Il Targum Shenì aramaico di Ester 3, 8.
Introduzione
Il witz ebraico non è un’invenzione di Woody Allen. L’ironia, in quanto contiene una contrarietà che suscita ilarità e per questo si presta a esprimere una critica, assolve a una fondamentale funzione etica: consente di esprimere liberamente un giudizio senza offendere, mascherandolo dietro parole di apprezzamento. “Non significa che se uno riceve un’offesa debba rimanere fermo come una pietra per non controbattere, come se in questo modo avvalorasse le accuse rivoltegli… Piuttosto è opportuno che il saggio risponda dolcemente con ironia senza tuttavia adirarsi, perché ‘l’ira alberga in grembo agli stolti’” (Qohelet 7, 9; Sefer ha-Chinnukh, Prec. 338, “Non offendere”). L’ironia nei confronti dei potenti trova forse la sua massima espressione ebraica nella Meghillat Ester: il re Achashverosh pretende di dominare su tutto il suo vasto regno “in modo che ognuno sia padrone in casa sua” ma in definitiva non riesce a farsi obbedire neppure dalla moglie: in quell’occasione si fece suggestionare a prendere sotto l’effetto del vino una decisione di cui, appena risvegliatosi la mattina dopo, ebbe a pentirsi. E così Haman adorava se medesimo come un dio al punto di far approvare dal re, contro i suoi stessi interessi economici, la decisione di sterminare un intero popolo per un’offesa personale. Ma l’ironia diventa acuta allorché è diretta verso il soggetto e sa trasformarsi in autoironia. Allora possiamo ironizzare sui nostri difetti accertati, ma anche su quelli presunti, anziché adirarci contro chi ce li attribuisce. La forma più alta, infine, è manifestata da chi riesce a ridere persino delle proprie sventure.
La nostra Bibbia (Tanakh) è probabilmente il testo più tradotto al mondo, non solo per numero di lingue e di edizioni, ma anche in termini di antichità. La prassi di tradurre la Parashah e la Haftarah in Sinagoga è antica almeno quanto la Sinagoga stessa. Si ritiene che entrambe abbiano trovato origine durante l’esilio babilonese, allorché i nostri Padri perdettero l’uso dell’ebraico parlato e si dovette tradurre il Sacro Testo in aramaico, allora lingua franca di tutto l’Oriente. L’abitudine fu continuata finché questa lingua mantenne la sua vitalità e ancora oggi si ritrova nelle comunità yemenite. Il materiale, in origine tramandato rigorosamente per via orale affinché il popolo non attribuisse al testo tradotto la stessa qedushah dell’originale, fu successivamente messo a sua volta per iscritto. Si produssero così i Targumim aramaici ai vari libri del Tanakh. Essi rispecchiano non solo diversi stili di versione che aprono la porta a interpretazioni differenti del testo masoretico, ma assolvono a una funzione fondamentale nella divulgazione delle tradizioni orali. L’incontro con il pubblico nelle Sinagoghe costituiva infatti per i Maestri un’occasione preziosa e imperdibile di diffusione dei propri insegnamenti, riflesso della vita reale, che venivano inseriti con perizia nella versione aramaica del testo biblico e presentati agli uditori come parte integrante della Rivelazione. Accanto a Targumim più letterali ve ne sono altri in cui la parafrasi predomina sulla traduzione in senso stretto, fino a lasciare spazio addirittura a intere digressioni, dove più interpretazioni “allargate” del versetto trovano spazio una accanto all’altra, collegate in modo armonico dall’abilità del traduttore. Il Targum diviene così un genere letterario della Torah Orale, oltre che della Torah Scritta, accanto alla Mishnah (che in genere prescinde dal riportare la fonte biblica dei propri insegnamenti e si specializza per la legge data (Halakhah) e al Midrash.
Grazie alla connessione con la festa di Purim, uno dei libri biblici che ha avuto più fortuna in questa divulgazione popolare è proprio la Meghillat Ester (cfr. Massekhet Soferim 12, 6), di cui conosciamo diverse elaborazioni nel genere Midrash: oltre a Ester Rabbà e ai Pirqè de-Rabbì Eli’ezer (cap. 49-50), una importante digressione midrashica è attestata nel primo capitolo del trattato Meghillah del Talmud Babilonese (f. 10a-17a). Della Meghillat Ester ci sono pervenuti almeno tre Targumim differenti. Il cosiddetto Targum Rishon (“primo Targum”) fu scritto fra il VI e l’VIII secolo E.V. prevalentemente nel dialetto aramaico di Eretz Israel. Pur essendo una traduzione per lo più fedele all’originale, contiene anch’esso digressioni parafrastiche. Ma assai più corposo e famoso è il Targum Shenì (“secondo Targum”): il suo carattere di traduzione è soverchiato dalla gran quantità di fonti orali. La Meghillah comprende 167 versetti (pari al numero delle occorrenze della radice zakhar, “ricordare” in tutto il Tanakh![1]): di essi solo 75 hanno qui una versione letterale, mentre il resto è costituito da vere e proprie derashot, differenti dalle parafrasi attestate nel Targum Rishon, per cui è giusto considerarle due opere indipendenti. Si ritiene che il Targum Shenì sia stato composto non prima della fine del VII secolo E.V. in Eretz Israel, sebbene non vi manchino elementi, testuali e di contenuto, che farebbero piuttosto pensare a una influenza babilonese: ma Rashì (a Devarim 3, 4) allude a esso chiamandolo Targum Yerushalmì. Una terza versione aramaica di Ester è attestata nella Antwerp Polyglot Bible (1569-1572): si tratta, salvo poche eccezioni, di una versione letterale, probabilmente la più antica e non è mai stata stampata[2].
Presentiamo qui al pubblico italiano, forse per la prima volta, la versione di Ester 3, 8 elaborata nel Targum Shenì. Il versetto recita:
וַיֹּאמֶר הָמָן לַמֶּלֶךְ אֲחַשְׁוֵרוֹשׁ יֶשְׁנוֹ עַם אֶחָד מְפֻזָּר וּמְפֹרָד בֵּין הָעַמִּים בְּכֹל מְדִינוֹת מַלְכוּתֶךָ וְדָתֵיהֶם שֹׁנוֹת מִכָּל עָם וְאֶת דָּתֵי הַמֶּלֶךְ אֵינָם עֹשִׂים וְלַמֶּלֶךְ אֵין שׁוֶֹה לְהַנִּיחָם
“Haman disse al re Achashwerosh (Assuero): ‘C’è un popolo diviso e disperso fra i popoli in tutte le province del tuo regno. Le loro disposizioni sono diverse da ogni popolo e non eseguono le disposizioni del re. E e al re non conviene lasciarli (in vita)’”.
Il versetto è incentrato sulla doppia accezione del termine דת e il gioco di antitesi che ne deriva. Questo vocabolo, presente solo nella Meghillah per diciassette volte più una volta nel coevo libro di ‘Ezra, deriva dal persiano data (cfr. il corrispondente greco θετος) e ha il significato di “disposizione di legge”, per tradizione o per convenzione. La prima occorrenza nel nostro versetto allude alla Torah (“le loro disposizioni” scil. degli ebrei) e dunque con il primo senso, mentre la seconda volta (“le disposizioni del re”) assume il secondo significato. L’accusa così costruita da Haman è variamente elaborata nelle altre fonti midrashiche di nostra conoscenza, che si concentrano su pochi ma significativi particolari:
ודתיהם שונות מכל עם דלא אכלי מינן ולא נסבי מינן ולא מנסבי לן ואת דתי המלך אינם עושים דמפקי לכולא שתא בשה”י פה”י ולמלך אין שוה להניחם דאכלו ושתו ומבזו ליה למלכות ואפילו נופל זבוב בכוסו של אחד מהן זורקו ושותהו ואם אדוני המלך נוגע בכוסו של אחד מהן חובטו בקרקע ואינו שותהו
Talmud Babilonese Meghillah 13b: “Le loro disposizioni sono diverse da ogni popolo”: non mangiano da noi, non prendono spose da noi e non lasciano che le loro figlie si sposino con noi. “E non eseguono le disposizioni del re”: passano tutto l’anno dicendo: “oggi è Shabbat, oggi è Pessach”. “E e al re non conviene lasciarli (in vita)”, perché dopo aver mangiato e bevuto disprezzano il regno. Arrivano al punto che se cade una mosca nel bicchiere di uno di loro la gettano e bevono, ma se sire toccasse il bicchiere di uno di loro, questi lo butterebbe a terra e non ne berrebbe più[3].
