Senza sciorinare verità, ma sollevando dubbi, il regista / attore e David Mamet sferrano un raffinato attacco al politicamente corretto e al circo mediatico-giudiziario che lo alimenta
Non si può capire davvero The Penitent – A Rational Man, né l’accoglienza tiepida riservatagli alla Mostra del Cinema di Venezia dalla stampa e a ruota dal pubblico, se non si conosce il personaggio Luca Barbareschi. Egli non è soltanto (si fa per dire) il regista, l’interprete e il produttore di questo film, tratto da una piece del suo amico David Mamet, già premio Pulitzer e premio Oscar.
Ne è soprattutto l’anima: tutte le sue convinzioni e i suoi dubbi su temi intellettuali, morali e religiosi, sembrano sintetizzarsi nella figura del protagonista e nelle vicende che gli capita di vivere.Nel presentare The Penitent – A Rational Man, in conferenza stampa, ha affermato: “So di stare sulle palle. Sono cinquant’anni che m’interrogo sul perché“. La seconda parte della frase è una bugia: il perché lo conosce benissimo, fin dalla prima ora.
Al netto di un carattere aspro, smussatosi in parte con gli anni, Luca Barbareschi è detestato da tanti colleghi per una ragione molto semplice: essere riuscito, unico o quasi fra loro, a conciliare una piena appartenenza all’ambiente dello spettacolo con il lusso di dire quel che pensa. Lusso tanto maggiore quando, come nel suo caso, la si pensa costantemente in maniera diversa dal gregge.
Mantenere la schiena dritta non significa per forza morire di fame, né mangiare vuol dire averla piegata. Che anche lui abbia le mani in pasta in quella fucina di clientele che è il sistema culturale italiano, non lo dubitiamo: diversamente non avrebbe da tempo una proficua collaborazione con la Rai, principale industria di spettacolo di Stato, né verrebbero invitati due suoi film alla Mostra di Venezia (oltre a questo, The Palace di Roman Polanski, dove è produttore e interpreta una particina).
Ciò non toglie il coraggio con cui da anni attacca quelle tesi e difende quei personaggi che il sistema ha bollato, rispettivamente, come inattaccabili e indifendibili. The Penitent – A Rational Man, tanto per fare un esempio, ha voluto dedicarlo a Jordan Peterson, psicologo preso di mira per le sue critiche all’ideologia queer.
Chi per queste posizioni contesta Barbareschi vorrebbe, sotto sotto, togliersi la soddisfazione di fare altrettanto. Se non riesce è perché non ne ha la medesima cultura e libertà di pensiero: merce rara, e fastidiosa, in un contesto dove dall’uomo di spettacolo si pretendono il conformismo e la diffusione di principi morali anziché di valori artistici.
È del tutto scontato che un personaggio con queste caratteristiche avverta la censura e il politicamente corretto come il grande male dei nostri tempi. Da questa sensibilità è scaturito il desiderio di portare in scena il testo di David Mamet, prima a teatro, nel 2017, e ora al cinema. La vicenda trae ispirazione da un fatto vero avvenuto in America a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, il ‘caso Tarasoff’. Una sentenza della Corte Suprema stabilì che un medico ha il dovere di salvaguardare l’incolumità di terzi da azioni di un suo paziente, anche a costo di violare il segreto professionale.
Da questo spunto di cronaca nasce, per poi distribuirsi lungo altri rivoli, la storia del Professor Carlos David Hirsch, psichiatra ebreo di New York. Un suo paziente uccide otto persone, ma essendo gay e immigrato una larga parte della stampa assume nei suoi confronti una posizione giustificatoria, scaricando le colpe sul medico. Un giornale riferisce erroneamente che in un suo libro ha definito l’omosessualità come “un’aberrazione”, quando invece aveva scritto “un adattamento”.
È sufficiente questo perché la campagna stampa contro di lui diventi feroce, senza che nessuno si prenda la briga di verificare l’affermazione. L’avvocato gli suggerisce di scusarsi e testimoniare a favore del paziente; lui si rifiuta di scusarsi per colpe che non ha e non intende testimoniare, pur avendolo fatto in passato per casi simili. In parte per non violare il segreto professionale dei colloqui col paziente. Ma anche, come si scoprirà durante il lungo e bellissimo confronto con l’avvocato della difesa, per motivazioni religiose. Nel frattempo la sua reputazione è distrutta e il suo matrimonio va a rotoli.
La trama, pur intrigante, non può comunque restituire la complessità e la profondità di The Penitent – A Rational Man. Il merito va ascritto in prima battuta alla sceneggiatura di David Mamet.
I dialoghi sono strepitosi per sagacia, ottenendo spesso quell’effetto che i latini sintetizzavano col motto “castigat ridendo mores”. “Non compri i giornali? Li compro, ma non li leggo”. “Nel processo ogni parte porta in aula le sue puttane, poi la giuria fa vincere quelle col vestito migliore”.
