In Le religioni e il mondo moderno, a cura di Giovanni Filoramo, vol.II Ebraismo a cura di D. Bidussa, Einaudi,
Torino 2008
Gadi Luzzatto Voghera
1. Da Giudice e Maestro a capo culto, predicatore e pastore d’anime
Il tormentato periodo di passaggio del mondo ebraico da una generalizzata condizione di separatezza giuridica a una più piacevole – ancorché precaria – equiparazione e integrazione nelle società civili e nazionali, comportò profondi mutamenti a diversi livelli. Nel corso di tutto il secolo xix la complessiva «civiltà ebraica»[1] si andò progressivamente trasformando nel mondo occidentale in direzione di una sempre più evidente religiosizzazione, che comportò in tempi relativamente rapidi un abbandono pressoché generalizzato di gran parte degli elementi che fino ad allora avevano caratterizzato la realtà sociale e le manifestazioni culturali delle comunità della diaspora. L’ebraismo diveniva sempre più una Religione, un Culto, una Fede, elementi cui si attribuivano differenti significati a seconda delle scelte dei singoli o di intere congregazioni. In tale contesto, le stesse antiche strutture che avevano caratterizzato l’organizzazione e la vita delle comunità ebraiche nei secoli precedenti venivano travolte e subivano radicali trasformazioni.
Fra queste, anche la figura del rabbino subì una decisa metamorfosi. Per la verità il mutamento di ruolo istituzionale del rabbino non costituì una novità peculiare dell’èra moderna: in effetti, la sua figura non era stata definita in forma chiara nelle epoche precedenti, e di volta in volta aveva assunto caratteristiche, funzioni e forme assai differenti a seconda dei contesti geografici e cronologici. Legata certamente alla storia ebraica dell’epoca diasporica (il termine «Rav» = «grande», «maggiore», «maestro» – da cui «rabbino» – non compare nel testo biblico), la figura del rabbino[2] venne ad assumere significati e forme variamente articolate. Se all’epoca della redazione del Talmud (v sec. E.v.) il rabbi era generalmente un saggio che discuteva di Torà, ma che non ne faceva in alcun modo la sua principale professione, bisognerà attendere il Medioevo per veder riconosciuto nel rabbino il ruolo di insegnante, maestro della Legge ebraica, punto di riferimento spirituale e morale della comunità ebraica e – soprattutto – giudice. Fu questo il punto focale che caratterizzò la figura del rabbino nelle comunità ebraiche della diaspora in età medievale e moderna: la sua funzione giuridica, assai spesso riconosciuta e a volte esplicitamente richiesta e appoggiata dalle autorità pubbliche in materia di Diritto civile (matrimoni, divorzi, contrasti di rilevanza non penale fra membri della comunità ebraica), ne faceva un elemento essenziale per assicurare il controllo sociale. Fu probabilmente questa una delle due ragioni per cui il mondo non ebraico identificò sempre nella figura del rabbino quella del «capo» della comunità ebraica, riconosciuto come tale proprio in quanto investito di una funzione di controllo e regolamentazione giurisdizionale. La seconda ragione – ovviamente – risiede nella propensione del mondo cristiano ad accreditare impropriamente al rabbino un ruolo analogo a quello ricoperto dal sacerdote (prete, pastore o pope che fosse) nelle parrocchie. È evidente che la funzione di giudice, esperto e interprete autorizzato della Legge ebraica, capo di un vero e proprio Tribunale (in ebraico Bet Din = casa del giudizio) che, seppure privo di un braccio secolare, si vedeva sostanzialmente riconosciuta piena autorità per consenso sociale, era una funzione inscindibilmente legata a una condizione di separatezza giuridica e «nazionale» del gruppo ebraico dalla società maggioritaria. Solo una realtà di ineguaglianza giuridica poteva giustificare la sussistenza di norme e apparati differenziati, e le condizioni proprie dell’Ancien régime assicuravano (per la verità non solo per la ristretta minoranza ebraica) la possibilità di mantenere un sistema di controllo parzialmente autonomo, nel quale la figura del rabbino assumeva una rilevanza sociale che non aveva in epoca antica e che non si ritroverà dopo l’emancipazione[3].
2. Le forme d’istruzione del rabbino
La formazione, l’istruzione di rabbini in età medievale e moderna non seguì quasi mai un percorso istituzionale omogeneo e univoco. L’inesistenza di strutture organizzate dedicate all’educazione di nuove guide spirituali, la mancata produzione di testi espressamente indirizzati alla loro formazione, e – in fin dei conti – la stessa insussistenza di organizzazioni comunitarie istituzionalmente riconosciute e coordinate fra di loro almeno per aree geografiche contigue, costituiscono nell’insieme elementi sufficienti per determinare una certa disomogeneità nel campo della formazione e dell’assegnazione di funzioni universalmente riconosciute alla figura del rabbino. Non è un caso – in questo senso – che i pensatori dell’Illuminismo ebraico (Haskalà) nella seconda metà del se colo xviii fecero della riorganizzazione del sistema educativo e di istruzione uno degli ambiti cui dedicare particolare attenzione. La stessa sussistenza di istituzioni con il medesimo nome (si pensi alla yeshivà)[4] nascondeva in realtà percorsi di formazione assai differenziati a seconda delle aree geografiche. Se in Europa orientale e centrale il metodo di studio dominante a partire dall’inizio del secolo xvi fu il cosiddetto pilpùl (discussione sofistica potenzialmente infinita di brani del Talmud), proposto da Jacob Pollak[5] (1460-1541) a Cracovia e in seguito adottato per secoli dalle principali yeshivot, in altre aree (come ad esempio in Italia, ma anche nei territori del dominio ottomano) l’impostazione risultò affatto differente. Per l’Italia, in particolare, bisogna tener conto della svolta determinata nel campo dell’educazione e dell’istruzione ebraica dal rogo del Talmud voluto da papa Giulio III nel 1553 e delle conseguenti decisioni adottate anche in materia di autocensura e di istruzione superiore dall’establishment ebraico della Penisola nel Sinodo di Ferrara del 1554[6].
Se le pressioni della chiesa cattolica per un controllo e una censura preventiva della letteratura ebraica post-biblica considerata eretica avevano determinato – soprattutto in Italia – decise restrizioni alla «biblioteca» messa a disposizione del giovane ebreo che intraprendeva il per corso di studi che l’avrebbe condotto al conseguimento del titolo di rabbino, nelle sue diverse versioni di maalàt ha-chavèr o di chakhàm, nel resto dell’Europa non si registrarono in sostanza decisivi mutamenti di indirizzo nella struttura organizzativa e nella letteratura di base necessaria alla formazione delle guide spirituali delle comunità ebraiche. Va peraltro notato che la disomogeneità dei percorsi formativi rabbinici si accentuò ulteriormente in relazione al confronto/scontro fra misticismo e razionalismo; a seguito della crisi determinata in tutto il mondo ebraico dall’apparizione del falso messia Shabbatay Tzwi[7] dopo la seconda metà del secolo XVII, si andarono via via acuendo i contrasti fra una classe rabbinica tradizionale e poco propensa alle speculazioni mistiche e cabbalistiche, a fronte di nuovi percorsi proposti da singole personalità (si pensi a Moshe Chayym Luzzatto, 1707-47) o da interi movimenti di devozione popolare come il chassidismo dell’Europa orientale[8].
Si giunge in tal modo alle soglie della cosiddetta emancipazione ebraica sul finire del secolo XVIII, con una situazione di sostanziale disorganicità che non consente di definire in maniera univoca né un percorso formativo della figura del rabbino, né un suo ruolo preciso e delle sue prerogative all’interno di una comunità ebraica, se non quelle proprie di giudice e di maestro.
3. Verso una definizione di ruolo
In generale, l’episodio dispotico della convocazione a Parigi di un’Assemblea di notabili[9] ebrei voluta da Napoleone nell’autunno del 1806, e la conseguente istituzione di un vero e proprio Sinedrio di rabbini che dal 3 febbraio al 9 marzo 1807 si incontrarono per deliberare sulle richieste di chiarimenti inoltrati dall’imperatore, è visto come uno dei momenti più bassi di asservimento di certo ebraismo occidentale al potere politico, in spregio alla purezza della tradizione. Per quanto duro possa essere il giudizio storico sulla propensione dei vertici religiosi e laici delle comunità ebraiche francesi, italiane e tedesche a sottomettersi di buon grado alle richieste del Principe, derogando ampiamente alla lettera e allo spirito degli insegnamenti rabbinici, è tuttavia indubbio che quell’evento segnò un momento decisivo di svolta relativamente al mutamento delle forme organizzative, al rapporto degli ebrei con le società moderne e – quel che interessa noi in questo ambito – al ruolo del rabbinato nei confronti della comunità ebraica, dei suoi singoli membri e della società civile in generale. Non a caso, ben tre dei dodici quesiti posti da Napoleone all’assemblea del 1806 riguardavano proprio la funzione del rabbino:
7º Chi nomina i rabbini? 8° Quale giurisdizione di polizia esercitano i rabbini tra gli Ebrei? Quale polizia giudiziaria esercitano tra loro? 9° Queste forme di elezione, questa giurisdizione di polizia e giudiziaria sono volute dalle loro leggi, o sono soltanto consacrate dall’uso?[10].