יֶשְׁנוֹ עַם אֶחָד. אֲמַר לֵיהּ שִׁנֵּיהוֹן רַבְרְבָן, שֶׁאוֹכְלִין וְשׁוֹתִין וְאוֹמְרִים עֹנֶג שַׁבָּת, עֹנֶג יוֹם טוֹב, שֶׁהֵן מַכְנִיסִין פְּחָת בְּמָמוֹנוֹ שֶׁל עוֹלָם, חֲדָא לְשִׁבְעָא יוֹמִין, שַׁבַּתָּא. חַד לִתְלָתִין יוֹמִין, רֵישׁ יַרְחָא. בְּנִיסָן, פִּיסְחָא. בְּסִיוָן, עֲצֶרֶת. בְּתִשְׁרֵי, רֵישׁ שַׁתָּא וְצוֹמָא רַבָּא, וְחַגָּא דִּמְטַלַּלְתָּא. אָמַר לוֹ אֲחַשְׁוֵרוֹשׁ כָּךְ הֵם מְצֻוִּין בְּתוֹרָתָן. אָמַר לוֹ הָמָן, אִלּוּ הָיוּ מְשַׁמְרִין אֶת מוֹעֲדֵיהֶם וּמוֹעֲדֵינוּ, יָפֶה הָיוּ עוֹשִׂין, אֶלָּא שֶׁמְבַזִּים מוֹעֲדֶיךָ, וְאֶת דָּתֵי הַמֶּלֶךְ אֵינָם עוֹשִׂים, שֶׁאֵין מְשַׁמְּרִים לֹא קָלֶנְדָּס, וְלֹא סָטַרְנַלְיָא
Midrash Ester Rabbà 7, 12: “C’è un popolo”: Haman disse al re: “Hanno denti grandi[4], per cui mangiano, bevono e dicono: “oggi è gioia dello Shabbat, oggi è gioia della festa”. Essi provocano la crisi economica nel mondo: una volta ogni sette giorni è Shabbat; una volta ogni trenta giorni è Rosh Chodesh (capo-mese); a Nissan cade Pessach, a Siwan ‘Atzeret (Shavu’ot), a Tishrì Rosh ha-Shanah, il “Gran Digiuno” (Yom Kippur) e la festa delle Capanne (Sukkot)”[5]. Achashwerosh gli rispose: “Questa è la prescrizione nella loro Torah!”. Haman gli disse: “Se osservassero le loro feste insieme alle nostre andrebbe bene. Ma essi disprezzano le nostre feste “e non eseguono le disposizioni del re: non osservano né i Saturnali, né le Calende[6]”.
Succinta è anche la prima versione aramaica:
וַאֲמַר הָמָן לְמַלְכָּא אֲחַשְׁוֵרוֹשׁ אִיתַי עַמָא חֲדָא מְבַדָר וּמִתְפָּרֵשׁ בֵּינֵי עַמְמַיָא וְאוּמַיָא וְלִישָׁנַיָא וּמִקְצַת מִנְהוֹן דַיְרִין בְּכָל פַּלְכֵי מַלְכוּתָא וּגְזֵרַת אוֹרַיְתֵהוֹן שַׁנְיָן מִכָּל עַמָא לַחְמָנָא וְתַבְשִׁילָנָא לֵיתְהוֹן טָעֲמִין חַמְרָנָא לֵיתְהוֹן שָׁתָן יוֹמֵי גְנוּסְיָא דִי לָנָא לֵיתֵיהוֹן נָטְרִין וְנִימוּסָנָא לָא מְקַיְימִין וְיַת גְזֵירַת דִינֵי מַלְכָּא לֵיתֵיהוֹן עָבְדִין וּלְמַלְכָּא לֵית לֵיהּ טִימֵי מִנְהוֹן וּמַה הֲנָאָה אִית לֵיהּ בְּהוֹן אִין יְשַׁבְּקִינוּן עַל אַפֵּי אַרְעָא
Targum Rishon a Ester 3, 8: Haman disse al re Achashwerosh (Assuero): “C’è un popolo diviso e disperso fra i popoli, le nazioni e i linguaggi. Alcuni di essi abitano in tutte le province del regno. I decreti della loro Torah sono diversi da ogni popolo. Non assaggiano il nostro pane e i nostri cucinati, non bevono il nostro vino. Non osservano i nostri anniversari, non mantengono le nostre consuetudini e non eseguono i decreti del re. Non hanno alcun riguardo per il re e quale vantaggio gliene deriverebbe se li lasciasse sulla faccia della terra?”[7].
Mentre tutti questi testi alludono semplicemente alla difficoltà degli ebrei a relazionarsi con gli altri popoli, il primo che parla di una malvagità intrinseca, e dunque eleva le accuse dal piano religioso-culturale a quello morale e politico è Luciano d’Antiochia, importante teologo cristiano del III secolo (subì il martirio nel 312): esplicò dalla Siria e in tutto l’Oriente la sua opera esegetica, in una estrema e tormentata esigenza di precisione per i testi biblici. La sua Recensione lucianea dell’Antico e del Nuovo Testamento in lingua greca, considerata una variante della LXX, era diventata dalla fine del secolo successivo in avanti il testo usuale di un gran numero di Chiese. Traducendo il nostro versetto aggiunge: “(gli ebrei) sono noti a tutte le nazioni per essere malvagi, rigettano le tue disposizioni per il rovesciamento della tua gloria”[8].
La pagina del Targum Shenì che qui presentiamo è una delle più antiche testimonianze di accuse contro gli ebrei presentate in modo ordinato e sistematico. Vi troviamo temi che faranno parte integrante della propaganda antisemita per secoli: gli ebrei sono tacciati anzitutto di isolazionismo, ma anche di slealtà, indolenza, superstizione, libidine e disonestà. Occupano abusivamente un territorio che non gli appartiene. Diffondono impurità e sfuggono a ogni possibile controllo: la descrizione dei loro volti arcigni anticipa le moderne teorie sulla difesa della razza. Da ultimo la constatazione per cui se gli ebrei soffrono è questa la prova più evidente della loro colpevolezza, a prescindere da ogni specifico capo d’accusa. Ma il valore aggiunto di questa pagina è il fatto di essere stata scritta da Maestri di Israel e inserita a pieno titolo nella nostra letteratura tradizionale. Ciò ci apre a due ulteriori osservazioni. E’ noto che i Maestri del Talmud e del Midrash hanno optato per il silenzio nei confronti del Cristianesimo, di cui non parlano praticamente affatto. Benché il Targum Shenì sia stato redatto nei primi secoli dell’era cristiana (secondo molti la sua stesura sarebbe addirittura posteriore anche alla nascita dell’Islam), non fa riferimento diretto ad alcun antigiudaismo teologico. Il traduttore, vincolato alla preoccupazione di evitare ogni anacronismo rispetto alla sua ambientazione nel V secolo a.E.V., riporta le accuse così come ci sono note dalle fonti pagane. Compito dell’esegeta oggi è confrontare il testo non solo con la realtà dell’Impero Persiano di cui il traduttore-autore scriveva, ma anche con la realtà del tardo Impero Romano in cui scriveva, riprendendo certamente tradizioni orali di epoca intermedia. Constatiamo così che l’antisemitismo non nasce con l’avvento delle “religioni sorelle”, che hanno piuttosto fatto tesoro di un patrimonio di dicerie e falsità molto antecedente.
