minare il morale nazionale del nemico sionista nel quadro di una lotta armata determinata e crudele. Dobbiamo pertanto essere cauti nell’esprimere un’opinione di fronte a un fenomeno nuovo: le nostre fonti discutono la questione del riscatto dei prigionieri a livello individuale e comunitario, non a livello dello Stato sovrano, e questo è anche un punto importante che deve essere considerato.
Nonostante queste premesse, c’è molto da imparare dai principi della Halakhà riguardo al riscatto dei prigionieri e in generale come ci si deve comportare in questi casi.
Riscattare un prigioniero di guerra è “una grande mitzwà“. Il riscatto dei prigionieri è un valore fondante nell’ethos ebraico. Giàall’alba della storia ebraica durante la guerra dei quattro re contro i cinque re menzionata nella Genesi (cap. 14), Avraham organizzò un’operazione militare per salvare suo nipote Lot dalla prigionia. Il Rambam (Hilkhòt Mattenòt ‘Aniyìm 8: 10) a questo proposito scrive: Il riscatto dei prigionieri ha la priorità rispetto al sostentamento dei poveri e all’obbligo di procurare loro il vestiario e non c’è una mitzwà piùgrande del riscatto dei prigionieri … e chi non lo fa trasgredisce varie mitzwòt come “Non indurire il tuo cuore … non rimanere inerte di fronte alpericolo del prossimo … “viva tuo fratello con te”, e ancora “Ama il tuo prossimo come te stesso” ecc.
Lo Shulchàn ‘Arùkh (Yorè De’à, 252, 3) cita le parole del Rambam e aggiunge: “Ogni istante che si ritarda nel riscattare un prigioniero, quando èpossibile farlo, è come se si versasse il suo sangue.”
“Non si paga un riscatto superiore al valore della persona rapita”
La mitzwà del riscatto dei prigionieri non è un valore astratto: i Maestri hanno stabilito delle norme per evitare che persone malvage chiedano prezzi e orbitanti. Pertanto, già durante il periodo del secondo Bet ha-Miqdàsh, nonostante il riconoscimento dell’importanza suprema della mitzwà del riscatto dei prigionieri, fu stabilito che è vietato sottomettersi alle richieste dei rapitori quale che fosse il prezzo richiesto: “Non si paga un riscatto di prigionieri oltre il loro valore per il buon andamento del mondo (Tiqqùn ‘Olàm)” (Mishnà Ghittìn, 4, 6).
Il Talmud (Ghittìn, 45a) si pone la domanda: cosa si intende per Tiqqùn ‘Olam? Il Tiqqùn è dettato da necessità economiche oppure da esigenze di sicurezza? Si vuole evitare che il pubblico sia costretto a pagare un prezzo eccessivo per il riscatto, cosa che andrebbe a gravare sulle casse della collettività? Oppure si vuole impedire che la società diventi bersaglio di frequenti rapimenti, e quindi abbia problemi di sicurezza?
Rashì sottolinea la differenza tra i due approcci: se la motivazione del non pagare un prezzo eccessivo è economica, allora va interpretata come rivolta solo al pubblico: non si dovrebbero sottrarre beni alle casse pubbliche per la liberazione di un prigioniero, mentre un privato può
pagare di tasca propria, senza creare danno alle casse pubbliche. D’altro canto, se alla base del Tiqqùn ci sono considerazioni inerenti alla sicurezza, allora l’insegnamento “non pagare un prezzo eccessivo” èdiretto sia al pubblico che al privato, in quanto entrambi sarebbero sottoposti al riscatto e quindi al ricatto.
La maggior parte delle opinioni halakhiche sostiene che il Tiqqùn vada fatto per motivi di sicurezza, cioè si vuole evitare che i nemici facciano di tutto per prendere altri ostaggi. Ma ci sono decisori (Rabbi Shelomò Luria, Yam Shel Shelomò, Ghittìn, Cap. 4, 66) che ritengono primarie le considerazioni economiche, e ci sono altri (R. Nissim, Ghittìn, cap. 4; R. Alfasi, Tosefòt R. Yeshaya’hu, Ghittìn 45; Bait Chadàsh, Yorè De’à, 252) che ritengono che, poiché il Talmud non giunge a una decisione su questa questione, le due considerazioni (economia e sicurezza) devono essere ritenute entrambe valide.
