Rav Riccardo Di Segni
Teoricamente la situazione potrebbe essere tranquilla; la macellazione rituale secondo il rito ebraico è esplicitamente consentita dalle intese dello Stato con le comunità ebraiche e nell’attuale legislazione europea c’è una deroga speciale. In realtà c’è una continua pressione in Italia e in Europa contro la pratica della shechità.
Diversi fattori concordano ad alimentare questa pressione. In primo luogo le tesi degli animalisti, che vengono sostenute e portate avanti politicamente dai Verdi o da altre fasce della sinistra.
L’idea diffusa, come una sorta di dogma, è che la macellazione rituale sia una pratica barbara e punitiva che infligge agli animali sofferenze che possono essere benissimo evitate con altri metodi di uccisione o con procedure preliminari di “stordimento”.
La difesa dei diritti degli animali raccoglie sempre maggiori consensi nell’opinione pubblica, costituita in maggioranza da popolazione urbanizzata, ormai lontana dalla cultura contadina e dal rapporto con gli animali. Gli animali che si mangiano oggi si trovano solo in macelleria e nessuno si deve curare di come sono vissuti e soprattutto di come sono morti.
Negli ultimi anni in Italia anche nella popolazione rurale i pochi contatti diretti con la macellazione si sono ulteriormente ridotti per motivi di igiene pubblico. Fino a poco tempo fa molte famiglie allevavano in campagna il maiale o altri animali domestici, se li macellavano in casa e se li preparavano per il consumo privato. Oggi è proibito rigorosamente macellare in sedi private e ciò si ripercuote inevitabilmente in un distacco dal problema e in un cambio di mentalità, che contribuisce alla crescita di un dissenso contro forme diverse e non meccanizzate di macellazione.
L’altro grande versante di opposizione alla macellazione rituale nasce come reazione alla presenza dell’Islam nella società, che viene vissuta con diversi livelli di tolleranza. L’ostentazione delle pratiche religiose, come le macellazioni domestiche persino sui balconi delle case durante la “festa del sacrificio”, ha dato l’esca a reazioni anche violente. In questo caso il limite tra lo scandalo per una pratica religiosa traumatica per chi l’osserva e ostentata in modo disinvolto e la volontà di colpire radicalmente nelle sue tradizioni un corpo avvertito come estraneo è difficilmente definibile.
In ogni caso sono alcune forze politiche della destra (Lega e alcuni rappresentanti di AN) che portano avanti questa battaglia nella quale, tanto meno per mantenere l’equidistanza, viene coinvolta anche la parte ebraica.
Indubbiamente la moltiplicazione della presenza islamica ha fatto da cassa di risonanza a un problema che finché riguardava solo gli ebrei poteva anche passare sotto silenzio.
Non che fosse stato ignorato in passato: da molti decenni la shechità era stata proibita in Svizzera, poi è venuta la Svezia, e questo senza l’effetto islamico.
Ogni paese europeo oggi può diventare proibizionista, per una serie di coincidenze politiche; così come potrebbe diventarlo l’Unione Europea. Per questo la vigilanza delle istituzioni ebraiche non deve mai venire meno. Davanti a questa realtà si configura una nuova situazione politica paradossale: ebrei e islamici sono costretti dalle circostanze ad allearsi contro un nemico comune, e questo accade mentre altri motivi (il conflitto arabo israeliano) di solito costringono le due parti su fronti opposti. Almeno, si potrebbe dire, non tutto il male viene per nuocere!