La seconda considerazione è più di carattere estetico-stilistica: il nostro testo è una parodia, capolavoro di autoironia al massimo grado. Se non riportasse argomenti che per le nostre Comunità sono stati fonte di reiterate immani tragedie, ci sarebbe persino da divertirsi, considerato che il testo è comunque destinato alla festa di Purim. Personalmente sono stato fino all’ultimo in dubbio se lavorarci e diffonderlo, tenuto conto del complicato periodo storico che stiamo vivendo. Il dilemma era se dar valore al Salmista che dice: הֶאֱמַנְתִּי כִּי אֲדַבֵּר “credo se parlo” (116, 10), implicando che la trattazione pubblica e a più riprese di un certo tema gli dà credito e ciò costituisce un problema se esso è negativo e per di più falso; o se basarmi invece sulle parole di Iyov: אֲדַבְּרָה וְיִרְוַח לִי “parlo e ne avrò sollievo” (32, 20). Mi sono risolto di accogliere quest’ultima motivazione e faccio conoscere il testo. Con la speranza che ciò possa contribuire a ribaltare le nostre sorti secolari: וְנַהֲפוֹךְ הוּא אֲשֶׁר יִשְׁלְטוּ הַיְּהוּדִים הֵמָּה בְּשֹׂנְאֵיהֶם “e (la sorte) si capovolse, per cui gli Ebrei ebbero finalmente il controllo di coloro che li odiavano” (Ester 9, 1).
Testo aramaico:
ואמר המן למלכא אחשורוש אית עמא חד דיהודאי מתבדר ומטלטל ביני עממיא בכל מדינת מלכותך גיותנין ורוחא רמא מלקטין פישרי טבת ויתבין בחצבי תמוז ועובדיהון שניין מכל עמא ונימוסיהון מכל מדינן ובנימוסנא לא מהלכין ועובדנא לא צביא נפשיהון ועיבידתא דמלכא ליתיהון עבדין. וכד חזיין לנא רקקין בארעא וחזיין לנא כמידעם מסאב. וכד אנחנא נפקין למימר ולמשמע ולמעבד בעיבידתיה דמלכא מנהון סלקין בשורין ופרסין גידרין ועלין בחדרין ונפקין בחצופין. וכד אנחנא רהטין מתפוס יתהון מהדרין וקיימין מברקין עיניהון וחרקין שיניהון ומבטשין רגליהון ומבהלין יתהון ולית אנחנא יכלין למתפש יתהון. מן בנתיהון לא יהבין לנא ומן בנאתנא לא נסבין להון ומן דדבר מנהון למעבד עיבידתיה דמלכא מפיק ליומא בשיהי פיהי. ויומא דאינון צביין למזבן מננא אמרין לנא יומא שריא הוא ויומא דאנחנא צביין למזבן מינהון אסרין עלינן שווקין ואמרין לנא יומא אסירא הוא.
בשעתא קדמיתא אמרין שמע קרינן בתינינא צלוי מצלינן בתליתיתא אמרין לחמא אכלינן ברביעיתא אמרין לאלהא דבשמיא מברכינן דיהב לנא לחמא ומיא בחמישיתא נפקין ובשתיתא תייבין ובשביעיתא נשיהון נפקן לאפיהון ואמרין אייתיאו גרסווא דעקת לכון בעיבידתא דמלכא רשיעא. עלין לבית כנישתהון קריין בספריהון ומתרגמין בנביאיהון ולייטין למלכנא ותברין לשלטננא ואמרין הדין הוא יומא דנח ביה אלהא רבא.
נידתהון לשבעא יומין ונפקן נשיהון בפלגות ליליא ומסאבן ית מיא. לתמניא יומין גזרין ית ערלת בניהון ולא חייסין עליהון ואמרין דניהוי שנין מן בני עממיא. לתלתין יומין קריין ירחא ואמרין חד חסר וחד מלא.
בירח ניסן תמניא יומין טבין עבדין ביה ועבדין הדליקה ומרבותא וגרפין חמיעא מן קדם פטירא ואמרין דין דאתפרקן ביה אבהתנא מן מצרים וקריין יתיה יומא דפסחא. עלין לבית כנישתא דילהון קריין בספריהון ומתרגמין בנביאיהון ואמרין כהדין דמתגריף חמיעא מן קדם פטירא הכדין תתגריף מלכותא רשיעיתא מביננא וכן יתעביד לנא פורקנא מן מלכא טפשא הדין.
בירח סיון תרין יומין טבין עבדן ביה עלין לבי כנשתין קריין קרית שמע ומצליין קריין באורייתא ומתרגמין בנביאיהון לייטין למלכנא ותברין לשלטנא וקריין יתיה יומא דעצרתא. וסלקין לאיגר בית אלההון ושדיין חזורי ומלקטין יתהון ואמרין היכמה דמתלקטין חזורי הכדין יתלקטון בניהון מן ביננא. ואמרין דין הוא דאתיהיבת אוריתא לאבהתנא על טורא דסיני.
לעידן בעידן ריש שתא קורין חד בתשרי עלין לבי כנשתהון קריין בספריהון ומתרגמין בנביאיהון לייטין למלכנא ותברין לשלטנא ותקעין בחצוצרתא ואמרין על יומא דדוכרן אבהתנא קדם אבונן דבשמיא דכרנא דילנא יעול לטב ודבעלי דבבנא יעול לביש ומריר.
בתשעה ביה נכסן חיון ואווזין ואכלין ושתין ומתפנקין אינון נשיהון בניהון ובנתיהון.
בעסרא ביה קריין יתיה צומא רבא וציימין אינון נשיהון בניהון ובנתיהון ואף בני בניהון ציימין ומעיקין יתהון ולא חייסין עליהון. ואמרין יומא הדין מתכפרין חובנא חובוי דילנא מתכנשין ומיתוספין על חובי בעלי דבבנא. ועלין לבי כנישתהון וקריין בסיפריהון ומתרגמין בנביאיהון לייטין למלכנא ותברין לשלטנא ואמרין הכדין תתכפר הדין מלכותא מן עלמא ובעיין רחמי ומחננין דימות מלכא ויתבר שלטניה.
בחמשא עסרא ביה מטללין מטלין אגר בתיהון ונפקין לבוסתננא ומשמטין לולבננא וקטפין אתרוגנא ומפשיחין חולפנא וחרבין ועיקריהון סוגיהון ולא חייסין ועבדין להון הושענא ואמרין כמידעם דעבד מלכא בני סדרי אנחנא עבדין ועלין לבי כנישתא ומצליין וחדיין והדרין בהושענא ושוררין ומרקדין היך גדיין ולא ידעינן אין מילט לייטין לנא אי ברכא מברכין לנא. וקריין יתיה חגא דמטללתא ולא עבדין עיבידתא דמלכא אמרין לנא יומא אסירא לן ומפקין ליה לשתא בשיהי פיהי דלא יעבדו ביד עיבידתא דמלכא.
לחמשין שנין קריין יובילא. לשבע שנין קריין שמיטה. לתרין עשר ירחין קריין שתא. לתלתין יומין קריין ירחא ועבדין יומא טבא.
לשבעא יומין קריין שבתא ועבדין ליה יומא דניחא מרי מלכא.