Il fatto che poi questi tre quesiti fossero elusi in toto dalle decisioni dottrinali del Sinedrio, costituisce un ulteriore segnale che ci indica quanto delicato fosse il momento di passaggio fra Ancien régime e stato liberale (con annessa emancipazione); nessuna decisione, pur se minoritaria come quelle assunte dai rabbini del Sinedrio napoleonico che avevano giurisdizione sì e no sulle poche centinaia di migliaia di ebrei residenti in Europa occidentale e non avevano alcuna voce in capitolo sulle ampiamente maggioritarie masse ebraiche dell’Europa centro-orientale e dell’area nordafricana e mediorientale, poteva essere in realtà data alle stampe, poiché a nessuno in effetti erano chiare le risposte che si sarebbero potute formulare. Chi nomina i rabbini? Una domanda apparentemente formale e banale, ma per nulla scontata nella prassi. A seconda dei luoghi e delle circostanze, poteva essere un altro rabbino riconosciuto che – dopo aver allevato per anni un suo pupillo – decideva infine di concedergli motu proprio il titolo di chakhàm (letteralmente «saggio», massimo grado di rabbino, autorizzato a emettere sentenze come giudice secondo la Legge ebraica in un Tribunale rabbinico)[11]. Oppure la nomina poteva arrivare dai capi delle yeshivot (ve ne erano numerose, anche in Europa occidentale) che decidevano al termine di un ciclo di studi di nominare rabbini uno o più allievi. Il disordine era comunque la norma, tanto da indurre le stesse autorità pubbliche a premere per l’istituzione di seminari rabbinici sul modello dei seminari vescovili, con l’intento di realizzare una certa sistematicità e omologazione nel curriculum di studi di quello che veniva percepito come il nuovo «personale ecclesiastico» ebraico. L’interessamento del potere politico alla funzione del rabbino – già esplicito nella domanda posta all’assemblea del 1806 – era legato anche a comprendere (o definire) il ruolo che un rabbino, una volta divenuto tale, doveva assumere all’interno della comunità ebraica. Si trattava in definitiva di chiarire quali funzioni venissero attribuite dal le comunità al rabbino, se queste avessero valore di consuetudine o fossero legate a precisi dettami giuridici, e se infine queste norme venissero percepite dai componenti delle comunità ebraiche come vincolanti e quindi potenzialmente in contrasto con la legislazione civile.
La divisione amministrativa delle comunità ebraiche nei domini napoleonici sul modello francese, se ebbe vita relativamente breve nei territori esterni alla Francia stessa[12] fu tuttavia decisiva nel determinare un avvio effettivo di quei mutamenti di funzione che rapidamente trasformarono il ruolo del rabbinato. Il rabbino, considerato alla stregua di ufficiale di stato civile, aveva perso gran parte della sua indipendenza dovendo rispondere del proprio operato al Concistoro Centrale di Parigi, ed era costretto a ratificare pratiche non sempre conformi alla piena ortodossia ebraica come il riconoscimento della validità dei matrimoni civili, imposto dal terzo articolo delle decisioni dottrinali del Sinedrio. E il concistoro stesso diventava di fatto uno strumento di controllo statale sulla popolazione ebraica; a esso erano state delegate infatti funzioni amministrative come la redazione dei registri di stato civile, la supervisione alla coscrizione militare, l’azione per un deciso avviamento degli ebrei all’esercizio di arti e mestieri e alle professioni liberali[13].
Questa deriva, che accompagnava per via quasi naturale la parallela trasformazione dell’«ebreo» in «israelita»[14], non tardò a tradursi in mutamenti organizzativi profondi che finirono con lo stravolgere le funzioni, il ruolo e la considerazione del rabbino all’interno di una congregazione ebraica.
Un buon esempio ci viene dalla situazione italiana. Recependo a tutti gli effetti questo rinnovato modo di intendere sé stessi e la propria identità, i notabili delle comunità ebraiche italiane trasposero il nuovo status di cittadino di confessione israelitica (o mosaica come si usava anche dire) negli articoli dei regolamenti interni. In questi la figura del capo culto e dei suoi coadiutori venne ad assumere un ruolo del tutto ambiguo: secondario sul piano dell’effettiva influenza sulle decisioni politiche della comunità stessa, ma preminente quale unico organizzatore del culto sinagogale e dell’istruzione ebraica. Il rabbino, che nella maggior parte dei casi proveniva da famiglie di umile estrazione, dal suo ruolo di giudice, maestro e organizzatore culturale veniva di fatto retrocesso a quello di esecutore di norme minuziose relative al decoro del culto esterno e all’effettivo rispetto della Tradizione. La sua posizione era formalmente quella di un funzionario stipendiato, subordinato al potere delle direzioni delle singole comunità. Per fare un esempio della situazione di precarietà nella quale si trovavano a operare i rabbini italiani basterà ricordare l’ipotesi di riorganizzazione della Società israelitica di culto e beneficenza di Mantova, nella quale compariva un esplicito comma dell’articolo relativo alle funzioni dell’amministrazione, che prevedeva il provvedimento di «sospendere occorrendo il Rabbino maggiore, il Rabbino Coadjutore ed il Segretario»[15].
Situazioni simili, fossero o no dichiarate in maniera esplicita, erano presenti in tutte le comunità italiane e solo nei rarissimi casi in cui la personalità e le capacità politiche e organizzative, oltre che la statura intellettuale del rabbino, si imposero, questi riuscì a far valere le proprie ragioni per brevi periodi. È il caso di Lelio Cantoni, il primo laureato del collegio rabbinico di Padova, che dal 1834 fu rabbino maggiore delle università israelitiche del Piemonte. Di lui ci rimane un documento interessante che ci permette di comprendere il dibattito interno alle comunità in materia di riorganizzazione dei diversi ambiti di interesse delle comunità ebraiche. Si tratta del suo inattuato progetto noto come Nuovo ordinamento del Culto Israelitico nei regi Stati[16]. Cantoni si inseriva con questo scritto, che gli era stato espressamente commissionato dai capi dell’Università Israelitica di Torino su sollecitazione del governo, nel dibattito sulla riorganizzazione delle comunità piemontesi, che nel 1857 sfociò nella promulgazione della legge Rattazzi[17]. La sua ipotesi partiva da un presupposto chiaro: l’emancipazione era un fatto compiuto, gli ebrei erano cittadini come tutti gli altri, la libertà di culto era ormai una realtà sancita dallo Statuto. Su queste certezze si dovevano poggiare le nuove fondamenta di un’organizzazione centralizzata delle comunità, sul modello dei concistori francesi, che avrebbero dovuto regolamentare tutti gli aspetti della vita delle singole comunità, dalla tassazione alla beneficenza al sistema d’istruzione. Nel progetto si arrivava a chiedere esplicitamente – come già accadeva per i pastori valdesi – che lo stato provvedesse al mantenimento dei rabbini, trasformandoli in tal modo in funzionari statali, strappandoli dalla cronica dipendenza finanziaria e ponendoli in pratica sullo stesso piano dei dirigenti delle comunità. Erano però previste altre importanti innovazioni: in primis un precoce caso di proposta di suffragio universale, che avrebbe dovuto inevitabilmente soppiantare il diritto elettorale per censo. In secondo luogo l’istituzione di un sistema di istruzione ebraica elementare e superiore conformato sul modello del Regno Lombardo-Veneto, guardando alla creazione di un collegio rabbinico come alla migliore garanzia di controllo sull’effettiva preparazione del personale rabbinico. E, soprattutto, Cantoni esprimeva la sua propensione a dichiarare inamovibile, cioè non licenziabile, il rabbino di una comunità[18].
Questo progetto rimane il più esplicito tentativo ottocentesco italiano di strappare al potere delle famiglie di notabili locali la gestione delle singole comunità dando loro un’organizzazione più democratica.
Nella sostanza possiamo disegnare quattro ambiti operativi che venivano riservati all’azione del rabbino nella nuova èra: il culto, l’educazione, la rappresentanza e la custodia della Tradizione. Un cambiamento radicale, se solo si pensa al ruolo che questi ricopriva negli stessi territori in età medievale e moderna: veniva a cadere la funzione di giudice (oggetto – come si è visto – del sospettoso interesse di Napoleone); perdeva di peso la pratica di studio continuo e assiduo della Legge orale (Mishnà e Talmud, ma anche tutti i numerosissimi poseqìm[19] successivi) propedeutica all’emanazione di responsa continuamente richiesti da una micro-società come quella delle comunità ebraiche che tendeva a riconoscere validità e legittimità alla Legge ebraica nella regolamentazione dei rapporti civili fra correligionari; non trovava più alcun riscontro nella pratica la possibilità propria della funzione rabbinica tradizionale di scomunicare un ebreo, cioè di escluderlo per legge dall’appartenenza alla comunità[20].