Fortunatamente non ci sono solo attacchi, ma anche riflessioni attente e non pregiudiziali. E’ quanto per esempio è successo in Italia dove un’istituzione autorevole, il Comitato Nazionale per la Bioetica, ha prodotto, dopo lunghi studi e audizioni, un documento, approvato in seduta plenaria il 19 settembre 2003, su “Macellazioni Rituali e Sofferenza Animale”. Le decisioni del Comitato hanno – o dovrebbero avere – un peso notevole nella guida alle decisioni che le autorità legislative ed esecutive dovranno prendere sulla materia. Il Comitato nella sua valutazione ha pesato i due diversi elementi in gioco: la libertà religiosa e la sofferenza animale. Partendo dalla presunzione, non data per scontata, che i metodi di macellazione rituale potrebbero comportare, rispetto allo stordimento, un piccolo incremento di sofferenza, ha ritenuto che questa piccola eventuale sofferenza possa ritenersi “bioeticamente ammissibile ove sia accompagnata da tutte quelle pratiche non conflittuali con la ritualità stessa della macellazione che minimizzino la sofferenza animale”; di qui l’auspicio a sviluppare “la ricerca sulla possibilità di ricorrere a forme di stordimento che siano accettabili in base alle norme religiose”; e la dichiarazione di inammissibilità di “macellazioni rituali spontanee e incontrollate, eseguite al di fuori di macelli appositamente autorizzati”.
(Il testo del documento si trova su internet all’indirizzo www.olir.it/areetematiche/42/index.php ).
La tradizione religiosa ebraica è crudele con gli animali?
E’ veramente paradossale che l’ebraismo si trovi sul banco degli imputati sotto le accuse degli animalisti. L’antichità dei documenti ebraici emerge con tutta evidenza rispetto alla giovane età dei movimenti animalisti, ma questo non impedisce a questi ultimi l’esercizio dello zelo, del dogmatismo e spesso del disprezzo nei confronti dei primi. Per rinfrescare la memoria, è bene ricordare alcune delle cose che la Torà insegna sul rispetto dovuto agli animali: nei Dieci comandamenti gli animali domestici hanno il diritto al riposo sabbatico come ogni essere umano (Shemot 23:12); l’integrità del corpo animale va protetta ed è proibito tagliare un membro da un corpo animale vivo, per potersene cibare (Bereshit 9:4, secondo l’interpretazione rabbinica); bisogna aiutare l’animale che stramazza sotto un carico pesante (Shemot 23:5); un animale che sta arando non deve avere la museruola che gli impedisca di mangiare (Devarim 25:4); non si aggiogano specie diverse insieme per lavori agricoli (Devarim 22:10); l’asina di Bil’àm riceve il dono della parola per protestare contro il padrone che la sta frustando (Bemidbar 22:28); la tradizione rabbinica sancisce la proibizione del tza’ar ba’alè chaiim, la sofferenza degli animali, ad esempio permettendo persino con certe avvertenze la mungitura di shabbàt se l’animale sta soffrendo perché ha le mammelle gonfie e non può allattare; non ci si siede a tavola se prima non si è dato da mangiare ai propri animali domestici; la caccia, come forma di divertimento, è quasi del tutto estranea alla cultura ebraica; e la lista potrebbe continuare.
La shechità rientra in questo quadro generale di rispetto. Noi riteniamo che sia il modo migliore e finora insuperabile per infliggere la minore sofferenza possibile all’animale che viene macellato per l’uso alimentare delle sue carni. Ma bisogna essere onesti fino in fondo quando si afferma questo principio. Alcuni animalisti non dogmatici ci obiettano: “d’accordo, noi riconosciamo che il vostro metodo è un buon metodo, ma non è il migliore; se, come voi dite, la shechità serve a ridurre le sofferenze dell’animale e noi riusciamo a dimostrare che ce n’è un altro migliore, per coerenza dovreste preferire quest’ultimo alla shechità“. La risposta ebraica si basa su questi argomenti: a tutt’oggi non c’è nessuna dimostrazione scientifica inoppugnabile della superiorità di altri sistemi rispetto alla shechità.