כד הוה מלכותהון קיימא עליהון קם עליהון מלכא דוד הוה שמיה. מחשב עלנא מחשבין בישין ובעא לשיצאה יתנא ולאובדנא מן עלמא. תרתין פטימין קטל יתנא וחד שבק ודשבק לעבדין כביש יתיה. דהכין כתיב וימדדם בחבל השכב אותם ארצה.
ובתרוהי קם מלכא חד מן מלכנא דהוה נבוכדנצר שמיה סלק עליהון ואחריב בית מקדשיהון ובז קרתהון ואייתי יתהון בגלותא. ומן רוחיהון רמתא ועד כען לא שבקון ואמרין בני אבהתנא אנחנא דמן עלמא למלכיא לית אנחנא פלחין וסגדן לשלטוניא לית אנחנא משתמעין. ולכל אתר ואתר איגרתהון אזלין ומטיין למבעי רחמין קדם אלהא וימות מלכא ויתבר שולטננא ולית אנחנא ידעין.
וכד נחתו אבהתהון למצרים לא נחתו תמן אלא בשבעין נפשן וכד סליקו מתמן סליקו בשיתין ריבוא.
והשתא דאיתיהון בגלותא לית להון מידעם ואמרין בני חסידין וטבין אנחנא דמן עלמא ולית מסכינין וסוחרין כוותהון בעלמא. ועמא הדין ביני קרייתא מבדר מנהון מזבנין קירא ומנהון תליין בוצין כל דמזבנין בעושקא מזבנין וכל דמזבנין בשויא מזבנין.
והשתא אין צבי מרי מלכא אתן עשרא אלפין ככרי כספא מן בית גנזי דילי לבית גנזי דילך מטול דבנימוסי מלכא לא מהלכין ועיבידתיה דמלכא לא עבדין ולמרי מלכא לא ישוי למשבק יתהון בחיי.
Traduzione e note:
Haman disse al re Achashwerosh (Assuero): “C’è un popolo, gli ebrei, disperso ed esule fra le nazioni in tutte le province del tuo regno[9], superbi e di spirito altero, che si approfittano dell’acqua tiepida in Tevet[10] per sedersi nelle tinozze[11] in Tammuz. Il loro modo di agire è diverso da ogni popolo e le loro consuetudini da tutte le province. Non procedono nelle nostre consuetudini[12] e non gradiscono il nostro comportamento[13]. Non eseguono il servizio del re[14] e quando ci vedono sputano per terra[15], guardandoci come qualcosa di impuro. E quando noi usciamo per annunciare il servizio del re e obbedire, fra loro vi è chi sale sui muri ed erige steccati, entrano nelle stanze ed escono con sfrontatezza. E quando noi corriamo per agguantarli si voltano e si fermano, con gli occhi sbarrati e i denti digrignati, scalciano con i loro piedi e ci mettono paura, cosicché noi non riusciamo ad acchiapparli[16].
Non ci concedono (in mogli) le loro figlie, e non sposano le nostre[17]. E chi di loro viene preso per il servizio del re fa passare quella giornata (senza lavorare) dicendo: “oggi è Shabbat, oggi è Pessach”[18]. Nel giorno in cui essi desiderano fare acquisti da noi dicono che è una giornata permessa, ma nel giorno in cui siamo noi a voler acquistare da loro ci chiudono i mercati e ci dicono: è una giornata vietata[19]. Alla prima ora (del giorno) dicono: “siamo impegnati a leggere lo Shemà’”[20]; alla seconda dicono: “dobbiamo recitare la Tefillah”[21]; alla terza dicono: “ora si fa colazione”; alla quarta dicono: “ora ci tocca benedire il D. del Cielo[22] che ci ha concesso pane e acqua”; alla quinta (finalmente) escono, ma alla sesta siedono; alla settima le mogli vanno loro incontro e dicono: “ci sono i fagioli[23], per voi che soffrite abbastanza al servizio del re malvagio”. Un giorno ogni sette fanno Shabbat[24]: si recano nelle loro Sinagoghe[25], leggono i loro libri[26], traducono i loro profeti[27], maledicono il nostro re e auspicano la caduta del nostro dominio[28]. E dicono che questo è il settimo giorno in cui si è riposato il Grande Dio[29]. Le loro mogli osservano (la regola) del mestruo per sette giorni[30], dopodiché escono a mezzanotte e rendono impure le acque[31]. A otto giorni tagliano il prepuzio dei loro figli senza pietà[32], dicendo: “vogliamo essere diversi dagli altri popoli”[33]. Ogni trenta giorni lo chiamano mese e dicono che uno è pieno, l’altro mancante[34]. Nel mese di Nissan fanno otto giorni di festa[35], accendono un fuoco ed effettuano la purificazione (dei recipienti)[36], bruciano il Chametz per lasciar posto alla Matzah dicendo: “questo è il giorno in cui i nostri padri sono stati liberati dall’Egitto”. Lo chiamano: “il giorno di Pessach”. Si recano nelle loro Sinagoghe, leggono i loro libri, traducono i loro profeti e dicono: “come il Chametz viene bruciato per lasciar posto alla Matzah, così sia eliminato il regno malvagio fra noi e si realizzi la nostra liberazione da questo re stolto”[37].
Nel mese di Siwan fanno due giorni di festa[38]. Si recano nelle loro Sinagoghe, leggono i loro libri, traducono i loro profeti, maledicono il nostro re e auspicano la caduta del nostro dominio. Lo chiamano “giorno di ‘Atzeret (riunione)[39]”. Salgono sul tetto delle case del loro D., lanciano mele e poi le raccolgono, dicendo: “come si raccolgono le mele, così siano raccolti i nostri figli fuori da loro”[40]. E dicono: “questo è il giorno in cui è stata data la Torah ai nostri Padri sul Monte Sinai”[41]. Un’altra occasione fra altre chiamano Rosh ha-Shanah (capodanno), il primo di Tishrì[42]. Si recano nelle loro Sinagoghe, leggono i loro libri, traducono i loro profeti, maledicono il nostro re e auspicano la caduta del nostro dominio. E suonano le trombe[43] dicendo: “è giunto il giorno del ricordo dei nostri padri dinanzi al nostro Padre che è in cielo; che possiamo noi essere ricordati nel bene e i nostri nemici nel male e nell’amarezza”[44]. Al nove del mese scannano animali, oche e polli, mangiano, bevono e pascono essi, le loro mogli, figli e figlie[45]. Chiamano il dieci “Gran Digiuno”[46] e digiunano effettivamente essi, le loro mogli, figli e figlie, e anche i loro bambini (più piccoli) digiunano, facendoli soffrire senza pietà[47]. E dicono: “in questo giorno si espiano i nostri debiti; i nostri debiti sono radunati e vanno ad aggiungersi a quelli dei nostri nemici”[48]. Si recano nelle loro Sinagoghe, leggono i loro libri, traducono i loro profeti, maledicono il nostro re e auspicano la caduta del nostro dominio e dicono: “così sarà epurato questo stolto regno dal mondo”. Supplicano e pregano affinché muoia il re e decada il suo dominio.
Al quindici del mese erigono capanne sul tetto delle loro case[49]. Vanno nei nostri giardini, tagliano le nostre palme e raccolgono i nostri cedri, sfrondano i nostri salici e devastano i nostri giardini[50], ne divellono i recinti senza riguardo[51] e si fabbricano la Hosha’anà[52], dicendo: “come il re si fabbrica una lancia, così facciamo anche noi”[53]. Si recano nelle loro Sinagoghe, pregano, si rallegrano e effettuano i giri con la Hosha’anà, saltano e ballano come capretti[54] e noi non sappiamo se ci maledicono o ci benedicono. La chiamano “festa delle Sukkot (capanne)”[55] e non eseguono il servizio del re, dicendoci: è una giornata vietata. Fanno passare l’anno dicendo: “oggi è Shabbat, oggi è Pessach” per evitare di eseguire in quei giorni il servizio del re. Ogni cinquant’anni lo chiamano Yovèl (giubileo), ogni sette lo chiamano Shemittah (anno sabbatico)[56], ogni dodici mesi lo chiamano anno, ogni trenta giorni lo chiamano mese e ne fanno un giorno di festa[57]; ogni sette giorni lo chiamano Shabbat e ne fanno un giorno di riposo[58].
