Politici e militanti della sinistra israeliana, inclusi alcuni militari, negli ultimi mesi hanno accusato il Primo ministro Benjamin Netanyahu di voler trasformare Israele in una “dittatura”, per via del suo progetto di riforma giudiziaria. Si tratta di un’affermazione palesemente falsa, che merita di essere ribaltata. In Israele, infatti, sono la Corte Suprema, e più in generale la sua magistratura, a essere gli apparati statali meno democratici e più privi di contrappesi, come voluto da Aharon Barak.
Moshe Landau, quarto presidente della Corte suprema di Israele, nel 2000, come ha ricordato lo storico Kenneth Levin, scrisse: “Penso che Barak non abbia accettato, e non accetti, il posto legittimo che la corte dovrebbe avere tra le varie autorità del nostro regime”. Inoltre, contestò a Barak il tentativo di imporre, in tutti i settori della vita israeliana, “alcuni valori morali che ritiene appropriati. E questo equivale a una sorta di dittatura giudiziaria che trovo del tutto inappropriata”.
Un’opinione condivisa anche da un altro celebre giurista, Amnon Rubinstein, che sull’attuale situazione giudiziaria si è così espresso: “si è creata una situazione in cui la Corte Suprema può riunirsi e decidere su ogni questione immaginabile […] Si è trattato di una rivoluzione totale nel pensiero giudiziario che ha caratterizzato la Corte Suprema delle generazioni precedenti, e ciò le ha conferito la reputazione di tribunale più attivista del mondo, suscitando ammirazione e critiche. In pratica, sotto molti aspetti la Corte Suprema sotto Barak è diventata un governo alternativo”.
È questo il punto a cui il governo presieduto da Netanyahu vuole mettere mano: riportare la Corte Suprema nell’alveo dello Stato di Diritto, impedendole di continuare a essere una “dittatura giudiziaria” o un “governo alternativo” tramite il potere ipertrofico conferitole da Barak. Lo Stato di Israele, infatti, non ha una costituzione vera e propria. Si è semplicemente dato delle leggi fondamentali che, è bene ricordare, non rappresentano, strettamente, una costituzione. Tali leggi non sono state approvate da una Costituente né hanno conosciuto un iter legislativo aggravato rispetto a quello delle leggi ordinarie. Eppure Barak dichiarò, in contrasto con la volontà di coloro che le avevano emanate, che le leggi fondamentali, con le loro ampie affermazioni di principio, rappresentano una costituzione de facto, sulle quale è chiamata a pronunciarsi la Corte Suprema.
L’appropriazione della Corte operata da Barak non ha precedenti nelle democrazie occidentali. Nel 1992, affermò che le leggi Base approvate quell’anno, la Legge Base sulla Dignità e la Libertà, e la Legge Base sulla Libertà di Occupazione, conferivano alla Corte Suprema il diritto di cassarequalsiasi legge da quest’ultima reputata “incostituzionale”. Se, come poc’anzi sottolineato, Israele non ha una Costituzione approvata, come è normale che sia, da una Costituente o da un Parlamento, che definisca anche i limiti del potere giudiziario, Barak stava solamente rivendicando il suo personale diritto a decidere cosa fosse incostituzionale e cosa no.
Il ramo giudiziario, per quanto “supremo”, non è chiamato a trasformare leggi ordinarie, quali sono le leggi base, in norme costituzionali per poi, in base a un pregiudizio politico (di sinistra e post-sionista nel caso di Barak), bocciare le leggi varate dalla Knesset. Fanaticamente convinto delle bontà delle sue opinioni, Barak, nel suo libro Interpretation in Law, si spinse così in là da affermare che, in caso di conflitto tra valori “democratici” e valori “ebraici”, il giudice “dovrebbe agire come farebbe la comunità illuminata”, intendendo con questa definizione il segmento più progressista del suo Paese. Il “mandarino della legge”, come venne a definirlo Ben Dror Yemini, stava invitando i giudici a spogliare Israele del suo contenuto nazionale e particolare.
Sulla base del corso datole da Barak, oggi, il Presidente della Corte Suprema è l’uomo più potente dell’architettura governativa israeliana. Il quadro è già di per sé grave senza contare il modo in cui Israele seleziona i giudici che, di fatto, permette al Presidente della Corte Suprema di orientare il processo di selezione. Questo meccanismo corrompe tutto il sistema, spingendo i magistrati ad accodarsi alle posizioni politiche della Corte nel tentativo di fare carriera.
La stortura è palese. Ma allora, da dove viene la chiassosa opposizione alla riforma? La spiegazione è rintracciabile nel fatto che la sinistra, Israele in questo senso non fa eccezione, non percepisce le sconfitte elettorali come parte del gioco politico tipico delle democrazie, ma le vede come un ostacolo al progresso verso la loro utopia universalista. Sulla scia della campagna terroristica da parte di Arafat nel 2000, che costò migliaia di vite israeliane, l’opinione pubblica si è spostata a destra, consegnando ripetutamente al Likud il governo della nazione. Da allora, la sinistra si è abbarbicata alla Corte Suprema, vedendola come un contrappeso alla forza elettorale dei conservatori.
Molte voci ragionevoli, come quella del “liberal” Alan Dershowitz, professore emerito di diritto all’Università di Harvard, che insistono sul fatto che la riforma proposta non avrà alcun impatto negativo sulla qualità della democrazia israeliana, sono state soffocate dall’urlo della folla. I manifestanti anti-Netanyahu ricordano “Il Popolo Viola” o i “Girotondi” dei nostri primi anni Duemila. Una torma di fanatici arroganti raccolti attorno a una manciata di parole d’ordine (“democrazia”, “legalità”…) mal comprese e ancor peggio applicate.
Come finirà questa vicenda è difficile a dirsi. Ma se si concluderà con l’annullamento del processo di riforma, allora Israele rimarrà una nazione in cui una delle principali istituzioni è destinata a rimanere, dolorosamente, al di sotto di un livello di democraticità accettabile.