La macellazione ebraica – e qui deve esserci chiarezza e onestà da parte nostra – viene eseguita così e non può né potrà essere eseguita diversamente, perché se è vero che serve a ridurre le sofferenze animali è anche e soprattutto vero che la tecnica è quella che viene adottata in virtù di un comando divino trasmesso dalla tradizione: “…e sacrificherai come ti ho comandato” (Devarim 12:21). Quindi la shechità è prima di tutto un rito religioso e per questo motivo se ne chiede il rispetto; e siccome – come noi riteniamo – non comporta speciali sofferenze all’animale, anzi, a nostro giudizio le risparmia notevolmente, non c’è alcun motivo di proibirla, al contrario il suo impiego va tutelato e incoraggiato.
Cos’è lo “stordimento” e perché non è accettabile
La differenza tra i metodi previsti dalla legge e la shechità è nell’uso di quelli che vengono chiamati metodi di stordimento. Prima si applicano questi metodi e poi l’animale viene ucciso. Teoricamente i metodi sono di quattro tipi: uso di un proiettile sparato nel cervello; elettroshock; anestesia con farmaci; gassazione con Argon o anidride carbonica.
Chiamare stordimento il primo metodo è un eufemismo; l’animale viene semplicemente abbattuto con un colpo in fronte di una pistola speciale. L’halakhà (la regola) proibisce certamente l’uso del proiettile prima della shechità, perché l’animale sparato, con una parte di cervello distrutto, è tarèf, non corrisponde cioè ai criteri minimi di integrità anatomica richiesti per un animale prima della macellazione (genericamente rendono tarèf l’animale i difetti che lo porterebbero alla morte in breve tempo). Contro chi difende questo metodo (di gran lunga il più comune) si obietta che molto spesso lo sparo è impreciso, che l’animale rimane più paralizzato che inconscio, che comunque l’eventuale incoscienza ha durata temporanea e potrebbe finire prima che si dia la morte all’animale con altri metodi; che lo sparo scatena una scarica di adrenalina con conseguente vasocostrizione e riduzione di sanguinamento dopo la recisione dei vasi (e quindi un danno per le carni); in epoca di “mucca pazza” c’è poi il rischio che l’agente infettante, che di solito colonizza il cervello, possa diffondersi con lo sparo a tutto il corpo.
Anche l’elettroshock non rappresenta una pratica ideale. L’halakhà non lo accetta perché può provocare danni di vario tipo all’integrità dell’animale, che lo rendono tarèf. Ma a parte questo è molto discutibile il risultato di incoscienza che si vorrebbe produrre. Intanto perché l’elettroshock è una crudeltà di per sé, come ha dimostrato per decenni l’esperienza psichiatrica sull’uomo; poi perché molto spesso l’apparecchiatura non funziona bene e le variabili che ne dovrebbero garantire il successo sono troppe; infine perché non è dimostrato che l’animale perda veramente la sensibilità o non la riacquisti prima che sia ucciso in altro modo.
L’anestesia con farmaci non viene praticata comunemente soprattutto perché si rischia di mettere in commercio carni con residui del farmaco.
La gassazione consiste nel far passare l’animale in una camera chiusa dove respira un gas che gli dovrebbe far perdere coscienza; il risultato (incoscienza) però non è sicuro e potrebbe essere di breve durata; talora l’animale potrebbe anche morire per effetto dell’esposizione al gas. Se si potesse garantire l’incoscienza da una parte e l’integrità fisica dall’altra ci potrebbe essere una maggiore disponibilità della halakhà per questo metodo; ma si è ancora lontani da un’esperienza di valore attendibile.
Quali sono i vantaggi reali della shechità e come si risponde alle obiezioni dei detrattori?
Molto sinteticamente: la shechità non può essere una pratica “selvaggia”. Richiede anni di esperienza, studio, esercizio e la sua pratica è esclusivamente affidata a figure professionali che vengono continuamente ricontrollate.
Parte essenziale della tecnica è l’affilatura del coltello, che non deve avere la minima intaccatura percettibile sul polpastrello e sull’unghia, in corrispondenza della soglia di percezione del dolore dei tessuti molli e della trachea che vengono tagliati con la shechità.
Il modo di tagliare, tangente, senza pressioni, senza soste, è funzionale al risultato di assenza di dolore.