Sire, quando ancora erano in possesso del loro regno si è levato tra loro un re di nome David che macchinava contro di noi pensieri malvagi, voleva distruggerci ed eliminarci dalla faccia della terra[59]: ha ucciso due terzi di noi lasciandone un terzo; ma quelli che ha lasciato li ha ridotti a schiavi, come è scritto: “e li misurò con la fune dopo averli coricati a terra”[60]. Dopo di lui è sorto uno dei re che ti hanno preceduto, di nome Nevukhadnetzar[61]: è salito contro di loro e ha distrutto il loro Santuario, ha depredato la loro città e li ha condotti in esilio, eppure ancora non abbandonano il loro spirito altero. Anzi, dicono: “siamo figli dei nostri padri da sempre, non serviamo, né ci prostriamo ai re e non obbediamo ai loro comandi”. Le loro lettere vanno e vengono in ogni luogo per pregare davanti a D. affinché muoia il re e decada il suo dominio senza che noi lo sappiamo[62]. Quando i loro padri scesero in Egitto vi arrivarono che erano soltanto settanta anime, mentre quando ne risalirono erano sessanta miriadi[63] e ora che si trovano (nuovamente) in esilio non possiedono nulla e dicono: “noi siamo da sempre figli di persone pie e buone”; eppure non esistono al mondo altri poveri e indigenti come loro[64]. Questo popolo è disperso fra le città[65], alcuni vendono cera, altri appendono lumi[66]: tutto ciò che vendono lo vendono con inganno (alzando il prezzo) e tutto ciò che comperano pretendono di acquistarlo a prezzo di costo[67]. Ma ora se sire è d’accordo[68] verserò diecimila kikkar d’argento[69] dai miei forzieri ai tuoi, dal momento che non si comportano secondo le consuetudini del re, non eseguono il servizio del re e a sire non conviene di lasciarli in vita[70].
[1] Ester 9, 28. Cfr. Yosef Hayim Yerushalmi, “Zakhor, storia ebraica e memoria ebraica”, Pratiche, Parma, 1983, p. 17 che ne enumera 169.
[2] Cfr. R. Le Déaut, “Introoduction à la littérature targumique”, Pontificio Stituto Biblico, Roma, 1966, p. 141-142; Bernard Grossfeld, “The First Targum to Esther”, Sepher-Hermon Press, New York, 1983, p. iv-v; Encyclopaedia Judaica s.v. “Targum Sheni”, XV, col. 811-813.
[3] Per una sintesi dei Midrashim su questo versetto si veda I. Ravnitzky-Ch.N. Bialik, “Sefer ha-Aggadah”, Dvir, Tel Aviv, 1987, p. 116. Trad. it.: Rav Riccardo Pacifici, “Midrashim: fatti e personaggi biblici”, Marietti, Casale Monferrato, 1986, p. 150.
[4] Gioco di parole fra ישנו (“c’è”) e שנו (“suo dente”).
[5] I nomi delle feste sono in aramaico nell’originale del Midrash, come poi nel nostro Targum Shenì.
[6] Cfr. Mishnah ‘Avodah Zarah 1, 3.
[7] Per un commento cfr. Bernard Grossfeld, “The First Targum to Esther”, Sepher-Hermon Press, New York, 1983, p. 128-129
[8] Cfr. Claudine Cavalier, “La Bible d’Alexandrie, Esther”, XII, Le Cerf, Paris, 2012, p. 161 e n.
[9] Solo 43.260 degli esuli in Babilonia aveva accettato di ritornare in Eretz Israel sotto la guida di Zerubbavel (‘Ezra 2, 64), mentre la maggior parte del popolo ebraico preferì rimanere nei vari distretti dell’Impero Persiano, dove si erano stabiliti.
[10] E’ l’interpretazione del commento Patsheghen ha-Ketav.
[11] O piscine: cfr. Devarim 6, 11; Yirmeyahu 2, 13, sebbene il Targum relativo a quei versetti sia differente. Altri (cfr. Marcus Jastrow, “Dictionary of the Targumim…”, s.v. חצבא) intendono: raccolgono l’acqua dello scioglimento delle nevi d’inverno (cfr. Ester 2, 16) e la mettono in brocche d’estate (יתבין > יהבין).
[12] Ester 3, 8 è incentrato sulla doppia accezione del termine דת. Questo vocabolo, presente solo nella Meghillah diciassette volte più una nel coevo libro di ‘Ezra, deriva dal persiano data (cfr. il corrispondente greco θετος) e ha il significato di “disposizione di legge”, per tradizione o per convenzione. Il Targum Rishon distingue fra “le loro disposizioni” (scil. degli ebrei) e le “disposizioni del re”, traducendo la prima espressione con “decreti della loro Torah” e la seconda con נימוסיא (“consuetudini, convenzioni”), derivato a sua volta dal greco νομος. La scelta del nostro Targum Shenì di adoperare solo quest’ultimo termine entrambe le volte ha forse il proposito di ironizzare sul fatto che il primo ministro dell’impero considerava le leggi ebraiche rivelate di importanza non superiore alle convenzioni della sua amministrazione, o più esattamente pretendeva di innalzare il suo re a una figura divina.
[13] L’accusa di slealtà era già stata sostenuta prima di Haman. Cfr. ‘Ezra 4, 13-16. “Come tutti gli altri uomini, anche l’ebreo ha più di una identità. Esso fa parte della comunità umana, però possiede anche un’identità ebraica che lo rende diverso dagli altri. Ognuna di queste identità lo obbliga a doveri diversi. Facendo parte di una società pluralista, egli ha il dovere di partecipare agli sforzi atti a garantire il bene comune e a combattere pericoli come fame, corruzione, malattie e nemici… Ai tempi del Talmud, Shemuel di Nehardea’ decretò la regola secondo cui, in materia di vita quotidiana, la legge dello Stato obbliga l’ebreo quanto i comandamenti della propria fede: דינא דמלכותא דינא (Ghittin 10a)” (Rav J.B. Soloveitchik, “Riflessioni sull’Ebraismo”, La Giuntina, Firenze, 1998, p. 177 segg.).
[14] Così il Targum intende lo stico: “e non eseguono le disposizioni del re”. E’ la angaria o angheria (cfr. Mishnah Bavà Metzi’à 6, 3), derivato dal gr. αγγαρος, “messo del re di Persia con autorità di requisire beni o imporre tasse”. Ai tempi dell’impero romano era uso anche arruolare uomini per lavoro coatto al servizio dello stato, chiamato tzammut: cfr. Yer. Peah, 1, 1; 15c). Si trattava in genere di richieste periodiche per l’esecuzione di lavori pesanti, divise per professioni così da non arrecare seri danni all’economia.
[15] Sputare è considerato un gesto fortemente riprovevole. (cfr. Chaghigah 5a sulla base di Qohelet 12, 14). Il Talmud proibisce di pronunciare un versetto a scopo propiziatorio quando si sputa su una ferita, affinché D. non venga nominato in questo frangente (Sanhedrin 101a); “chi sputa per terra nella Sinagoga è come se lo facesse nella pupilla del S.B.” (Yer. Berakhot 3, 6d).