Il culto, cioè la liturgia religiosa sinagogale che nelle nuove congregazioni ebraiche diventava sempre più il centro di tutta l’attività sociale, veniva affidata alle cure di un nuovo «coreografo». In precedenza, nei vecchi Baté Knésseth[21], al più veniva riservato al rabbino un posto d’onore particolare, e in alcuni momenti gli veniva richiesto di esercitare la sua prerogativa di predicatore, commentando a giovamento del pubblico i brani della lettura settimanale del Pentateuco. Ora, all’alba del secolo XIX, il rabbino veniva vestito di una severa tunica pastorale per lo più nera, fatta salva la ricorrenza del digiuno del Kippùr quando questa doveva essere bianca, colore del lutto nella tradizione ebraica. Il copricapo veniva esplicitamente dedicato alla funzione sinagogale, assumendo una forma squadrata poliedrica che sebbene si differenziasse molto dalla mitria vescovile, nei fatti la occhieggiava.
Ma oltre all’abbigliamento, il rabbino doveva vigilare affinché l’ordine e il decoro nella liturgia venissero rispettati. Ogni persona incaricata di recitare o cantare nelle varie fasi della «rappresentazione» doveva inserirsi al momento opportuno, seguire le melodie previste per la funzione senza saltare brani o permettersi variazioni, aggiunte o modifiche non lecite. Nel caso di sinagoghe riformate o comunque maggiormente disponibili ad accettare alcune delle innovazioni proposte dal «secolo», lo stesso rabbino doveva occuparsi di istruire i cantori del coro (uomini e donne), un elemento inedito che conferiva con il suo intervento nella funzione religiosa maggiore sontuosità e partecipazione al l’intera liturgia, specie se accompagnato dal suono dell’organo, anch’esso introdotto di recente in numerose sinagoghe europee. Occuparsi del culto, poi, significava in alcuni casi intervenire con l’autorità del Maestro riconosciuto per modificare o trasformare ritualità locali consolidate da secoli, ma non più adatte alla nuova situazione di fatto. Se nell’Ottocento, ad esempio, per via dei numeri esigui non avrà più senso tenere in piedi tre ritualità separate (ashkenaziti, sefarditi e italiani) in una comunità di poche centinaia di persone come Padova, sarà il rabbino a dover trovare una soluzione mediana per introdurre un’unica funzione nella grande sinagoga tedesca, seguendo una ritualità di stampo italiano, ma con inserti e melodie propri delle altre due tradizioni.
L’educazione[22] è il secondo ambito della vita di una comunità che viene delegato alla supervisione del rabbino. Anche in questo caso il mutamento è visibile e radicale, connesso direttamente al processo di progressiva integrazione degli ebrei nella società civile. La rottura è radicale perché è del tutto stravolta la funzione che l’educazione assume nell’ambito di una comunità ebraica. Nelle età precedenti l’epoca dell’emancipazione l’alfabetizzazione della gioventù aveva come scopo quello di fornire gli strumenti per poter seguire la lettura del formulario di preghiere e inquadrare la ritualità ebraica nel contesto della Tradizione, nel senso letterale del termine di passaggio di sapere da generazione a generazione. In quest’ottica erano perfettamente funzionali strutture come il chéder e la yeshivà. Con l’emancipazione[23], tutto il sistema educativo si faceva strumento dell’emancipazione stessa, e in questo contesto la figura del rabbino assumeva un ruolo centrale di coordinamento e guida. Era lui che doveva garantire la compatibilità fra dottrina ebraica e norme di convivenza civile, nell’ottica di una società borghese paternalistica che si sforzava di educare le giovani generazioni al rispetto e al timore verso Dio, la Patria e la Famiglia.
La questione della funzione di rappresentanza è un vero e proprio inedito nella lunga vicenda storica del rabbinato e del suo ruolo in una comunità ebraica[24]. Vanno tuttavia qui evidenziati alcuni nodi che contribuiscono a spiegare questo aspetto della trasformazione del rabbinato e del suo ruolo pubblico. In primo luogo bisogna ancora una volta sottolineare l’insussistenza del parallelo mentale (che nei più emerge in forma automatica e acritica) fra rabbino e prete nel ruolo di rappresentanza pubblica della comunità. Non sono rari, in Europa, i tentativi del rabbinato di istituire nuove e inedite forme di coordinamento; si possono elencare a questo proposito numerose conferenze organizzative intraprese da esponenti del rabbinato tedesco a metà Ottocento, fino a giungere alle più consistenti e politicamente rilevanti conferenze svolte negli Stati Uniti sul finire dello stesso secolo che determinarono lo strutturarsi definitivo delle nuove forme di ebraismo riformato in organizzazioni separate e autonome. Tuttavia questi tentativi non andarono nel la sostanza a modificare la collocazione funzionale del rabbino all’interno di una comunità (quale che fosse la sua tendenza fra le nuove correnti dell’ebraismo moderno): mai espressione di una gerarchia, il rabbino rimaneva legato alla sua funzione di sovrintendente al culto e all’istruzione ebraica in un’area geografica definita. In quest’ottica subentra il secondo aspetto problematico legato a un’ipotetica funzione di rappresentanza propria del rabbino in età contemporanea; una attenta analisi conduce infatti invariabilmente il ricercatore a constatare l’esistenza di una visibile «questione sociale» legata alla funzione rabbinica nella realtà occidentale contemporanea: la grande maggioranza dei rabbini era (e in parte è ancora oggi) di estrazione popolare. Le ragioni di questo dato di fatto hanno sicuramente a che fare con il paternalistico sistema di istruzione ebraica che – per lo meno ai livelli primari – è rimasto per lungo tempo legato anche a funzioni di assistenza e di beneficenza per le masse di bambini e giovani privi di sostentamento economico (situazione che accomunò le realtà dello shtetl russo e polacco e i quartieri popolari ebraici dell’Europa occidentale). Tuttavia, quali che fossero le ragioni di ciò, la conseguenza a livello di leadership e di rappresentanza delle comunità ebraiche non è stata di poco conto: le élite ebraiche, che per secoli avevano gestito la funzione di rappresentanza (sopportandone di buon grado il peso finanziario), per lungo tempo non accettarono di condividere tale ruolo con il rabbinato: se veniva riconosciuta ai rabbini la funzione di maestri e capi culto, doveva essere chiaro che il ruolo politico e amministrativo rimaneva saldamente nelle mani di oligarchie per nulla disposte ad aprirsi a nuovi modelli di rappresentanza democratica, che nella gran parte dei casi vennero accettati solo a fatica e in anni molto recenti.
A fronte di questa situazione, la società non ebraica a tutti i livelli non ha mai dimostrato di voler tentare di capire la peculiarità propria delle comunità ebraiche in tema di rappresentanza. Ne fa testimonianza – per fare un esempio storico concreto – la situazione della Venezia di metà secolo XIX, dove le stesse autorità cittadine proiettavano sulla Fraterna Israelitica di Culto e Beneficenza la loro immagine di comunità religiosa o di «parrocchia ebraica», rivolgendosi spesso e volentieri al rabbino maggiore quale autorità superiore dell’intera comunità. Scrive Sagredo in una sua nota del 1843:
Capo indiscusso della comunità israelitica è il Rabbino maggiore […]. Come Capo della Comunità custodisce i registri civili, corrisponde colle autorità, presiede alle funzioni sacre, alla educazione religiosa di piccoli e grandi[25].
Le cose erano assai diverse, e, tuttavia, come Sagredo, le stesse autorità cittadine dimostravano di non riuscire a comprendere la complessa realtà organizzativa e i precari equilibri interni che in definitiva fa cevano del rabbino stesso al più un’autorità religiosa e morale, che non solo non aveva alcuna funzione di dirigenza politica e amministrativa, ma che anzi era considerato formalmente un semplice impiegato stipendiato dalla comunità per sovrintendere al culto e all’istruzione[26].