Due esempi di battute indirizzate verso i bersagli del film: la stampa e la macchina giudiziaria. Pronte entrambe a muoversi per ragioni ideologiche, dimenticando i nobili scopi per cui sono nate. Luca Barbareschi ha voluto realizzare il film in inglese perché sostiene che questa sia una storia tipicamente americana, ritenendo che l’Italia stia ancora resistendo alla deriva del politicamente corretto.
Di certo la cultura woke ha trovato nel mondo anglosassone, in particolare nei campus universitari, la sua culla e il suo baluardo. Ma l’Italia, provinciale e incline all’emulazione com’e diventata, non resiste perché abbia deciso, forte di secoli di cultura occidentale, di erigere barricate. Resiste solo per sterilità: perché a nessuna rivoluzione, in questo caso per fortuna, consente di attecchire.
È un bene allora che un film come questo possa sbarcare sul mercato statunitense, cioè là dove maggiormente può colpire nel segno. Bisogna augurarsi che la scelta di Barbareschi come interprete principale non lo penalizzi troppo al botteghino estero. I panni del protagonista non li aveva in realtà destinati a sé stesso, ma all’ultimo l’attore americano designato – chi fosse non è dato sapere – ha preteso un cachet fuori dalle possibilità della produzione di Eliseo Entertainment e Rai Cinema, già onerati dell’ingaggio di altri tre attori d’oltreoceano (la moglie, l’avvocato e l’avvocato della difesa).
È stato David Mamet a quel punto a proporre al suo amico Luca d’interpretare lo psichiatra. Ottenuto anche il parere positivo di Roman Polanski, Barbareschi si è cimentato nell’impresa d’imparare 160 pagine di copione in inglese, realizzando così la performance più impegnativa di tutta la carriera. Questa decisione casuale si è rivelata però felice perché il personaggio potesse brillare per la sua credibilità.
Per quanto il cinema sia sempre un artificio, sarebbe parso troppo posticcio udire da un qualunque attore americano, ad eccezione forse del solo Clint Eastwood, un monologo come quello in cui il Professore attacca le università che allevano generazioni d’ignoranti o la furia censoria che pretende di riscrivere, secondo canoni moderni, la letteratura classica e il cinema di un secolo fa (“col computer toglieranno le sigarette dai film di Bogart e la gente penserà: “Perché quell’imbecille tiene le dita larghe?”).
Barbareschi, invece, condivide in pieno i tormenti e le battute del personaggio immaginario, ottenendo quasi l’effetto di rendere indecifrabile allo spettatore se a parlare sia lui stesso o il Professor Hirsch. Al quale, quasi per alimentare questo gioco di sovrapposizioni, ha assegnato il cognome della propria madre. Ma la storia diventa ancor più personale, e ancor più complessa, quando entra in scena l’elemento religioso.
Proprio come Luca Barbareschi, anche il medico è ebreo: all’inizio di The Penitent – A Rational Man si precisa che si sta dedicando molto, con l’aiuto di un rabbino, allo studio della Torah. Da qui nasce il suo carattere razionale, espresso nel sottotitolo: dalla necessità di trovare la propria sintesi tra le due scuole di pensiero ebraiche, quelle fondate dai teologi Shammai e Hillel, costantemente in antitesi su ogni dibattito dottrinale.
Una sorta di personale terza via che ogni ebreo è destinato a rinvenire per raggiungere le risposte che cerca. Ben sapendo che la risposta migliore che potrà trovare è il dubbio, come si coglie da quel precetto che impone di rispondere a una domanda intelligente con un’altra domanda, per evitare di offendere, con una risposta banale, l’intelligenza dell’interlocutore.
Il genio di David Mamet è così raffinato da trarre proprio in questo pensiero tanto lucido e sofisticato la forza per metterlo in discussione. Anch’egli impone allo spettatore di cercare la propria terza via, rinunciando alla facile scelta di fare del medico un martire per connotarlo di un proprio fanatismo religioso, che si contrappone a quello scagliatogli addosso dal circo mediatico-giudiziario.
Non è affatto un film perfetto: soffre di una staticità teatrale a volte eccessiva, dovuta alla ripetitività dello schema del dialogo a due tra il Professor Hirsch e, alternati tra loro, la moglie, il proprio avvocato e l’avvocato dell’assassino.
Inoltre, il finale di The Penitent – A Rational Man appare un po’ frettoloso e non perfettamente riconducibile alla lunga premessa. Dettagli tecnici la cui importanza sarebbe però avvilente far prevalere sull’intelligenza di un’opera che scava nelle pieghe del pensiero come fosse letteratura.
A proposito: a chi non ha mai letto un libro in vita sua, così come a chi al cinema vuole andare solo per svagarsi, se ne sconsiglia vivamente la visione.