Qualunque sia la motivazione alla base della norma del principio “non rimanere indifferente di fronte al pericolo del tuo compagno”, esiste la mitzwà di salvare una persona in pericolo. L’applicazione di questa mitzwà richiede che una persona (o il pubblico) sia obbligata a investire
tutto il suo denaro per liberare il prigioniero dalla prigionia? Oppure c’è un limite a questo importante comandamento? Insomma, non è chiaro se si voglia solo porre dei limiti all’osservanza di questa mitzwà o se si voglia affermare che non bisogna andare al di là di quanto stabilisce la
legge e quindi operare lifnim mishuràt hadin cioè andare oltre a quanto la legge stabilisce, cioè usare a questo scopo, come per qualunque mitzwà positiva, al massimo un quinto di tutti i propri averi.
In altre parole, la domanda è se, in assenza di una norma che proibisca il riscatto di un prigioniero oltre il suo “valore”, è comunque obbligatorio riscattarlo impegnandosi a pagare qualsiasi somma di denaro?
La mitzwà “Non restare indifferente”
Questa mitzwà appartiene alla categoria delle norme lo ta’asè, cioè negative nel senso che costituiscono un ordine a non fare una determinata azione, ma di fatto impegnano poi a fare, a operare, e in questo caso, a salvare una persona. Quindi la domanda è se sono tollerate o meno delle deroghe all’applicazione della mitzwà. Per salvare un prigioniero, specialmente se è in pericolo di vita, si ha sempre l’obbligo di intervenire? È opinabile che l’applicazione assoluta di questa norma – “non restare indifferente” – possa essere respinta in nome dell’interesse pubblico, e questo per non indurre i nemici ad approfittare e chiedere un riscatto economico esagerato o, come nel nostro caso, chiedere una rinuncia alla sicurezza, liberando prigionieri nemici.
La norma negativa (lo ta’asè) comporta l’impegno di fare qualcosa per osservarla. Tuttavia per salvaguardare il bene del pubblico non si è costretti ad andare al di là di quanto è ragionevole. Insomma non si deve danneggiare la collettività più di quanto non sia ragionevole,
anche di fronte alle insistenze dei parenti che premono per accettare qualsiasi condizione.
Possiamo quindi concludere, da quanto sopra, che non è giusto dire che secondo la Halakhà è necessario pagare sempre qualsiasi prezzo per riscattare i prigionieri e quindi salvarne la vita. È più corretto stabilire che, nonostante il riconoscimento da parte dei Maestri dell’importanza della mitzwà del riscatto dei prigionieri, e nonostante la comprensione e la sensibilità dei Maestri alla terribile angoscia in cui si trovano il prigioniero e i suoi familiari (Vedi Geremia, 15, 2), viene data la priorità al bene pubblico rispetto a quello individuale e privato.
Obblighi di riscatto
I commentatori del Talmud e le opinioni dei poseqìm indicano diverse restrizioni alla norma che vieta il riscatto dei prigionieri con il pagamento di un prezzo in eccesso rispetto al loro “valore”. In ogni caso, i Maestri in queste decisioni hanno sempre fatto uso delle regole interpretative del
Talmud per permettere delle deroghe.
1) Abbiamo un solo caso in cui è chiaro che si può pagare qualsiasi cifra: una persona può pagare qualsiasi somma per riscattare sé stesso perché è interessato alla sua vita e questo non ha alcuna influenza sugli altri. La stessa regola vale anche per la moglie (Ishtò kegufò: la moglie è come il
suo corpo). In caso contrario, si corre il rischio di sottoporre la collettività al ricatto dei rapitori.