La quarta funzione che il rabbino dell’età moderna ci sembra assumere, in difformità da quanto avveniva nelle epoche precedenti, è quella di «custode della Tradizione». Anche in questo caso non si tratta di un mutamento di poco conto. Nel momento in cui le comunità ebraiche si avviavano a un rapido processo di secolarizzazione e di integrazione nella moderna società borghese, la religiosità e la conseguente adesione personale dei singoli al complesso sistema di regole e precetti proprio della Tradizione ebraica si andavano progressivamente affievolendo. Nel contempo si faceva sempre più pressante la necessità di preservare le antiche tradizioni di una comunità visibilmente a rischio di dissoluzione anche (non solo) a causa delle dinamiche di assimilazione e integrazione. In questo contesto, il rabbino divenne sempre più la figura ideale al la quale delegare l’inedita funzione di custode delle antiche tradizioni, che la gran parte degli ebrei nella loro individualità accettavano di ri spettare solo in occasione di ben precisi passaggi della propria vita. Se, ancora una volta, prendiamo ad esempio il caso dell’ebraismo italiano (che tuttavia in questo contesto è emblematico di gran parte delle realtà ebraiche dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti a cavallo fra Otto e Novecento) è visibile il decadere rapido e apparentemente definitivo di gran parte delle pratiche religiose attive a livello individuale. In drastica diminuzione il consumo di carne kasher[27], le funzioni in sinagoga disertate durante l’intera settimana e con scarso afflusso anche nei sabati[28], la vita culturale e di studio ridotta ai minimi termini. Di fronte a comunità caratterizzate in generale da questa situazione di decadenza, prendeva sempre più visibilità la figura del cosiddetto «ebreo del Kippùr», cioè l’iscritto a una comunità ebraica che frequentava la sinagoga solo in occasione del digiuno penitenziale dello Yom Kippùr e che restava legato alla comunità stessa sostanzialmente per assicurarsi una sepoltura ebraica al cimitero. Al di là delle valutazioni di merito, è chiaro che a fronte di una simile situazione il ruolo del rabbino andava mutando. Se l’ebreo iscritto a una comunità tendeva a delegargli l’impropria funzione di custode delle antiche tradizioni, il rabbino che si trovava investito di questa inedita funzione era portato ad adattarsi, scoprendo d’altra parte di possedere in tale contesto un rinnovato potere, quello proprio di ogni casta sacerdotale[29]. In quanto custode della tradizione il rabbino si trovava così a poter decidere quali atti rispondevano ai requisiti minimi di ebraicità e quali no, giungendo a detenere un effettivo potere di inclusione/esclusione che sempre più va accentuandosi anche negli anni recenti[30].
4. Nuove prospettive ebraiche e nuovi percorsi formativi
Da qualunque parte la si voglia guardare, sia che l’iniziativa provenisse dall’autorità statale, sia che generasse da esigenze provenienti dal l’interno delle singole comunità ebraiche, è chiaro che con il consolidar si del processo di emancipazione civile e giuridica degli ebrei nel mondo europeo la scelta comune per assicurare un’istruzione alle nuove generazioni di rabbini fu quella dell’istituzione di seminari. Strutture del tutto inedite, improntate alle esigenze della nuova società liberale e al ruolo che le congregazioni ebraiche tendevano ad assumere in esse. Luoghi che nel medesimo tempo erano il prodotto della trasformazione funzionale del rabbinato e contribuivano essi stessi ad accelerare questo mutamento.
Il passaggio dall’istruzione religiosa secondo l’impostazione della clas sica yeshivà a quella organizzata secondo i mutevoli canoni del «seminario rabbinico» (ne vedremo subito alcuni esempi) è a tutti gli effetti l’esempio culturale più visibile e controverso dell’ingresso del mondo ebraico nella modernità. Nell’evidenziare questo dato di fatto non si stabilisce per questo una scala di valori né tanto meno un percorso di «evoluzione» da uno stadio più arretrato a uno più avanzato di organizzazione di studi. Chi scrive è convinto che ogni epoca produca strumenti culturali che rispondono alle esigenze specifiche della comunità che ne fa uso nel luogo e nel tempo dati, anche se è certo che chi propone un cambiamento anche radicale fra un prima e un dopo lo fa generalmente con intenti esplicitamente polemici nei confronti del modello che intende modificare. Fu questo, in effetti, l’atteggiamento assunto da alcuni dei principali protagonisti della Haskalà, il cosiddetto Illuminismo ebraico sviluppatosi nella seconda metà del Settecento, che insistettero proprio sulla necessità di mutare il sistema di istruzione (anche rabbinica, ma specificamente l’istruzione primaria) per agevolare il percorso di emancipazione e di integrazione degli ebrei nella società contemporanea.
I primi seminari rabbinici ortodossi fondati in Europa introducono principî di istruzione radicalmente innovativi rispetto al modello della yeshivà e vengono aspramente contestati dai capi delle medesime generando una situazione di tensione che, se fu forte e sentita soprattutto nel secolo XIX, ancora oggi non manca di generare visibili conseguenze, non ultima il fatto che in Israele non esista una struttura statale specificamente dedicata all’istruzione rabbinica.
Per introdurre lo spirito generale seguito dai fondatori e ispiratori delle nuove forme di istruzione rabbinica può essere utile seguire da vicino il pensiero di uno dei principali protagonisti della cultura ebraica italiana ottocentesca, Isacco Samuele Reggio[31] (1784-1855). Rabbino, matematico, filosofo, questo figlio dell’ebraismo ferrarese trapiantato a Gorizia, nel cuore della Mitteleuropa, rappresentò l’ideale figura di contatto e di passaggio delle idee illuministiche elaborate dai teorici tedeschi dell’Haskalà e rielaborate nelle forme di una complessiva riorganizzazione culturale dai pensatori della Scienza del giudaismo (Wissenschaft des Judentums). Reggio viene ricordato in particolare per la sua opera Ha-Torà veha-Philosophia (La Legge e la Filosofia), nella quale egli ribadiva in maniera sistematica i fondamenti teorici dell’Haskalà proponendo la necessità di integrare gli elementi principali della Legge e della Tradizione ebraica con concetti e criteri propri del pensiero filosofico e scientifico profano; a noi interessa soprattutto in qualità di autore – ancorché anonimo – di un breve pamphlet[32]riguardante la stesura di un programma per le materie di insegnamento nell’erigendo Collegio rabbinico di Padova (che sarebbe nato nel 1829) e la teorizzazione della nuova figura di rabbino nonché la costruzione di un suo ruolo rinnovato nel quadro di un ebraismo emancipato o in via di emancipazione. Il nuovo maestro del secolo XIX doveva essere istruito – secondo le indicazioni di Reggio – negli studi sia religiosi che filosofici, con una particolare attenzione nel fornire strumenti adatti all’interpretazione dei tempi nuovi e dei modi per affrontarli senza uscire dall’alveo della tradizione ebraica. Così, ad esempio, il Talmud doveva essere affrontato nella parte ritualistica attinente «ai nostri tempi»; e il giovane studente del collegio avrebbe dovuto essere educato nell’arte di fare il pastore d’anime, seguendo un corretto rigorismo religioso, ma «senz’affettazione». Di fondamentale importanza era considerata l’«omeletica», vale a dire la teoria e la pratica delle orazioni e delle prediche sacre. La capacità di tenere discorsi e comporre sermoni su argomenti storici o religiosi secondo canoni letterari molto precisi e codificati fu oggetto di intenso studio nel corso di tutto l’Ottocento. I giovani allievi dei seminari rabbinici si misuravano volontariamente in prove di oratoria sacra. Fu certamente questo uno degli elementi di base del mutamento del culto sinagogale nell’Ottocento. Lo scopo principale a cui venne legato l’uso di tenere regolari prediche in volgare va collegato strettamente al concetto di elevazione morale degli ebrei, a sua volta prodotto dall’idea di rigenerazione, che sottendeva il complesso progetto di emancipazione civile. Il ruolo di predicatore veniva comunque sempre e solo associato alla figura del rabbino, tanto che – per fare un esempio italiano – un importante docente del Collegio rabbinico di Padova come Samuel David Luzzatto – che pure scrisse diverse prediche – le faceva leggere a vari rabbini (a Padova dal suo allievo David Graziadio Viterbi), non essendo lui stesso rabbino[33]. Le proposte di Reggio per un programma di insegnamento comprendevano in generale lo studio della Tradizione scritta e orale nel suo complesso, integrata da rigorosi programmi di studio filologico della lingua ebraica (accompagnata da quella greca, caldaica, siriaca e samaritana) e da un’approfondita conoscenza della letteratura rituale e filosofica post-talmudica, dai trattati dogmatici medievali ai fondamenti della mistica cabbalistica. Le linee essenziali indicate dal Reggio furono in sostanza seguite dai redattori dei programmi di insegnamento per il Collegio rabbinico patavino, il rabbino di Venezia Elia Aron Lattes e quello di Mantova Alessandro Lustro Padovani[34].