[16] E’ una seconda parafrasi della prima parte del versetto: “C’è un popolo diviso e disperso fra i popoli in tutte le province del tuo regno”.
[17] Cfr. per antifrasi Bereshit 34, 16 e 21; Targumim ad loc., Meghillah 13b. Cfr. Tacito, Hist. V, 5: “razza particolarmente incline alla libidine, però rifuggono dai rapporti intimi con donne forestiere”. Sul divieto del matrimonio misto si veda: Devarim 7,3; Mal’akhì 2,11-12; cfr. anche Yesha’yahu 2,6; Hoshea’ 5,7; Mishlè 5,10. Qiddushin 68b; ‘Avodah Zarah 36b; Yevamot 76a; Sanhedrin 82a; Maimonide, Hilkhot Issurè Biah 12, 6; Sefer ha-Chinnukh, Mitzwah n. 427; R. Yonah da Gerona, Sha’arè Teshuvah, III, 132; Don I. Abrabanel, comm. a Devarim 27, 20 segg.; Shulchan ‘Arukh Even ha-’Ezer 16.
[18] בשה”י פה”י , lett. “star fermi, essere vuoti”. Cfr, Meghillah 13b e Rashì ad loc. che interpreta le due parole come sigle: שבת היום, פסח היום.
[19] Cfr. Mishnah ‘Avodah Zarah 1, 1 segg. La Torah proibisce agli ebrei non solo di pronunciare i nomi degli idoli, ma anche di provocarne la menzione da parte dei Gentili (Shemot 23, 13). Nei confronti degli antichi pagani vigeva pertanto il divieto di effettuare compravendite e operazioni economiche con essi nei tre giorni precedenti le loro feste per evitare che durante la festa si recassero a ringraziare le loro divinità per il buon esito dell’affare. La Mishnah specifica che il divieto di commercio vale in ambo le direzioni.
[20] Può essere recitato fino alla fine della terza ora dal sorger del giorno (Mishnah Berakhot 1, 2).
[21] Lo Shemoneh ‘Esreh o ‘Amidah del mattino può essere recitata fino alla fine della quarta ora (Mishnah Berakhot 4, 1).
[22] Cfr. Bereshit 24, 7. Ma nel contesto l’espressione parrebbe richiamare ironicamente il caeli numen della Satyra XIV di Giovenale.
[23] Cfr. Mishnah Bavà Metzi’à 7, 1, dove pane e fagioli sono considerati il pasto di un operaio.
[24] Sull’accusa relativa alle feste v. Ester Rabbà 7, 12. Per come lo Shabbat era visto nel mondo antico si veda: Peter Schaefer, “Giudeofobia, l’antisemitismo nel mondo antico”, Carocci, Roma, 2004, p. 117 segg. I Romani in particolare non avrebbero accettato l’idea di riposare un giorno alla settimana. Di qui l’accusa di indolenza (otium, ignavia) che ne derivava, come qui attestato: Tacito parla di blandiente inertia; Rutilio Namaziano, De Reditu Suo, v. 391-392 scrive invece: “ogni settimo giorno è condannato a un’ignobile accidia, quasi fosse un’immagine effeminata di un dio stanco”). Vi era inoltre quella di superstizione. Fece molto scalpore il fatto che durante la presa di Yerushalaim da parte di Tolomeo I Sotèr nel 302 a.E.V. gli ebrei si siano astenuti da ogni difesa per non imbracciare armi nel giorno sacro, come ricordato anche da Plutarco nel suo De Superstitione, p. 166. Sarà stato forse in seguito a episodi del genere che la Halakhah rabbinica sancisce la facoltà di deroga ai divieti dello Shabbat in caso di pericolo di vita (piqquach nefesh; cfr. Mishnah Yomà 8, 5 segg.; Sanhedrin 74a).
[25] Secondo la maggior parte degli studiosi l’istituto della Sinagoga ebbe origine durante l’esilio di Babilonia: cfr. Yechezqel 11,16: “Così dice il S.D.: Ancorché Io li abbia allontanati fra le nazioni disperdendoli fra i vari paesi, Io sarò per loro un Santuario in miniatura (Miqdash me’at) nelle terre in cui sono giunti” Nel Talmud Bab. Meghillah 29a diceva R. Itzchaq che: “si riferisce ai Battè ha-Kenesset e ai Battè Midrash di Babilonia”.
[26] La lettura pubblica del Sefer Torah è fatta risalire a Moshe nel deserto, ma il suo inquadramento formale è opera di ‘Ezra: Nechemyah, cap. 8; Bavà Qammà 82a; Maimonide, Hilkhot Tefillah 12, 1.
[27] Il traduttore sembra qui ironizzare sulla sua stessa attività. Ai tempi di ‘Ezra (Nehemyah 8, 8 e Ghereshonide ad loc.) si fa pure risalire la prassi di tradurre pubblicamente in aramaico i testi letti in Sinagoga a beneficio del pubblico che in esilio aveva dimenticato l’ebraico (cfr. Mishnah Meghillah 4, 4; Maimonide, Hilkhot Tefillah, 12. 10). Il nostro brano testimonia che all’epoca della sua stesura era ancora in uso la traduzione dei Profeti, mentre non parla più di quella del Pentateuco, abbandonata dopo che l’arabo aveva soppiantato l’aramaico come lingua parlata: potrebbe essere un forte indizio sull’epoca di composizione del nostro testo (cfr. Louis Ginzberg, “The Legends of the Jews”, JPS, Philadelphia, 1968, VI, p. 465, n. 112).
[28] La falsa credenza poteva forse essere alimentata dal rifiuto di ogni forma di culto per le immagini dei Cesari, menzionata anche da Tacito. “Tanto tempo fa il Profeta Geremia consigliò agli ebrei in Babilonia ‘di cercare il benessere della città dove siete stati portati prigionieri e di pregare D. per lei, perché la sua prosperità sarà anche la vostra’ (Yirmeyahu 29, 7)… Anche durante la crudele oppressione romana, R. Chaninà disse: ‘Devi pregare per il governo, perché se non lo si teme, ci si mangerà vivi a vicenda’” (Mishnah Avot 3, 2; Rav J.B. Soloveitchik, loc. cit.). Per un approfondimento sulla questione si veda: Avraham Steinberg, “Prayers for the Welfare of the State”, Yad ha-Rav Herzog, Jerusalem, 2012.
[29] Cfr. Devarim 10, 17 e Targum Onqelos. Riprende un altro appellativo con cui nella letteratura greco-latina viene per lo più chiamato il D. di Israele: summus deus o, in greco: τον μεγαν θεον. L’epiteto potrebbe risalire in realtà alle più antiche iscrizioni di Persepoli: bhaga wazarka (“un dio grande è”) Ahura Mazda: il nostro testo conterrebbe un’ulteriore ironia sull’attitudine al sincretismo e alla teocrasia (fusione di più dei in un’unica divinità superiore) nella società ellenistica: cfr. P. Schaefer, “Giudeofobia…”, p. 56-63.
[30] Anche Tacito (loc. cit.) annota che gli ebrei hanno l’abitudine di dormire in letti separati.
[31] E’ un’antica attestazione del mito dell’ebreo untore. In realtà le donne si recavano al bagno rituale in ora tarda per mantenere la riservatezza. La percezione tradizionale esalta anzi il merito delle mogli ebree, costrette talvolta a recarsi al Miqweh con il buio nel freddo dell’inverno, pur di adempiere a questa importante Mitzwah.
[32] La circoncisione dà luogo a espressioni di scherno nell’antica Roma, per cui l’ebreo è curtus (Orazio, Satyrae I, 9), ovvero verpus (Marziale, Epigrammi, XI, 94). Rutilio Namaziano, loc. cit., v. 387-388: “questo popolo svergognato, che pratica la circoncisione”.