2) Un altro caso in cui è permessa una deroga è quello di un pericolo imminente per la vita della persona rapita. Il Talmud (Ghittìn, 58a) racconta la seguente storia che può essere di sostegno al caso di pericolo di morte. Hanno insegnato i Maestri: accadde che Rabbi Yehoshua’ ben Chananià andò in una grande città romana. Gli dissero: C’è un bambino in prigione, ha occhi belli ed è bello, e ha i capelli raccolti in riccioli. Andò all’ingresso della prigione e disse: “Chi consegnò Mosè, Giacobbe e Israele ai saccheggiatori?” Il bambino gli rispose e disse: “È D., contro il quale abbiamo peccato rifiutandoci di seguire le sue vie e di obbedire ai suoi insegnamenti”. Disse: Sono sicuro che (questo ragazzo) diventerà un Maestro in Israele. Giuro che non mi muoverò da qui fino a quando non avremo pagato qualsiasi denaro richiesto per il suo riscatto. Dissero: Non si mosse da lì fino a quando non fu pagato un sacco di soldi, e non passarono molti giorni fino a quando non divenne Maestro in Israele. E chi era? Rabbi Ishma’el ben Elisha.
Il Talmud spiega: Perché R. Yehoshua’ violò la norma: “Non si riscatta i prigionieri oltre il loro valore” pagando una somma eccessiva? Vengono date varie risposte, e la più importante è quella per cui il ragazzo era in pericolo di vita. Altri sostengono che Rabbi Yehoshua’ aveva capito che
il ragazzo era dotato di caratteristiche geniali e quindi sarebbe diventato un grande Maestro.
Alcuni Maestri ritengono che non dovrebbe essere fatta eccezione per un prigioniero la cui vita non è in pericolo, ma se c’è un pericolo perla sua vita, è ammissibile (ma non obbligatorio) riscattarlo ad ogni costo: Rabbi Yehoshua’ presumeva che la vita del ragazzo fosse in imminente pericolo.
Notiamo che in generale, quando la vita di una persona si trova in pericolo, considerazioni economiche non dovrebbero essere decisive: quindi sembra più credibile ritenere che alla base della norma ci sia la volontà di garantire la sicurezza della vita dei membri della collettività. Mentre questa classificazione è controversa tra i poseqìm, molti sostengono che anche quando il prigioniero è in pericolo di vita, le richieste eccessive per il suo rilascio non dovrebbero essere soddisfatte, in modo da non mettere in pericolo molte persone in futuro.
Il governo ha il diritto di dire Qim Lan [cioè, ci fidiamo del parere degli esperti] per cui gli ostaggi non dovrebbero essere liberati pagando un prezzo eccessivo che metterebbe in grave pericolo altre vite in futuro. Alcuni commentatori contemporanei sostengono che se l’opinione della Halakhà fosse stata ascoltata, non ci sarebbe stato posto all’estorsione da parte delle organizzazioni terroristiche, poiché, a detta di tutti, il rilascio di centinaia di terroristi in cambio di pochi soldati è comunque un prezzo eccessivo, che è vietato pagare secondo la regola: “Non si riscatta i prigionieri oltre il loro valore“. Vale la pena portare quil’opinione di uno dei più importanti poseqìm dello Stato di Israele, Rav Shaul Yisraeli z.l. che era un membro di lunga data dell’Alta Corte Rabbinica, che si basa sulla norma che i Maestri non hanno limitato il diritto dell’uomo di riscattarsi (il rav non ha discusso del rilascio dei terroristi, ma del rilascio di prigionieri israeliani nel ritiro di Israele dai territori occupati durante la guerra del Kippur). L’intervento di rav Yisraeli (non si riscatta) si sofferma su tre aspetti: 1) La norma En podìm (non si riscatta) è valida per i civili, ma non per i soldati.Dal momento che i nostri soldati sono andati in guerra per incarico dello Stato e per il suo bene, in difesa del popolo che vive a Sion, c’è un impegno non scritto che impegna lo Stato a riscattarli in caso di cattura – ma è ovvio che lo Stato deve giustificare il fatto che entro limiti ragionevoli il pagamento non danneggi la sua sicurezza generale. E così come c’è un tale impegno a prendersi cura del loro recupero in caso di lesioni e disabilità in guerra, e a prendersi cura delle loro famiglie in caso di loro lesioni, D. non voglia, ci deve essere anche un impegno a cercare diriscattarli […].