Dal lato pratico, i docenti dei seminari rabbinici europei di nuova concezione[35] dovettero letteralmente inventarsi nuovi programmi e nuovi testi. L’introduzione nel curriculum di studi per la preparazione dei rabbini di nuova generazione di una complessa articolazione di materie, comportava nei fatti un netto distaccarsi dal tradizionale metodo seguito nelle yeshivot. Lo spirito che animava questo processo influì in maniera decisiva sull’impostazione dei programmi di studio che oggi dominano le maggiori istituzioni educative ebraiche; e non si pensi al mondo ultraortodosso, piuttosto marginale nei numeri anche se influente sul piano educativo con le sue numerose yeshivot operative in diverse parti del mondo. Se prendiamo ad esempio la scuola rabbinica della Yeshiva University – il Rabbi Isaac Elchanan Theological Seminary (riets)[36], che come recita il suo slogan è «the Western Hemisphere’s largest center for Orthodox higher Jewish learning» – è significativo notare che la sua rivista di alta formazione si intitoli «Torà u-maddà» (lett. «Legge ebraica e cultura secolare»), un vero e proprio slogan, peraltro coerente con i programmi di educazione seguiti, che esplicitamente si pongono in un’ottica di concorrenza nei confronti delle università secolari nelle quali vengono proposti alti corsi di arti liberali, business e scienze, e nei confronti delle stesse yeshivot tradizionali che incentrano la loro attività formativa prevalentemente nell’ambito della letteratura talmudica e rabbinica.
Dalle sue classi di studio vengono laureati rabbini ortodossi riconosciuti in tutto il mondo, sulla base di programmi fortemente influenzati dall’esperienza storica degli ultimi due secoli. Se certamente una parte importante del curriculum studiorum del riets è occupata dallo studio del Talmud, questo non può essere neppure affrontato senza aver prima dimostrato di possedere un’ottima conoscenza del testo biblico, prerequisito senza il quale non si viene neppure ammessi alla scuola rabbinica. Già questo fatto rappresenta un vero e proprio rovesciamento delle priorità rispetto alla yeshivà tradizionale, che faceva dello studio del Talmud la sua attività pressoché unica. Scriveva polemicamente a questo proposito Naftali Hertz Wessely (1725-1805), innovativo esponente della Haskalà:
Non ricordo di aver mai studiato la Bibbia e la Mishnà a scuola ma quando avevo cinque anni e potevo leggere l’ebraico mi spedirono a scuola e il rabbino iniziò a insegnarmi la Halakhà [precettistica] iniziando dal trattato Qiddushin della Ghemarà. Le cose continuarono così finché non raggiunsi i nove anni, quando potei leggere la Ghemarà da solo. Ma giuro che non ho mai saputo cosa fosse scritto nella Torà che per me – dalla Genesi al Deuteronomio – costituiva un tesoro nascosto[37].
Oggi, per laurearsi rabbino al riets di New York è obbligatorio conoscere bene la normativa ebraica nel suo svolgimento storico e nelle sue ricadute contemporanee (al momento, è esplicitamente richiesta la frequenza di due semestri dedicati al rapporto fra Legge ebraica e scienza/tecnologia); una speciale attenzione viene dedicata alla «professione rabbinica», che comprende – come nel caso citato del Collegio di Padova – materie quali la predicazione, la gestione dell’educazione di base e la gestione di un ambiente comunitario. Nessuno può aspirare al titolo rabbinico se non è in possesso di un titolo universitario a livello di Master, possibilmente in settori disciplinari considerati propedeutici al mestiere del rabbino quali psicologia, scienze sociali, gestione amministrativa.
Se confrontato con un programma di una yeshivà contemporanea balzano immediatamente agli occhi le differenze. La prima è strutturale: mentre un seminario rabbinico è dedicato espressamente alla formazione di professionisti che tendenzialmente andranno a servire come rabbini in una comunità, la yeshivà è in realtà un centro di studi dove si approfondisce la propria conoscenza della Tradizione ebraica. Anche in questo caso non si possono fare generalizzazioni: se compito di un pio ebreo sarebbe quello di dedicarsi comunque, almeno qualche ora al gior no, al cosiddetto Talmud Torà (studio della Legge), e la yeshivà è a tutti gli effetti il luogo deputato a tale scopo, nessuno si nasconde che oggi essa è considerata anche un centro di specializzazione per coloro che comunque intendono intraprendere la professione rabbinica.
La seconda, più profonda, differenza è relativa ai piani di studio. Abbandonata l’emarginazione dello studio del testo biblico che caratterizzava la yeshivà contro i cui programmi polemizzava Wessely a fine Settecento, un’istituzione di assoluta preminenza culturale e religiosa come la Yeshivath HaKotel di Gerusalemme non dedica particolare attenzione al rabbinato come mestiere (prediche, gestione dell’educazione ecc.). Il centro della sua azione educativa rimane lo studio della Ghemarà (cioè del Talmud) come nelle più tradizionali accademie rabbiniche dell’èra precedente. Tuttavia una particolare e per certi versi inedita cura è dedicata a quattro aree tematiche: il Tanakh (la Bibbia, che assume un ruolo preminente), il Pensiero ebraico, la Halakhà (Regole) e la Tradizione, che vengono affrontate in apposite sessioni pomeridiane con lezioni e approfondimenti considerati necessari e propedeutici proprio al buon esito dello studio stesso del Talmud. Non sembra, questa, una novità introdotta a caso: lo stesso «Programma educativo» pubblicato dall’istituto di Gerusalemme denuncia infatti l’esistenza di un problema che sembra riecheggiare le critiche del Wessely:
Purtroppo e sorprendentemente molti talmidim [studenti] non sono molto esperti con parti della Torà. Sovente essi sono ignari degli strumenti che occorrono per prendere il Tanakh in modo significativo[38].
L’articolazione del mondo ebraico sviluppatasi fra Ottocento e Novecento con la nascita e lo strutturarsi di comunità non legate alla tradizione ortodossa ha storicamente comportato lo sviluppo di istituti di istruzione rabbinica diversi nei metodi e nelle finalità. Anzi, si può affermare che proprio la fondazione di nuovi seminari rabbinici sia stata considerata come prima e definitiva azione politica di distacco dalla tradizione rabbinica ortodossa, un’iniziativa che comportava come conseguenza lo strutturarsi di nuove e diverse comunità ebraiche che, seppur fondate sul comune ceppo di fedeltà al credo monoteista e al patrimonio della letteratura tradizionale della Legge scritta e della Legge orale, si andava articolando in molteplici e differenti espressioni in materia di rituale liturgico, di rispetto della precettistica e – in definitiva – in differenti modi di intendere il ruolo dell’ebraismo nel mondo moderno[39].
Il Jewish Theological Seminary of America (jtsa) veniva fondato dal rabbino livornese Sabato Morais[40] e dal suo collega Pereira Mendes nel 1886 e diveniva il centro accademico, ma anche spirituale e organizzativo, dell’ebraismo cosiddetto conservative. Dal punto di vista sostanziale questa istituzione non si differenziava nei suoi presupposti dai tradizionali seminari rabbinici ottocenteschi europei, riconoscendosi pienamente nella tradizione ebraica e – soprattutto – riconoscendo uguale validità alla Legge scritta (Bibbia) e alla Legge orale (Mishnà e Talmud). Il jtsa si metteva maggiormente in contrasto con il movimento della Riforma ebraica, e poneva fortemente l’accento, nella costruzione dei curricula studiorum e nello strutturarsi di una «missione» d’istituto, sul divenire della presenza storica degli ebrei nella civiltà umana. Sul piano della formazione di una nuova classe rabbinica, il jtsa ha progressivamente ri disegnato i propri programmi educativi con l’obiettivo di formare soprattutto un corpo di insegnanti, individuando nella tradizionale funzione del Maestro quella in cui il rabbino moderno avrebbe dovuto esercitar si con maggior attenzione. Naturalmente, a differenziare questo istituto da quelli più tradizionali interveniva in generale una diversa disposizione nell’introdurre materie ritenute necessarie alla formazione di una guida spirituale nel mondo contemporaneo. Gli studi rabbinici veniva no quindi sempre associati a percorsi formativi universitari riguardanti altre discipline, e – soprattutto – nello studio dei testi della Tradizione ebraica veniva assunto come imprescindibile anche il metodo storico critico, introdotto in Europa all’inizio del secolo xix dai maestri della Wissenschaft des Judentums[41]. Questa propensione del jtsa e dell’ebraismo conservative a porre particolare cura a che la dimensione dell’ebreo «nella storia» conservasse una sua coerenza anche in presenza di importanti mutamenti politico-culturali ha condotto all’assunzione di decisioni a loro modo rivoluzionarie che hanno in alcuni casi stretta relazione con la funzione rabbinica. In particolare ha costituito un momento di svolta fondamentale l’apertura del corso di laurea rabbinica alle donne, avvenuta nel 1983. Un’apertura peraltro non inedita: già nel 1977 Sandy Eisenberg Sasso era stata ordinata «rabbina»[42] nel seminario del movimento Reconstructionist fondato dal docente del jtsa Mordechai Kaplan[43], e ancora prima, nel 1972, lo stesso passo era stato intrapreso dai vertici del seminario per la formazione dei rabbini del movimento riformato, lo Hebrew Union College[44]. Non si tratta – come si potrebbe credere – di realtà marginali. I seminari rabbinici non ortodossi hanno laureato nel corso degli anni migliaia di rabbini che hanno esercitato ed esercitano le loro funzioni di guide di comunità, come pure ruoli di leadership in organizzazioni ebraiche.