Il taglio, con la fuoriuscita abbondante del sangue, provoca un’improvviso calo di liquidi circolanti, nel sistema venoso e arterioso, con conseguente crollo della pressione e del funzionamento del sistema cerebrale.
C’è grande discussione sulla possibilità che dopo il taglio la sensibilità si mantenga a lungo. Ma i metodi per dimostrare questo dato sono solo indiretti e mai determinanti. Si parla molto dell’elettroencefalogramma, che dimostra una attività elettrica cerebrale prolungata anche dopo il taglio; ma il fatto che ci sia l’attività elettrica non significa che ci sia percezione del dolore o che ci sia o meno la vita; un paziente anestetizzato sottoposto a un intervento chirurgico continua ad avere attività elettrica nel cervello, ma non sente dolore.
Un altro tema di grande discussione riguarda la possibilità che il cervello possa continuare a ricevere sangue dopo il taglio. Questo perché la shechità taglia le arterie carotidi, ma risparmia le altre due arterie che portano sangue al cervello, le arterie vertebrali. Anche negli esseri umani ci sono le carotidi e le vertebrali, che alla base del cervello comunicano tra di loro (formando una struttura chiamata poligono di Willis) che ha lo scopo di garantire sempre l’arrivo di sangue al cervello anche se una via si interrompe. Il paragone con l’anatomia umana ha però un senso molto parziale. Questo perché l’anatomia umana e quella di bovini, ovini e caprini (i tre grandi gruppi che vengono sottoposti a shechità) è un pò differente: al posto del poligono di Willis c’è una struttura con scopo analogo, la rete mirabile; carotidi e vertebrali concorrono a portare sangue al cervello e formare la rete mirabile, ma il loro incontro è prima del cervello (Fig.1 A). Per questo se si lega la carotide e si impedisce che porti sangue al cervello, il suo lavoro sarà fatto dall’arteria vertebrale. E’ quello che dicono gli animalisti: se si taglia la carotide il sangue arriverà comunque attraverso la vertebrale (Fig. 1 B). Ma qui c’è l’errore, perché un conto è legare, e un conto è tagliare. Se si taglia la carotide, tutto il sangue che dovrebbe arrivare attraverso di essa al cervello si perde, mentre il sangue che prende la strada della vertebrale non arriva lo stesso al cervello, perché dopo che è sboccato nella carotide a valle del taglio, per motivi di pressione, torna indietro e esce anch’esso dal taglio (Fig. 1 C). Così si è potuto dimostrare con metodi sperimentali.
In conclusione, con una polemica faticosa e difficili studi sperimentali è possibile dimostrare che per il momento non ci sono prove certe che la shechità faccia soffrire di più gli animali. Qualcuno usa questo argomento per vantare la superiorità scientifica della nostra tradizione. Forse è meglio evitare questo tipo di argomenti e lasciare al piano della fede le nostre certezze. Ma almeno possiamo stare tranquilli, nelle nostre coscienze, di possedere un metodo rispettoso e sempre all’avanguardia, malgrado la sua età più che trimillenaria. E ovviamente diffidare delle passioni e degli estremismi contro la macellazione rituale, e di tutto ciò che possono nascondere. Non dimentichiamo che in più di duemila anni di presenza ebraica in Italia, è stata proibita solo al tempo delle leggi razziali. E che, come insegnava rav Kook, un eccessivo rispetto per gli animali deve essere considerato con diffidenza perché può rivelare un minore rispetto per gli esseri umani.
* Rav Riccardo Di Segni, oltre ad essere Rabbino Capo di Roma, è anche un eminente medico
Per saperne di più: I. M. Levinger, Shechità in the Light of the Year 2000, Maskil L’David, Jerusalem 1995
R. Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Lamed, Roma 1996 nel capitolo sulla Shechità.
Il sito www.shechitauk.org curato da un’organizzazione ebraica inglese, con continui aggiornamenti scientifici.