«…E disse Giuseppe ai suoi fratelli: io sono Giuseppe vostro fratello, forse che mio padre è ancora vivo?».
Finalmente con questa Parashà, termina, almeno momentaneamente, il dramma della famiglia di Giacobbe: Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli e rivede dopo vent’anni il padre.
Tutto ciò non prima di un’accesa discussione fra Giuda, che prende in mano la situazione, e Giuseppe stesso che ancora si ostina a non rivelare la sua vera identità, accusando questa volta Beniamino di avergli rubato il calice con cui, « un uomo come me opera cose di magia».
Una volta però che Giuda, avendo ormai compreso che l’uomo con il quale sta discutendo e che tanto li aveva osteggiati apparteneva alla sua famiglia, trova il modo di parlare con le giuste parole, provocando così in Giuseppe, una forte reazione che lo induce finalmente a rivelare la sua vera identità ai fratelli.
Con la parashà di Vaiggash, si avvera la profezia fatta dal Signore ad Abramo nel capitolo 15 del libro di Bereshit, in cui è detto: «Ti faccio sapere che la tua discendenza sarà straniera in una terra non loro, e verranno fatti schiavi e saranno oppressi, per quattrocento anni…dopodiché usciranno con grandi ricchezze».
Infatti, con la parashà che leggeremo sabato mattina, inizia il periodo di schiavitù dei Figli di Israele in Egitto, periodo che dura, non quattrocento anni, come predetto ad Abramo, ma quattrocentotrenta, come detto nel libro di Shemot al capitolo 12.
La Parola ‘Avdut, che viene comunemente tradotta con il termine “schiavitù”, vuole in realtà indicare una condizione di vita, agiata o non, in cui un essere vivente ( in quanto questo termine viene usato anche nei confronti degli animali), vive lontano dal proprio ambiente naturale.
L’ambiente naturale del Popolo ebraico è Eretz Israel, o, ai tempi di Giacobbe, la terra di Canaan; uscendo fuori da essa, gli ebrei vivono in schiavitù o in Diaspora.
Con ciò, si può asserire che durante i quattrocentotrenta anni di schiavitù egizia, gli Ebrei, non hanno sempre vissuto periodi di persecuzione o di sofferenza, altrimenti non si potrebbe spiegare la ragione per cui, in ogni loro lamentela durante i quaranta anni di permanenza nel deserto, in condizione di libertà, rimpiangevano sempre la vita in Egitto («ricordiamo i pesci che mangiavamo gratuitamente in Egitto, le zucche, i cocomeri, i porri le cipolle e gli agli»…Numeri cap. 11).
Chiaramente però, oltre al benessere materiale non vi era null’altro, in quanto, non era data loro la LIBERTÀ di agire in modo autonomo e in osservanza delle proprie tradizioni familiari, di pensare secondo l’individualità propria di popolo, visto che ormai il gruppo di persone era talmente elevato che da potersi definire popolo (scese in Egitto un gruppo di settanta persone, ne uscirono dopo quattrocento anni con seicentomila uomini atti alla guerra).
Nonostante ciò, finché la figura di Giuseppe era tenuta in considerazione, agli Ebrei fu dato un territorio a latere dei confini dell’Egitto, in modo da dar loro una certa autonomia, sia dal punto di vista della loro attività («sono uomini di campo i tuoi servi») sia dal punto di vista religioso (gli egiziani erano pagani, la famiglia di Giacobbe era monoteista).
Comunque, nel seguito della parashà, leggiamo dell’incontro emozionante fra Giuseppe e suo padre che lo aveva creduto morto da venti anni, e della bellissima espressione, che viene riportata dalla Torà, attribuita a costui «questa volta posso morire» come a sottintendere che quasi aspettava di morire perchè sperava di rivedere un giorno il suo amato figlio perso alla giovane età di diciassette anni.
La parashà si conclude con ulteriori successi in Egitto, da parte di Giuseppe che, approfittando della carestia, riesce a far entrare nelle casse del Paese grandi somme e grandi ricchezze.