5. Un’antica istituzione religiosa di fronte alla modernità
Giungere a una definizione univoca di «rabbino» in epoca contemporanea è allo stesso tempo inutile e sbagliato. Inutile, perché ogni tentativo di racchiudere in una griglia formale l’insieme di funzioni sociali, formative, religiose, culturali che caricano la vita lavorativa di un rabbino oggi deve fare i conti con la variegata articolazione che caratterizza il mondo ebraico: ogni gruppo, a seconda della sua collocazione geografica, etnica o «ideologica» assegna alla figura del rabbino un ruolo e delle funzioni che sono nel contempo generali e peculiari del gruppo medesimo. Sbagliato, perché tentare di ridurre a forma univoca questa figura significa compiere una scelta illegittima sul piano metodologico: assegnare cioè valore di modello a uno solo dei numerosi modi di intendere l’ebraismo oggi significa escludere tutte le altre espressioni che a quella radice culturale e religiosa si richiamano.
Se abbiamo già fatto notare in precedenza come la figura del rabbino e il suo ruolo all’interno di una comunità ebraica siano state mutevoli nel tempo e nello spazio e non abbiano mai risposto a un modello precostituito presente in una inesistente definizione derivata dalle sacre scritture o dalla normativa prodotta in epoca post-biblica, il progressivo cammino del genere umano in direzione di una sempre maggior articolazione dei modelli sociali e culturali ha giocoforza allontanato anche i gruppi ebraici da una possibile definizione onnicomprensiva relativa al ruolo che il rabbino assume all’interno di una comunità. Prendiamo ad esempio i due elementi «classici» riconosciuti storicamente come funzioni essenziali, e cioè la figura del giudice e quella dell’educatore. Il rabbino esercita la sua funzione di giudice con potere coercitivo in presenza di un sistema giuridico universalmente riconosciuto: nello Stato d’Israele una corte rabbinica giudica sulla ammissibilità di un matrimonio o di una sepoltura ebraica, o di un divorzio[45]. La sua funzione giuridica si espleta in presenza di uno stato che gli assegna il potere di decidere in alcuni ambiti del diritto civile che veda come protagonisti ebrei che vengono riconosciuti come tali dalla stessa corte rabbinica ortodossa. Tuttavia la sua funzione viene a cadere, e la corte si dichiara incompetente, in presenza di ebrei non riconosciuti come tali dalla stessa corte (ad esempio riformati, liberal, conservative ecc.). Questo stato di fatto ha a che fare con un altro concetto dal quale non si può prescindere nell’affrontare la questione della funzione rabbinica oggi, e cioè la legittimazione reciproca dei diversi ebraismi contemporanei, che nei fatti pone dei limiti insormontabili alla funzione giuridica del rabbino. Forse che gli ebrei riformati o conservative[46] (circa l’80% dell’ebraismo americano) sono e si sentono meno ebrei per il fatto che un tribunale rabbinico israeliano non li considera tali?
La medesima questione si affaccia a proposito della funzione educativa. Un rabbino assume su di sé la responsabilità di trasmettere alla propria comunità il sapere acquisito con lo studio continuo e approfondito dei testi della Tradizione. Ma la sua funzione è e rimane forzatamente legata allo spazio della comunità nella quale opera, e raramente il suo insegnamento assume un valore universalmente riconosciuto. Anzi, più l’ambito è ristretto e più si carica di significato un’altra delle caratteristiche proprie del rabbinato «originario», e cioè la forza del carisma. È il caso dei numerosi gruppi figli del chassidismo dell’Europa orientale e trasferiti prima della Shoà negli Stati Uniti o in Israele, che assegnano per lunga e consolidata tradizione un ruolo carismatico alla loro guida spirituale, la quale tuttavia non gode dello stesso prestigio presso altri gruppi, che magari condividono la stessa matrice ortodossa. Per dire: è assai raro se non inesistente l’uso da parte di rabbini ortodossi di citare nelle loro lezioni le opinioni, le interpretazioni e i responsa del rebbe di Lubavitch Menachem Mendel Schneersohn (1902-94), mentre è praticamente impossibile che questi non venga citato (assieme al Tanya, il testo di riferimento del gruppo, composto nel secolo XVIII da Schneur Zalman di Liady) da un rabbino che in questo gruppo si riconosce, nel corso di lezioni e insegnamenti.
Siamo quindi di fronte a una funzione sociale estremamente mutevole, e ciò nondimeno questa mantiene una sua rilevanza pubblica sia nello stretto ambito di una comunità ebraica, sia più in generale in rapporto alla società in cui quella comunità è inserita. Se abbiamo detto del primo aspetto, molto resta da sondare in relazione al secondo. Il ragionamento, in questo caso, non può non spostarsi sulla funzione che le religioni assumono nella realtà contemporanea, e sul conseguente ruolo che viene richiesto ai presunti rappresentanti dei gruppi religiosi e quindi anche ai rabbini.
Il modello occidentale cristiano prevede la presenza di una gerarchia religiosa riconosciuta e tende a proiettare sugli altri gruppi religiosi il medesimo modello senza apparentemente comprendere che questo rappresenta una forzatura a vari livelli. Questo stato dei fatti è assai visibile nella sostanziale incomprensione che caratterizza l’atteggiamento della società civile (nella sua base, ma anche nella leadership politi ca) nei confronti dell’islam e della diffusione di moschee in Occidente. La difficoltà di identificare le funzioni degli imam e il loro grado di rappresentatività (non omologabile a quello dei parroci cattolici, ad esempio) genera equivoci e – alle volte – scontri che non mancano di produrre conseguenze anche spiacevoli sui modelli di convivenza civile. Un simile equivoco è diffuso anche in rapporto alle comunità ebraiche e alla funzione pubblica del rabbino. Vi sono alcuni ambiti nei quali la società occidentale (anche la più secolarizzata) prevede che la religione assuma un ruolo di garante e di guida, proprio perché il carisma del sacerdote (il prete, il pope, il rabbino, il pastore o l’imam) assume di per sé una funzione socialmente riconoscibile. Se questo è vero, cioè è vero che il potere (anche nelle società democratiche) si appoggia su figure carismatiche per governare e guidare la società civile e le sue scelte, specie in materia di etica e morale, è altresì vero che questo modello è prettamente cristiano e occidentale, vale a dire che richiede a figure pubbliche (nel caso degli ebrei, ai rabbini) di assumere su di sé un ruolo «sacerdotale» che è estraneo alla sua carica e alla funzione che esercita nell’ambito della sua comunità. Il rabbino, lo abbiamo detto, che sia ortodosso, riformato o quant’altro, non è un sacerdote, non ha alcuna funzione di mediazione con Dio e non è caricato di alcuna responsabilità rituale specifica. Tuttavia è anche vero che nel momento in cui la società non ebraica chiede alla figura del rabbino di rappresentare la propria comunità nelle vesti di sacerdote, per questo stesso fatto la sua funzione e il suo grado carismatico si accrescono, generando equivoci formali, ma anche modificando in maniera sostanziale il ruolo del rabbino[47]. Questi non è più formalmente solo giudice e maestro, ma diventa anche rappresentante pubblico e guida carismatica, scavalcando nella pratica tutte le regole democratiche. Questo nuovo e inedito ruolo si carica di un significato politico, ed è un portato del crescente peso che tutte le religioni stanno assumendo nella sfera pubblica in età contemporanea.
Questa nuova funzione si ritrova in numerosi ambiti. Ad esempio, in Italia esistono dei comitati pubblici di bioetica organizzati a livello locale e nazionale per «orientare gli strumenti legislativi ed amministrativi volti a definire i criteri da utilizzare nella pratica medica e biologica per tutelare i diritti umani ed evitare gli abusi»[48]. A livello locale la rappresentanza della comunità ebraica (dove ce n’è una) è delegata tacitamente al rabbino, così come è scontato che sia prevista la presenza di un sacerdote cattolico delegato dalla curia vescovile.
Un altro esempio: a far data almeno dalla prima guerra mondiale (in area tedesca anche prima) i principali eserciti occidentali prevedono la figura del rabbino militare, inquadrato esattamente secondo il modello dei cappellani militari cristiani e con analoghe funzioni di conforto religioso alla truppa[49].