[33] Cfr. Tacito, Historiae, V, 5: “Hanno introdotto l’usanza della circoncisione, per farsene un segno particolare di riconoscimento”. Cfr. Maimonide, Moreh Nevukhim III, 49 e Sefer ha-Chinnukh, Prec. 2. Ma “benché presso gli ebrei rivestisse maggiore importanza, come rito nazionalistico-religioso, era in uso anche tra altri popoli dell’antico Oriente, dall’Egitto alla Siria. Perciò non regge l’osservazione dello storico che servisse agli ebrei quale segno per distinguersi dagli altri popoli” (cfr. F. Mascialino -cur.- “Cornelio Tacito, Le storie”, Zanichelli, Bologna, 1977, II, p. 390, n. 61). Forse per questa ragione Maimonide stesso (loc. cit.) dichiara di preferire la spiegazione secondo cui la circoncisione avrebbe l’effetto di temperare il desiderio, in contrasto con la credenza opposta dei Romani, che consideravano gli ebrei una “razza particolarmente incline alla libidine” (Tacito, loc. cit.): una credenza forse conseguente alla loro presunta prolificità (Menachem Stern, “Greek and Latin Authors on Jews and Judaism”, Jerusalem Academic Press, 1980, II, p. 40). Su tutta la questione si veda P. Schaefer, “Giudeofobia…”, p. 133 segg.
[34] Un mese di 30 alternato con uno di 29, in base alle lunazioni, in contrasto con l’anno solare giuliano.
[35] Si tiene conto del “secondo giorno aggiunto della Diaspora”, per aumentare il numero dei giorni non lavorati.
[36] Secondo la lettura differente di alcuni manoscritti: “fanno il Charosset e il Maror”.
[37] Le redenzione finale è effettivamente attesa di nuovo per il mese di Nissan come già avvenne in Egitto (Rosh ha-Shanah 11a), ma il Chametz è per lo più associato con il “lievito dell’impasto” (Berakhot 17a) che rende noi stessi tronfi e superbi.
[38] Si tiene conto del “secondo giorno aggiunto della Diaspora”, per aumentare il numero dei giorni non lavorati.
[39] Cfr. Targum Onqelos a Bemidbar 28, 26. E’ il nome della festa di Shavu’ot nelle fonti rabbiniche (Mishnah Rosh ha-Shanah 1, 2; Chagigah 2, 4 e a.), da intendersi come “chiusura” del ciclo pasquale segnato dal conteggio del ‘Omer, esattamente come Sheminì ‘Atzeret chiude il periodo di Sukkot (Pessiqtà Rabbati Ba-yom, p. 190 segg.)
[40] L’uso qui attestato potrebbe essere collegato con il fatto che Shavu’ot è la festa in cui D. sentenzia riguardo al prodotto dei frutti dell’albero (Mishnah Rosh ha-Shanah 1, 2). Ma secondo Saul Liebermann (“Tossefet Rishonim” I, Jerusalem, 1937, p. 130-131) andrebbe piuttosto ricollocato in occasione di Simchat Torah, come tuttora si ritrova presso i Chassidè Zanz.
[41] Questo significato attribuito a Shavu’ot dalla tradizione rabbinica (cfr. Shabbat 86b-88a) non è esplicito nella Torah. Esso è divenuto preminente dopo che l’allontanamento dalla terra ha fatto venir meno le attribuzioni agricole della festa come “giorno delle primizie” (cfr. Bemidbar 28, 26).
[42] Singolare il fatto che, a differenza di Pessach e Shavu’ot, il testo non menzioni il secondo giorno di Rosh ha-Shanah. Secondo alcuni, in una fase più antica, esso non era osservato, in particolare nella Diaspora, basandosi sull’assunto che “dai tempi di ‘Ezra in poi, non è mai capitato che il mese di Elul fosse “pieno” e si rendesse necessario il raddoppio (Mishnah Rosh ha-Shanah 1, 3, Rashì e Bertinoro ad loc.). E’ poi stato stabilito che si osservasse Rosh ha-Shanah due giorni sempre dappertutto (Betzah 4b). Su tutta la questione, assai complessa, si veda: Rav S.Y. Zevin, “The Festivals in Halakhah”, Mesorah, New York, 1981, I, p. 67 segg.
[43] Si intendono gli shofarot (cfr. Shabbat 36a sullo scambio di nomi).
[44] Il riferimento potrebbe essere all’uso di Abayè nel Talmud (Keritot 6a; Horayot 12a) di iniziare l’anno con assaggi augurali di determinati frutti, basandosi per lo più sull’allusione contenuta nel loro nome in aramaico. Se l’auspicio che ne deriva è negativo, viene attribuito ai nemici, che secondo alcuni sono da identificarsi non con avversari fisici esterni, bensì con i nostri oppositori interiori: l’istinto del male e le trasgressioni, che siamo chiamati a debellare nel Giorno del Giudizio (Mordekhay a Yomà). Cfr. A. Somekh, “Kal le-Rosh, Il Seder di Rosh ha-Shanah secondo il Minhag della Comunità di Cuneo”, Zamorani, Torino, 2002, p. 16-17.
[45] Sulle fonti talmudiche e l’importanza della vigilia di Yom Kippur come giorno di banchetto si veda: Alberto Somekh, “Sulla Mitzwah di mangiare la vigilia di Yom Kippur”, in Segulat Israel, 11, 2016, p. 7 segg.
[46] L’espressione è attestata nel Talmud, Yer. Rosh ha-Shanah I, 57b; ‘Avodah Zarah I, 39b e a. “Fu piuttosto nella Diaspora che Yom ha-Kippurim divenne il giorno più solenne del calendario ebraico. Privata del culto sacrificale che ogni giorno riscattava i fratelli di Gerusalemme, la dispersione, tanto più, aderiva al “Digiuno”, come essa chiamava il giorno della Riparazione, per ottenere l’espiazione annuale delle sue trasgressioni giornaliere… Nella traduzione greca di Yesha’yahu 1, 13, fatta nella prima metà del secondo secolo a. E.V., il giorno della Riparazione è chiamato il ‘Gran Giorno’” (Elias Bickerman, “Gli ebrei in età greca”, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 191). Da qui il nome Yomà (“il giorno” per antonomasia), attribuito al trattato su Yom Kippur nella Mishnah. E’ noto che anche lo Shabbat era considerato giorno di digiuno, forse per il divieto di cucinare (frigida sabbata, nel poema di Rutilio).
[47] La Mishnah Yomà 8, 4 stabilisce che i bambini vanno abituati al digiuno di Kippur gradatamente e non prima del decimo anno di vita. Essi sono tenuti al digiuno completo, sempre che la salute glielo consenta, un anno prima del compimento della maggiorità religiosa.
[48] Questo argomento e i successivi non trovano riscontro nelle fonti, né nella Tefillah di Yom Kippur.
[49] Cfr. Nechemyah 8, 16; Mishnah Sukkah 4, 8; ‘Avodah Zarah 3a.
[50] Non è menzionato il mirto: secondo alcuni costituiva il recinto dei giardini.
[51] La Halakhah proibisce il furto anche a danno di non ebrei (ghezel ha-goy; Tosseftà Bavà Qammà 10, 15; 113b). Non è lecito pertanto procurarsi le “quattro specie” senza il consenso dei proprietari, che siano ebrei o no (Mishnah Sukkah 3, 1 segg.; Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 649, 1 e Remà ad loc.). .
