“E avvenne, nel mandare il faraone il popolo…” (Shemòt 13;17)
La parashà, che leggiamo questo Shabbat, narra dell’uscita dall’Egitto e del miracoloso attraversamento del Mar Rosso.
Essa è legata alla parashà di Bo che abbiamo letto lo scorso Shabbat e che si conclude con la mitzvà di indossare i tefillin.
Si chiedono i commentatori, quale sia il nesso fra la mitzvà dei tefillin, comandata quando erano ancora schiavi in Egitto e il passaggio del Mar Rosso.
Nel midrash (Shemot Rabbà 20;7)si spiega l’espressione “vahì – e avvenne” dicendo che essa è considerata anche una espressione di rassegnazione: ossia è il faraone che esclama “vaì” che, secondo il midrash simboleggia rinuncia. Nel talmud si dice che “uno schiavo che fugge e il padrone rinuncia ad esso, lo schiavo ha il dovere di indossare i tefillin. (T. B. Ghittin 40a).
Ossia: un ebreo in condizione di schiavitù è esente da una gran parte di obblighi e di doveri, così come privo di diritti.
Gli ebrei, schiavi in Egitto, non avevano il dovere di indossare i tefillin, perché in stato di schiavitù e quindi esenti da questa mitzvà.
Nel momento in cui il faraone esclama: “vaì” termine che esprime rinuncia al popolo schiavo, esso acquisisce il dovere di osservare le mitzvòt e quindi anche indossare i tefillin che simboleggia il legame fra esso e il Signore.
Shabbat shalom