Ma questi sono ancora esempi minimi, prodotto di distorsioni amministrative più che di programmatiche strategie politiche. Il mutamento radicale della figura del rabbino nella sfera pubblica si determina nel momento in cui lo stato si incarica di scegliere o nominare un rabbino «nazionale» assegnandogli – oltre a uno stipendio – un ruolo definito nel controllo (a nome e per conto dello stato) della comunità ebraica. È stato il caso di molti dei paesi del cosiddetto socialismo reale; ed è stato, in precedenza, il caso della Turchia ottomana che dal 1836 aveva istituito la figura del Chakhàm bashi (capo dei rabbini). È oggi il caso di Israele, che fra le sue istituzioni pubbliche prevede un rabbinato centrale cui è demandato il trattamento di gran parte della giurisprudenza civile nel rapporto fra cittadini ebrei. La funzione statale del rabbinato ha condotto alla creazione di una gerarchia di funzioni che nella prassi determina un mutamento radicale; quel che accade in Israele, in effetti, non può essere considerato marginale per il mondo ebraico. In Israele vive circa la metà degli ebrei del mondo, e se le funzioni del rabbino vengono regolamentate secondo una nuova organizzazione gerarchica diffusa e strutturata, è chiaro che questa novità avrà conseguenze di vario tipo anche sulle altre comunità ebraiche, demograficamente minoritarie. Nel caso di Israele le questioni sono varie e si sovrappongono: il rabbinato centrale è in effetti diviso per appartenenza «etnica», per cui esistono due rabbini capo, uno di tradizione sefardita e uno di tradizione ashkenazita. E a complicare le cose si aggiunge la difficoltà di rapporti fra il rabbinato centrale (che tende per dovere istituzionale ad allargare le proprie competenze ai più svariati campi, dal controllo della kashrùt[50] alla verifica dei bagni rituali e dell’erùv[51]) e i rabbini di singole congregazioni o i capi delle yeshivot che sopportano malamente o contestano apertamente l’idea di poter essere sottoposti al controllo di una gerarchia superiore. Viene così messa sostanzialmente in discussione la figura storicamente riconosciuta del cosiddetto Mara DeAtra (in aramaico «rabbino della città»), che costituì nei secoli la migliore garanzia di autonomia contro lo stabilirsi di gerarchie. Nel lungo periodo è sempre prevalsa l’idea che in ultima istanza un rabbino riconosciuto come tale da una comunità ebraica avesse giurisdizione sul territorio coperto dal la medesima e che l’ultima parola in materia giuridica ebraica che interessasse quell’area geografica spettava di diritto al rabbino del luogo. L’invadenza di nuove gerarchie (vedi il rabbinato ortodosso israeliano) o di gruppi che non considerano sufficientemente rappresentativo della pura ortodossia il Mara DeAtra di turno, ha portato numerosi mutamenti anche da questo punto di vista.
La questione assume anche rilevanza pubblica, proprio perché negli ultimi decenni è la figura stessa del rabbino ad assumere rilevanza in ambito civile, e non solo ebraico. Il 13 aprile 1986 papa Giovanni Paolo II compì in qualità di vescovo di Roma la storica visita alla sinagoga della città eterna. Un evento straordinario e dirompente, dal forte significato religioso, ma anche politico. I mesi che avevano preceduto questa visita erano stati caratterizzati da intense trattative, segnate dalla proiezione (da parte delle gerarchie ecclesiastiche) del proprio modello organizzativo e istituzionale sulla comunità ebraica romana. Il primo contatto riservato era infatti stato richiesto dal cardinale incaricato dei rapporti ecumenici proprio con il rabbino capo di Roma Elio Toaff: la proposta era di instaurare un rapporto fra vescovo e vescovo (rabbino), senza tener conto della totale incongruenza delle due istituzioni. Da una parte il papa, vescovo di Roma e capo di stato, al vertice della gerarchia della chiesa cattolica che è per definizione un’organizzazione universale. E dall’altra il rabbino di Roma, dipendente (alla stregua dell’impiegato dal punto di vista amministrativo) della comunità israelitica locale, senza alcun potere di rappresentanza politica, esponente di un rabbinato italiano formalmente ortodosso, ma costantemente posto sotto pressione dalle organizzazioni dell’ortodossia israeliana. A disinnescare questa apparente incompatibilità fra le due figure rappresentative pubbliche intervenne la particolare levatura del rabbino capo della comunità ebraica di Roma. Elio Toaff godeva di una indiscussa caratura carismatica e solo le sue capacità politico-diplomatiche vennero a capo di una situazione imbarazzante: egli stesso coinvolse da subito i vertici politici della comunità ebraica di Roma e dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, e allo stesso tempo – percependo il valore universale dell’evento che si appresta ad accogliere – coinvolse con un giro di consultazioni le principali autorità rabbiniche ortodosse perché esprimessero un loro parere in proposito. Il principio del Mara DeAtra ne avrà forse risentito, ma certamente la strategia politica seguita in quell’occasione dal grande rabbino livornese interpretava in maniera moderna e coerente le nuove pulsioni «gerarchiche» che nel mondo moderno stanno progressivamente trasformando funzioni e ruoli del rabbinato.
R. Bonfil, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Sansoni, Firenze 1991. M. Del Bianco Cotrozzi, Il collegio rabbinico di Padova. Un’istituzione religiosa del l’ebraismo sulla via dell’emancipazione, Olschki, Firenze 1995.
«Rabbi», in Jewish Enciclopedia ed Enciclopedia Judaica, sub voce.
Rabbini e maestri nell’ebraismo italiano, in «Zakhor», VIII (2005).
S. Schwarzfuchs, Napoleon, the Jews and the Sanhedrin, Routledge and Kegan Paul, London 1979.
[1] S.N. Eisenstadt, Jewish civilization, State University of New York, Albany (trad. it. Civiltà ebraica, Donzelli, Roma 1993).
[2] Cfr. «Rabbi», in Jewish Enciclopedia ed Enciclopedia Judaica, sub voce.
[3] Sul ruolo e le funzioni del rabbinato nell’Italia moderna cfr. R. Bonfil, Gli ebrei in Italia nel l’epoca del Rinascimento, Sansoni, Firenze 1991; D. B. Ruderman (a cura di), Preachers of the Italian Ghetto, University of California Press, Berkeley 1992; U. Fortis, Vita di Jehuda: autobiografia di Leon Modena, rabbino veneziano del 17. secolo, Zamorani, Torino 2000; Rabbini e maestri nell’ebraismo italiano, in «Zakhor», VIII (2005).
[4] Letteralmente «seduta», la yeshivà (pl. yeshivot) è generalmente tradotta come «accademia rabbinica».
[5] Cfr. T. Preschel, R. Jacob Pollack’s Aliya to Jerusalem, in SH. Israeli, N. Lamm e Y. Raphael (a cura di), Jubilee Volume in Honor of Our Teacher Rabbi Joseph B. Soloveitchik (in ebraico), Mosad Harav Kook, Jerusalem 1984, vol. II, pp. 1124-29.
[6] Cfr. F. Parente, La Chiesa e il Talmud, in Storia d’Italia. Annali, XI/1. Gli ebrei in Italia. Dall’Alto Medioevo all’età dei ghetti, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1997.
[7] Cfr. G. Scholem, Sabbetay Sevi, Princeton University Press, Princeton N.J. 1973 (trad. it. Einaudi, Torino 2001); id., Die jüdische Mystik in ihren Hauptströmungen, Metzner, Frankfurt am Main 1957 (trad. it. Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993).
[8] Per uno sguardo generale cfr. G. Luzzatto Voghera, Cultura e religione nell’ebraismo della diaspora, in P. Reinach (a cura di), La cultura ebraica, Einaudi, Torino 2000, pp. 382-412.
[9] Per un esauriente panorama bibliografico e nuove importanti suggestioni interpretative sul l’Assemblea e sul Sinedrio si veda il saggio di Francesca Sofia, Il tema del confronto e dell’inclusione. Il Sinedrio napoleonico, in questo volume alle pp. 103-24. Cfr. anche s. schwarzfuchs, Napoleon, the Jews and the Sanhedrin, Routledge and Kegan Paul, London 1979.
[10] Ibid.; cfr. anche D. Tama, Raccolta degli atti dell’assemblea degli Israeliti di Francia e del regno d’Italia […] seguita dai processi verbali e decisioni del Gran Sinedrio, s.e., Milano 1807.
[11] Per una interessante descrizione «dal vivo» delle procedure di investitura rabbinica nel Pie monte dei primi dell’Ottocento si veda M. Momigliano, Autobiografia di un Rabbino italiano, a cura di A. Cavaglion, Sellerio, Palermo 1986.
[12] Per la situazione italiana si veda S. Schwarzfuchs, Les communautés italiennes et le Concistoire Centrale (1808-1815), in «Michael», I (1972), pp. 109-62.
[13] Cfr. G. Laras, Le Grand Sanhédrin de 1807 et ses conséquences en Italie: organisation des consistoires et réactions des communautés, in Le Grand Sanhédrin de Napoléon, Les Belles Lettres, Paris 1979, pp. 101-18; S. J. Sierra, Aspetti dell’opinione pubblica ebraica in Italia sul Sinedrio napoleonico, in E. M. Artom, L. Caro e S. J. Sierra (a cura di), Miscellanea di studi in memoria di Dario Disegni, Istituto di studi ebraici, Scuola rabbinica S. H. Margulies-D. Disegni, Torino 1969, pp. 239-54.