[52] Così erano chiamate per metonimia le “quattro specie” del Lulav (Sukkot 30b), per il fatto che vengono scosse durante la recitazione della prima parte di Tehillim 118, 25 (cfr. Mishnah Sukkah 3, 9) e poi condotte in processione durante i giri chiamati a loro volta Hosha’anot come i brani che li accompagnano. Secondo un’altra spiegazione il nome è riferito al mazzetto supplementare di salice (‘aravah) che si prende il settimo giorno di Sukkot, Hosha’anà Rabbà (Mishnah Sukkah 4, 5).
[53] Per il paragone cfr. Wayqrà Rabbà 30, 2.
[54] Cfr. 2Shemuel 6, 16; Tehillim 114, 4 e 6, sebbene il Targum aramaico sia differente.
[55] Cfr. Targum Onqelos a Devarim 16, 13; Ester Rabbà 7, 12. Qui termina la menzione delle feste annuali: Simchat Torah non è ricordata perché di origine più tarda rispetto all’epoca del nostro autore, il quale avrà evitato di parlare di Chanukkah per non cadere nell’anacronismo e, ovviamente, di Purim. “Il S.B. disse a Haman: ‘Malvagio che non sei altro! Getti il malocchio sulle loro feste? Ecco Io ti farò cadere davanti a loro ed essi aggiungeranno un’ulteriore festività dedicata alla tua caduta’” (Ester Rabbà 7, 12).
[56] E’ singolare che dopo aver menzionato per alcune feste il “secondo giorno della Diaspora” cita qui l’Anno Sabbatico e il Giubileo che si osservano solo in Eretz Israel. Louis Ginzberg (loc. cit.) ritiene che questo costituisca una testimonianza sulla provenienza del Targum. Semplicemente interessa al traduttore accumulare quanti più argomenti possibile sulla presunta indolenza degli ebrei, nello spirito della letteratura midrashica che tende alle amplificazioni.
[57] Nel Rosh Chodesh non è proibito il lavoro, ma era allora consuetudine astenersene (cfr. Meghillah 22b e Rashì ad loc.; Rosh ha-Shanah 23a; Shabbat 24a e Tossafot ad loc.). Sulla neomenia parrebbe esservi un riferimento in Orazio, Satyrae I, 9, in cui l’autore, importunato per la strada da un seccatore, chiede aiuto a un amico poeta che si schermisce: “’oggi è il trenta del mese, e inoltre, è sabato (tricesima sabbata): vuoi fare offesa ai circoncisi ebrei?’ ‘Ma guarda che non ho superstizioni (religio) siffatte’, gli rispondo” (trad. E. Cetrangolo, “Quinto Orazio Flacco, Tutte le Opere”, Sansoni, Firenze, 1978, p. 315). “L’interpretazione moderna (Lejay-Villeneuve) colloca una virgola tra tricesima e sabbata: si tratterebbe di un giorno di luna nuova (tricesima) che coinciderebbe con un sabato. Nel giorno della luna nuova, che una volta si celebrava più solennemente di oggi, gli ebrei evitavano ogni lavoro non rigorosamente necessario. Quando il Sabato coincide con il capo-mese, vi è un duplice motivo per non occuparsi di affari” (Renée Neher Bernheim, “L’ebraismo nel mondo romano”, Scuola della Comunità Israelitica di Milano, 1969, p. 115). M. Stern, op. cit., I, p. 326 porta altri studiosi a supporto di questa tesi.
[58] Dal momento che dello Shabbat ha già parlato in precedenza, potrebbe qui riferirsi a shavua’ nel senso di “settennio” (cfr. Mishnah Sanhedrin 5, 1).
[59] Il pregiudizio secondo cui gli ebrei occupano spazi non loro dopo averne scacciato gli abitanti era condiviso nel mondo antico: cfr. Tacito, Historiae, V, 3: “Dopo un viaggio ininterrotto di sei giorni, nel settimo occuparono, sloggiati che ne ebbero gli abitanti (pulsis cultoribus)”. Le terre dove poi sorse la loro città e fu consacrato il tempio”.
[60] 2Shemuel 8, 2 e comm. Si riferisce alla guerra intrapresa da David contro i Moabiti. Dopo averli sconfitti, ne mise a morte i due terzi e un terzo fu risparmiato, misurandoli con la corda secondo il costume di allora. Il Midrash spiega che si trattò di una rappresaglia per il fatto che i Moabiti avevano sterminato la famiglia del re dopo aver promesso loro sostegno (1Shemuel 22, 3-5). Per bocca di Haman, i Persiani ora si identificano con le vittime di David.
[61] Secondo il Midrash questi era un antenato diretto della prima moglie del re Achashwerosh, Washtì.
[62] L’uso dell’ebraico, lingua incomprensibile, ha spesso destato sospetto.
[63] Cfr. Devarim 10, 22.
[64] Ognuno ha ciò che merita: se gli ebrei soffrono, significa che sono colpevoli.
[65] Da qui in avanti la traduzione del versetto.
[66] Metafora di povertà proverbiale. Cfr. il detto popolare: “che tuo nipote venda cera, ma tu non soffrire (per lasciargli l’eredità)” (Sanhedrin 95a). Secondo un’altra interpretazione, egualmente spregiativa: “alcuni vendono zucche, altri appendono poponi” (cfr. Meghillah 12ab). Ma potrebbe anche contenere un’allusione positiva: l’espressione בוצינא דנהורא significa: “luminare” (cfr. il gioco di parole in Bereshit Rabbà 85, 4 che traduce שוע (lett. “cera” in Bereshit 38, 2) come se fosse appunto בוצינא.
[67] La Torah riconosce invece il divieto di ingannare il prossimo nelle compravendite (onaat mamòn), qualora il prezzo versato differisca di almeno 1/6 rispetto a quello di mercato a svantaggio della controparte (Wayqrà 25, 14; Mishnah Bavà Metzi’à 4, 3 segg.). Allo stesso periodo in cui avvenne la vicenda di Purim risalgono i papiri della guarnigione ebraica di Elefantina nel sud dell’Egitto, con il compito di sorvegliare la frontiera meridionale dell’impero persiano. I testi documentano una grande attenzione al diritto anche nelle transazioni con i non ebrei che componevano gli altri contingenti, in contrasto con l’affermazione qui attribuita a Haman. Stride nelle sue parole la contraddizione fra l’umile condizione lavorativa degli ebrei e la presunta attitudine a ingannare negli affari, che presume invece l’esistenza di interessi cospicui.
[68] Comincia la traduzione del verso successivo: Ester 3, 9.
[69] Un kikkar equivaleva a 3.000 sicli: Abrabanel (a Shemot 38, 21) lo quantifica in 12.300 ducati italiani del suo tempo. La cifra stanziata da Haman era pari dunque a trenta milioni di sicli (Tos. Meghillah 16 e Kad ha-Qemach). Secondo una spiegazione i 10.000 kikkar d’argento corrispondevano ai 10.000 dirigenti ebrei che Nevukhadnetzar aveva esiliato (cfr. 2Melakhim 24, 14).
[70] E’ la parafrasi dell’ultima parte del v. 8: “e al re non conviene lasciarli (in vita)”. “Sembra che questo supplemento sia stato aggiunto come collegamento fra ciò che segue e ciò che precede. Haman, desideroso di sterminare gli ebrei aveva l’ansia di ottenere il permesso reale di farlo. Temendo che il re non l’avrebbe autorizzato per via della perdita economica che sarebbe derivata al regno dal loro sterminio, Haman punta anzitutto sull’aspetto negativo del problema – ‘che beneficio deriverebbe al re se li lasciasse in vita? -: essi in realtà non contribuiscono alle finanze del regno! Per rafforzare la sua argomentazione egli presenta poi il lato positivo (nel verso successivo): il suo proposito di arricchire il tesoro reale mediante il versamento di 10.000 kikkar d’argento” (Bernard Grossfeld, “The First Targum to Esther”, Sepher-Hermon Press, New York, 1983, p. 128-129).