2) Il rilascio di terroristi assassini comporta gravi rischi per la sicurezza e questo può essere fatto entro limiti ragionevoli quando non danneggia la sicurezza generale.
3) Un altro problema è il fatto che, per salvare dei prigionieri, la liberazione di assassini danneggia i valori dello Stato di diritto. Rav ‘Ovadià Yosef si sofferma sul problema del rischio. Si tratta di due tipi di rischio: 1) il rischio ipotetico che l’autorità politica in generale assume a nome della società quando decide di liberare dei terroristi: si tratta di un rischio che non è certo. 2) Il rischio certo: è quello del prigioniero, dell’ostaggio che si trova nelle mani di terroristi.
Ora dovendo scegliere tra un rischio ipotetico e uno certo, è chiaro che l’autorità dovrà decidere di fare la scelta meno rischiosa e quindi portare avanti una trattativa per ottenere l’ostaggio. L’alternativa alla trattativa è quella di tentare un salvataggio con un intervento militare: questa fu la scelta che fece il governo d’Israele nel caso del sergente Wachsman e di Entebbe. Ogni intervento del genere comporta dei rischi, ma ancora una volta l’importante è il rapporto tra rischi certi e ipotetici. In questo caso le probabilità di rischio sono uguali e soprattutto c’è il grande vantaggio che non si cede al ricatto dei terroristi.
Salvataggio a rischio
Supponendo che la norma “En Podim” sia irrilevante nel nostro caso, sia perché non si applica quando il prigioniero è in pericolo di vita, sia perché non si applica ai soldati come spiega rav Yisraeli, o perché la norma si applica solo alle circostanze di delinquenza penale e non in caso di una lotta nazionale e di conflitto di guerra, sorge spontanea questa domanda: in assenza di una norma chiara, come valutare il pericolo inerente alla liberazione di prigionieri in mano a terroristi?
È obbligatorio fare qualcosa per salvare la vita del prigioniero, incluso il “prezzo” da loro richiesto (liberazione di terroristi che comporta il rischio futuro dell’aumento del terrorismo e di altri rapimenti)? Oppure è proibito fare qualcosa che potrebbe mettere in pericolo la vita delle
persone in futuro? La Halakhà ha una posizione chiara oppure la decisione è lasciata ai membri del Governo, a seconda delle necessità dello Stato?
La questione se una persona debba assumersi il rischio di salvare gli altri che si trovano in una situazione in cui il pericolo è sicuro, è stata ampiamente discussa dalle autorità [Enciclopedia talmudica vol VI, pp. 348 – 349, Enc. Hilkhatit Refuit], e i poseqìm che hanno discusso la
questione del rilascio di terroristi in cambio del riscatto dei prigionieri emgli hanno dedicato un’attenzione considerevole (Vedi vol. 5, pp 733-767, Tehumin, 4, 153 – 172 e 154 – 174; Igheròt Moshè Yorè De’à, 11).
Non è possibile elencare qui le varie fonti che hanno condotto alle conclusioni di queste discussioni. L’opinione della maggior parte dei poseqìm è che nessun uomo ha l’obbligo di rischiare la vita per salvare gli altri, ma ciò gli è comunque consentito. Si può quindi sostenere che non vi sia impedimento a liberare dei terroristi per salvare soldati o civili, anche se questo comporta un pericolo futuro. I rappresentanti del pubblico possono assumersi questa responsabilità per le altre persone allo scopo di liberare i terroristi: in tal modo sarà possibile salvare la vita di soldati o civili, anche se ciò comporterà rischi futuri.