[14] Cfr. G. Luzzatto Voghera, L’Israélitisme en Italie aux xixeet xxesiècles, in P. Cabanel e Ch. Bordes-Benayoun, Un modèle d’intégration. Juifs et israélites en France et en Europe XIXe–XXesiècles, Berg International, Paris 2004, pp. 197-208.
[15] Cfr. Piano generale della società israelitica di culto e beneficenza in Mantova, Tip. Mondovì, Mantova 1868, art. 12/g.
[16] Tip. G. Cassone, Torino 1848.
[17] Si tratta della legge di «riforma degli ordinamenti economici e amministrativi delle università israelitiche» emanata il 4 luglio 1857 per le comunità ebraiche del regno sabaudo ed estesa nel 1959 alle comunità di Emilia e Marche e di Parma e Modena. Cfr. M. F. Maternini Zotta, L’ente comunitario ebraico. La legislazione negli ultimi due secoli, Giuffrè, Milano 1983.
[18] Idee analoghe vennero espresse da Lelio Cantoni in un intervento più tardo, un’elaborata «memoria» indirizzata nel 1854 a Rattazzi e Cavour, riportata in S. Foa, Un manoscritto sconosciuto del Rabbino Lelio Cantoni sul regolamento delle comunità nello Stato di Sardegna, in «La Rassegna mensile di Israel», XXVIII (marzo-aprile 1962), nn. 3-4, Volume in memoria di Federico Luzzatto, pp. 92-104.
[19] Commentatori i cui rilievi vengono assunti come validi nel precisare una norma rituale.
[20] Cfr. R. Bonfil, Gli ebrei in Italia cit., p. 123; per una discussione a proposito della scomunica si veda anche M. Mendelssohn, Jerusalem (1783), ed. it. Guida, Napoli 1990.
[21] Sinagoghe, letteralmente «case di riunione».
[22] Cfr. il mio saggio su I catechismi ebraici fra Sette e Ottocento, in questo volume alle pp. 456-82.
[23] Per una raccolta di significativi documenti relativi all’emancipazione cfr. P. R. Mendes-Flohr e J Reinharz (a cura di), The Jew in the Modern World. A Documentary History, Oxford University Press, New York – Oxford 1980.
[24] Su questo bisognerebbe aprire un capitolo a parte, incentrato sulla visibilità pubblica che negli ultimi anni alcune figure di rabbini hanno assunto anche dal punto di vista mediatico; una trattazione che esula dal presente saggio.
[25] A. Sagredo, Notizie sugli ammiglioramenti di Venezia, in «Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio», ottobre-novembre-dicembre 1843, pp. 21-29.
[26] G. Luzzatto Voghera, Gli ebrei, in M. Isnenghi e S. J. Woolf (a cura di), Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2002, pp. 619-48.
[27] Carne proveniente da animali permessi macellati secondo le regole della tradizione ebraica. All’inizio degli anni Sessanta del Novecento a Roma (città che contava oltre 10 000 ebrei) esisteva un solo macellaio kasher. Oggi se ne conta circa una decina, anche grazie all’immigrazione dopo il 1967 di migliaia di ebrei libici, fortemente legati a un tradizionale rispetto delle regole ebraiche.
[28] In alcune comunità questo calo di presenze era così visibile che per qualche tempo si istituì perfino la particolare figura dei cosiddetti «minianisti», maschi adulti remunerati per presenziare a funzioni che – secondo la ritualità – prevedevano la presenza di almeno dieci maschi adulti (il miniàn).
[29] Per il concetto di «casta» in rapporto al rabbinato sono debitore del professor Roberto Bonfil che ha introdotto il tema in una conferenza inedita presso la Sinagoga di Padova (3 giugno 2007).
[30] Si pensi alla questione sociale decisiva dei matrimoni misti e dell’inclusione/esclusione dei figli di queste unioni nelle comunità ebraiche. Cfr. M. D. Angel, Choosing to Be Jewish: The Orthodox Road to Conversion, Ktav, New York 2005; L. J. Epstein, Conversion to Judaism: a Guidebook, Jason Aronson, Northvale N.J. 1994.
[31] Cfr. D. Malkiel, New Light on the Career of Isaac Samuel Reggio, in B. D. Cooperman e B. Garvin (a cura di), The Jews in Italy: Memory and Identity, University Press of Maryland, Bethesda 2000, pp. 276-303.
[32] [I. S. Reggio], Riflessioni d’un israelita del regno illirico sopra un articolo del Decreto di S.M.I.R.A. in data 4 febbrajo 1820, Gio. Parolari tip., Venezia 1822.
[33] A differenza del resto dell’Europa la pratica oratoria in volgare trovava in Italia una tradizione già ben radicata. Cfr. L. Della Torre, In qual lingua si predicò in Italia nei tempi passati, in «Corriere Israelitico», I (1862-63), pp. 94-98; R. Bonfil, Una predica in volgare di Rabbi Mordekhai Dato (in ebraico), in «Italia», I (1976), n. 1, pp. i-xxxii.
[34] Cfr. Regolamento per l’istituto Convitto Rabbinico in Padova, F. Andreola Tip. Editore, Venezia 1827, e per numerose altre notizie sui programmi del collegio M. Del Bianco Cotrozzi, Il collegio rabbinico di Padova. Un’istituzione religiosa dell’ebraismo sulla via dell’emancipazione, Olschki, Firenze 1995.
[35] I principali furono i seguenti: Istituto convitto rabbinico a Padova, 1829; École centrale rabbinique a Metz, 1830; Jüdisches-Theologisches Seminar, Breslau 1854; Jews’ College, Londra 1855; Hochschule für die Wissenschaft des Judentums, Berlino 1872; Rabbiner Seminar für das Orthodoxe Judentum, Berlino 1873.
[36] Fondato nel 1896, è il principale istituto ortodosso di formazione rabbinica degli Stati Uniti. http://www.riets.edu/
[37] N. H. Wessely, citato in R. Mahler, A History of Modern Jewry, 1780-1815, Schocken Books, New York 1971, p. 148.
[38] Cfr. http://www.hakotel.org.il/index.php
[39] Rimando al mio saggio su La riforma ebraica e le sue articolazioni fra Otto e Novecento, in questo volume alle pp. 125-44, la trattazione nello specifico delle differenti realtà.
[40] Sulla figura di Sabato Morais, interessante e misconosciuta in Italia, cfr. A. Kiron, Golden ages, promised lands: The Victorian rabbinic humanism of Sabato Morais, Ph.D. Dissertation, Columbia University, New York 1999.
[41] Cfr. D. N. Myers e D. B. Ruderman (a cura di), The Jewish Past Revisited: Reflections on Modern Jewish Historians, introduzione di D. N. Myers, Yale University Press, New Haven Conn. 1998; E. Carlebach, J. M. Efron e D. N. Myers (a cura di), Jewish History and Jewish Memory: Essays in Honor of Yosef Hayim Yerushalmi, University Press of New England, Hanover N.H. 1998.
[42] Il termine non esiste in italiano come genere al femminile, proprio perché rappresenta una novità, peraltro rigettata dal mondo ortodosso. Sulla questione dell’ordinazione rabbinica femminile cfr. R. Gordis, The Ordination of Women. A History of the Question, in «Judaism», n. 129 (1984), pp. 6-12, e l’intero numero della rivista; R. Di Segni, La donna rabbino, in S. J. Sierra e E. L. Artom, Scritti sull’ebraismo in memoria di Emanuele Menachem Artom, Dror/Sinai, Jerusalem 1996.
[43] Si veda http://www.rrc.edu/site/c.iqLPIWOEKrF/b.1453735/k.90AF/RRC_Home_ Page.htm
[44] Fondato a Cincinnati nel 1875, cfr. http://huc.edu/about/history.shtml
[45] Cfr. M. A. Rabello, Introduzione al Diritto Ebraico. Fonti, Matrimonio e Divorzio, Bioetica, Giappichelli, Torino 2002.
[46] Anche gli ebrei italiani. Dopo la nascita dello Stato d’Israele sono stati numerosi i casi di ebrei italiani emigrati che hanno dovuto sottoporsi a una conversione formale poiché la legittimità dell’ortodossia del rabbinato italiano era messa in discussione dal rabbinato ortodosso israeliano.
[47] Sul concetto di carisma cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen 1922 (trad. it. Economia e Società, Edizioni di Comunità, Torino 1999).
[48] Istituito a livello nazionale con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 28 marzo 1990.
[49] Cfr. M. Toscano, Religione, patriottismo, sionismo: il rabbinato militare nell’Italia della Grande Guerra (1915-1918), in «Zakhor», VIII (2005).
[50] Purezza rituale dei cibi.
[51] L’erùv è una procedura rituale che permette di spostare gli oggetti all’interno di un’area delimitata durante il riposo del Sabato.