Questa è una delle più brevi parashòt della Torà. Nella maggior parte degli anni viene letta insieme con quella successiva di Vayèlekh. Quest’anno viene letta da sola. Essa inizia con queste parole: “Voi siete rimasti oggi tutti davanti al Signore, Iddio vostro, i vostri capi [di migliaia, di centinaia], i vostri capi di tribù, i vostri anziani e i vostri sovraintendenti, tutti gli uomini d’Israele (Devarìm, 29:9);
Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta la parola “oggi” dicendo: “Come questo giorno che esiste e che fa luce e oscurità, così Egli ti ha illuminato e così in futuro ti illuminerà”. Tutto questo per dare coraggio al popolo dopo la parashà precedente di Ki Tavò nella quale erano state elencate tutte le punizioni alle quali il popolo sarebbe stato soggetto se non avesse osservato la Torà.
R. Joseph Pacifici (Firenze, 1928-2021, Modiin Illit) in Hearòt ve-He’aròt (p. 229) aggiunse che i figli d’Israele si resero conto che era difficile vivere con tribolazioni; per questo Moshè spiego loro che le sofferenze servono anche a dare forza (“What doesn’t kill you, makes you stronger“). Qualche volta proprio le sofferenze ci educano e ci danno la direzione meglio di quanto possano fare i maestri e i profeti ai quali spesso non abbiamo prestato attenzione. Nella vita sono pochi coloro che non sono soggetti a sofferenze. E data questa situazione dobbiamo sapere come sfruttare le sofferenze per migliorare noi stessi.
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 202) citò lo Zohar (Shemòt, 189a) dove in relazione al versetto “E fu colà [in Egitto] una grande nazione” (Shemòt, 26:5) è scritto che solo in Egitto gli israeliti poterono diventare un popolo. Il popolo d’Israele diventa grande nelle crisi. Fu necessaria l’esperienza della schiavitù e la vita sotto la tirannia di un regime malvagio per rendersi conto di cosa sia il male. Yosef fu venduto a Potifar, il boia del faraone, per rendersi conto della crudeltà umana. Se Ya’akov fosse rimasto in Canaan e non avesse sperimentato la disonestà di Lavan i suoi discendenti non avrebbero sviluppato quella speciale sensitività nel trattare in modo corretto ed onesto con il prossimo. Senza le sofferenze d’Egitto non avremmo capito la legge divina di non opprimere lo straniero e la mitzvà di amare il prossimo.
Lo stesso r. Soloveichik in Kol Dodì Dofèk domanda: Cosa dovrebbe fare il sofferente per vivere con la sua sofferenza? In questa dimensione, l’enfasi è rimossa dalle considerazioni causali e teleologiche ed è diretta al regno dell’azione. La domanda non è più il perché delle sofferenze, ma piuttosto cosa siamo obbligati a fare a seguito delle sofferenze. La risposta halakhica a questa domanda è molto semplice. La sofferenza viene ad elevare l’uomo, a purificare il suo spirito e a santificarlo, a purificare la sua mente e a purificarla dalla pula della superficialità e dalle scorie della crudezza; a sensibilizzare la sua anima e ampliare i suoi orizzonti. In generale, lo scopo della sofferenza è riparare l’imperfezione nella persona dell’uomo.
Ma anche le sofferenze e le persecuzioni avranno fine. Il profeta Yesha’yà ci dice (Isaia, 25: 6-9): “L’Eterno degli eserciti […] annienterà per sempre la morte; il Signore, l’Eterno, asciugherà le lacrime da ogni viso, toglierà via da tutta la terra l’onta del suo popolo, perché l’Eterno ha parlato”.
R. David Kimchi detto Radak (Narbona, 1160-1235) spiegò: “Non si morrà più per le persecuzioni ma solo di morte naturale”. E il profeta conclude con queste parole: “In quel giorno, si dirà: «Ecco, questo è il nostro Dio: in lui abbiamo sperato, ed egli ci ha salvati. Questo è l’Eterno in cui abbiamo sperato; esultiamo, rallegriamoci per la sua salvezza!»”.