In altre parole, il pubblico, attraverso i suoi rappresentanti, ha il diritto di assumersi questo rischio. Secondo rav Shaul Yisraeli così come ogni singolo può decidere di mettere la sua vita a rischio per salvare una persona, anche il Governo, eletto regolarmente dai cittadini, in sua rappresentanza può fare tutto ciò che anche l’individuo ha il diritto di fare. Non c’è in questo caso differenza tra la Halakhà e le leggi dello Stato d’Israele. Da quanto scritto finora non appare che le azioni dello stato d’Israele siano in contrasto con le opinioni dei poseqìm succitati.
È interessante citare a questo proposito anche l’opinione di Rabbi ‘Ovadià Yosef:
1) Tra una persona che sta in pericolo sicuro e un’altra che sta in pericolo dubbio, si salva prima chi sta in pericolo certo; rav ‘Ovadià aggiunge anche che in questo caso (liberazione dei terroristi) il pericolo è ipotetico (perché è di là da venire). In questo contesto il Governo può essere considerato come se fosse una terza persona.
2) Poiché si tratta di un dubbio ipotetico e non ancora reale, esso deve certamente essere ignorato, rispetto al pericolo sicuro in cui si trovano i prigionieri.
Gli argomenti portati sinora indicano che, sebbene la Halakhà non richieda il rilascio di terroristi in cambio del ritorno dei prigionieri, anche non lo proibisce; e la questione è rimessa nelle mani di un’autorità che deve salvaguardare il bene dello Stato e i vantaggi e gli svantaggi che derivano da questa decisione.
Tuttavia, come abbiamo già notato, la questione in esame dovrebbe essere analizzata non nell’ambito di un quadro comunitario (cioè contro criminali comuni), ma nel quadro di uno Stato sovrano contro le organizzazioni terroristiche che lo hanno preso di mira per distruggerlo
completamente (come hanno ripetutamente dichiarato):queste minacce vanno prese sul serio come dimostrano gli ultimi eventi, quando lo scopo dei terroristi è quello di distruggere lo Stato e di uccidere tutti gli ebrei. Questa situazione è il fattore che può indurre i decisori a rimanere fermi di fronte alle richieste dei rapitori e di fronte alle pressioni delle famiglie e dell’opinione pubblica.
Le leggi della guerra: interesse pubblico e privato
Il fatto che i prigionieri siano stati catturati dal nemico in una guerra di terrore con lo scopo di rapire soldati e civili rappresenta una minaccia strategica per lo Stato, e questo costituisce una considerazione decisiva che richiede la fissazione di limiti chiari al prezzo che può essere pagato
per il loro riscatto. In tal caso, non solo non è necessario fare tutto il possibile per liberare i prigionieri, ma è vero il contrario: è vietato sottomettersi a qualsiasi loro dettato. Se l’interesse privato prevalesse su quello pubblico, le possibilità di vincere la guerra imposta dal nemico verrebbero meno. Se Hamas chiedesse in cambio dei rapiti una fornitura di armi, carri armati e aerei, la loro richiesta sarebbe soddisfatta?! La risposta a questa domanda retorica è ovviamente negativa … e non solo per il rischio che comporta. Arrendersi alle richieste del nemico di rilasciare i terroristi in cambio del rilascio dei loro prigionieri non è solo un prezzo doloroso, ma una perdita in battaglia. Se i terroristi riuscissero a imporre completamente la loro strategia anche solo per una volta nei confronti di Israele, catturando un soldato e un civile, considererebbero questa come una vittoria, anche a prescindere dal rischio che avrebbe comportato questa liberazione.
Di fronte a un nemico che cerca di fare del male, la Torà comanda di combattere: in guerra non si applica il principio halakhico del Piqqùach nèfesh (in caso di pericolo di vita si può trasgredire l’intera Torà) ma al contrario ogni individuo è chiamato a dare anche la vita per la vittoria nella guerra.
Descrivendo lo spirito che dovrebbe accompagnare il soldato che va in battaglia, il Rambam (Hilkhòt Melakhìm, 7, 15) scrive: E quando entrerà in guerra, si affiderà alla speranza di Israele e del suo Salvatore nei momenti di difficoltà, e saprà che sta conducendo la guerra per l’unicità del Nome, e metterà la sua vita nelle Sue mani, e non temerà né penserà a sua moglie e ai suoi figli, ma cancellerà la loro memoria dal suo cuore e si dedicherà completamente alla guerra, Non abbiate paura, e non abbiate paura di loro […].
Non ci si arrende al nemico se non quando non c’è alcuna possibilità di opporsi a lui a livello nazionale, e non quando è a rischio un interesse privato, per quanto importante e doloroso. Questa è una regola fondamentale per chi viene aggredito e deve fare una guerra… tanto più se si tratta di un soldato che rischia la vita per proteggere lo Stato, consapevole che potrà essere ucciso o essere fatto prigioniero.
Parole simili le disse Rav Ya’akov Kamenetzky, uno dei più grandi Maestri della Torà negli Stati Uniti, quando nel 1970 si oppose al pagamento di un riscatto per il rilascio di rav Yitzchak Hutner, capo della yeshivà Rabbi Chayim Berlin di Brooklyn. Rav Hutner era su un aereo che lo portava da Israele agli Stati Uniti. Il 6 settembre l’aereo fu dirottato da terroristi arabi e i passeggeri furono sbarcati a Zarka, in Giordania. Gli studenti di rav Hutner raccolsero una grande somma di denaro e cercarono di convincere le autorità statunitensi a riscattare il loro rabbino. I loro sforzi erano basati sull’eccezione alla legge “En Podìm” che permette di riscattare un grande maestro di Torà, secondo quanto si può dedurre dall’episodio in cui fu protagonista Rabbi Yehoshùa’ (vedi testo appena citato). Rav Kamenetzky obiettò: questa conclusione è corretta in generale, ma solo in tempo di pace: in tempo di guerra non si può dire che siamo obbligati a smettere di combattere per redimere i prigionieri con denaro, perché così facendo le nostre risorse aiuterebbero il nemico proprio nel bel mezzo della guerra. (1)
A proposito del rilascio di terroristi
I soldati e anche i civili sanno che l’esercito e lo Stato per il quale hanno combattuto non li abbandonerà, qualora venissero feriti o fatti prigionieri.L’esercito farà delle operazioni per liberarli anche se comporteranno dei rischi. Ovviamente l’esercito cercherà di rendere l’operazione meno rischiosa sia per i soldati che eseguono l’operazione che per i prigionieri.
Nessuno sa se l’operazione avrà successo, ma il combattente ha la certezza che l’esercito farà di tutto per liberarlo. Una guerra come questa e anche le altre combattute da Israele, sono guerre di difesa e quindi obbligatorie (nella terminologia della Halakhà sono guerre di mitzwà per le quali anche lo sposo deve abbandonare il baldacchino matrimoniale per difendere il popolo).
Un ultimo punto importante è sviluppato da rav Yehudà Ghershuni (Pidyon Shevuyim leor ha-halakhà, Hadarom 5731): nel liberare persone rapite è comunque necessario rispettare la legge e l’ordine, perché non si possono lasciare libere persone che si sono macchiate di omicidio. Una prova è data dal caso di chi ha ucciso seppure involontariamente una persona: egli deve rimanere nella città di rifugio e non può essere chiamato per testimoniare.
(1) Rav Kamenetzky sosteneva che lo Stato d’Israele si trovava in un continuo stato di guerra dal 1948. Inoltre in un’intervista condotta da rav Jacob Sasson, rav Avraham Kamenetzky, uno dei figli di r. Ya’akov, disse che suo padre era stato contrario al riscatto perché i terroristi non sapevano che tra i prigionieri avevano una persona dell’importanza di rav Hutner. In queste circostanze un tentativo di riscatto avrebbe fatto sapere dell’importanza del prigioniero e reso più difficile la sua liberazione. Rav Hutner fu liberato il 26 settembre e trasferito a Nicosia (n.d.r.)
Conclusioni
Sebbene la redenzione dei prigionieri dai tempi antichi sia considerata un valore supremo nel popolo ebraico (“grande mitzwà“), non è corretto dire che secondo la tradizione ebraica, è obbligatorio sottomettersi a qualsiasi richiesta delle organizzazioni terroristiche per ottenere il rilascio di prigionieri israeliani. La dichiarazione che si sente nel discorso pubblico che tutto deve essere fatto per liberare i prigionieri è quindi fuorviante: il governo di Israele deve cercare di ottenere il loro rilascio con i mezzi che ha usato in altre circostanze (per esempio Entebbe, Wachsman). Con tutta la comprensione della sofferenza delle famiglie che chiedono la liberazione dei loro cari, ci sono prezzi che la collettività (e quindi il Governo) non può pagare. La domanda allora è: dove è il limite e secondo quali principi si estende questa linea?
Abbiamo visto che già nel periodo della Mishnà, quando le comunità di Israele si occupavano di criminali che rapivano persone allo scopo di estorcere un riscatto monetario, i Maestri preferivano il bene pubblico al bene individuale. Se il prezzo richiesto per pagare il rilascio del prigioniero era eccessivo, i Maestri non si sottomettevano alle richieste dei rapitori, in nome della tutela degli interessi pubblici.
Prevenire rischi futuri per la sicurezza e la necessità di mantenere un equilibrio tra pubblico e privato era la loro guida, applicando il principio En Podìm: “non si riscattano i prigionieri pagando un prezzo superiore al loro valore.” Così, per esempio, per quanto riguarda i soldati che sono stati catturati e che fanno sì che il prigioniero sia in pericolo di vita, secondo il parere di rabbini israeliani (rav Shaul Israeli, rav Ghershuni, rav Goren), non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa per sottometterci alle richieste dei rapitori. Il salvataggio può essere fatto da volontari, pronti a rischiare la propria vita, ma non può essere imposto.
Il riscatto dei prigionieri in cambio del rilascio dei terroristi non è né un divieto né un dovere; è possibile apparentemente a discrezione delle autorità, secondo la loro valutazione di ciò che è bene per lo Stato e la collettività.
In ogni caso la situazione attuale non può essere paragonata a quella dei tempi della Mishnà o del Medioevo: in primo luogo, dal momento che le richieste di Hamas rientrano nel quadro di una lotta nazionale delle organizzazioni terroristiche, lo Stato deve considerare che è uno Stato sovrano e che è essenzialmente in uno stato di guerra. Rispondere alle richieste delle organizzazioni terroristiche (quando sono eccessive), significa la resa e la sconfitta nella lotta contro di loro, e non dovrebbe essere accettata. Naturalmente, questo non libera lo Stato dal suo obbligo di fare tutto il possibile nel quadro di attività operative o diplomatiche al fine di ottenere il rilascio dei prigionieri. Ciò è particolarmente vero per i soldati dell’IDF che sono stati catturati dopo il loro servizio militare in una missione dello Stato, fatto che rafforza l’impegno dello Stato nei loro confronti.
In secondo luogo, per coloro che dicono che bisogna cedere alle richieste dei rapitori e pagare un prezzo elevato per il riscatto dei prigionieri, il rilascio di terroristi che sono stati legalmente processati e che scontano la loro pena nelle prigioni dello Stato di Israele è un prezzo che non può essere pagato, perché significa rinunciare allo Stato di diritto che è il carattere principale della società. Questa considerazione è particolarmente vera quando si tratta di terroristi che sono coinvolti in omicidi.
Il fatto che in passato siano stati fatti accordi che hanno portato a questa situazione (si veda chi sono oggi i capi di Hamas) deve fare riflettere chi oggi deve prendere le decisioni. La storia di Israele prova che quando non c’è stata altra scelta, Israele è riuscito a risolvere la situazione andando oltre le aspettative. E così sarà anche questa volta.
Bibliografia sul tema del riscatto dei prigionieri
Per avere una visione completa dell’argomento, a parte le fonti già citate nell’articolo, Enciclopedia Talmudica e Enciclopedia Halakhika Medica, consultare la lista bibliografica raccolta da: Nachum Rakover, Otzar Hamishpàt, parti 1 e 2 alla voce Pidyòn Shevuìm.