La parashà di vajelekh, calza perfettamente con il senso di questo particolare shabbat, che nonostante ciò prende il nome dalla haftarà che in esso leggeremo. “Shuva Israel ad A’ Elo-hekha ki kashalta ba avonekha – Torna Israele fino al Signore tuo D-o, poiché sei inciampato nella tua colpa”. Gli aseret jemé teshuvà – i dieci giorni di teshuvà che iniziano con rosh ha shanà e terminano con kippur, hanno la finalità di farci riflettere sul senso vero della vita:
Un uomo nasce, vive operando tutte quelle che sono le sue possibilità per il bene suo e del prossimo per poi lasciare tutto perché è finita la sua vita.
Nella parashà, assistiamo agli ultimi momenti della vita di Mosè, colui che per compito divino dedica tutte le sue forze per portare il popolo ebraico fuori dall’Egitto e verso la terra di Israele, prende più volte le sue difese, conscio degli errori di costoro e, ora che si trovano alla fine del viaggio, egli non può entrare nella terra di Israele e morirà nel deserto.
Il messaggio della Torà è preciso e, più volte viene ribadito anche dai Maestri della mishnà:
“lo alekha ha melakhà ligmor velò attà ben chorin lehibbattel mimmenna – Non sta a te completare l’opera, ma non hai nemmeno la facoltà di esonerarti da essa” (avot 16).
Mosè ha avuto un compito ben preciso: quello di portar fuori dall’Egitto il popolo ebraico ed insegnar loro la Torà e le mizvot. Ora era necessario dover combattere, consapevoli dell’aiuto divino. Mosè non era più in grado di fare ciò ed il compito è passato a Giosuè.
È lo stesso messaggio e la stessa finalità di Yom Kippur: nonostante sia l’unico giorno all’anno in cui la spiritualità supera ogni altro elemento della razionalità c’è un forte richiamo alla vita.
Si può apprezzare il bene e la bellezza della vita soltanto quando si conosce la sofferenza e, in quel momento ogni cosa semplice ma positiva, diventa un grande dono.
Per venticinque ore digiuniamo e preghiamo, senza aver alcun legame con la materialità. Tutto ciò che è materiale viene “spento” e noi abbiamo così la possibilità, non condizionati da fattori esterni, di concentrarci su noi stessi e sulla nostra precarietà. Affranti dalla stanchezza e dal digiuno non desideriamo altro che un sorso d’acqua e un pezzo di pane; ma soltanto quando saremo autorizzati a mangiare, ringrazieremo D-o per il bene che ci concede.
Mosè, nasce in una condizione di schiavitù, anche se viene allevato a corte del Faraone, non è quella la sua condizione ideale e il deserto, nonostante la fatica e la non leggera sopportazione del popolo, sono la libertà e soprattutto l’identità di popolo libero.
Non ha gioito della condizione “completa” (entrando in Israele), ma ha svolto il suo ruolo.
Non dobbiamo quindi preoccuparci di raccogliere il frutto, ma occuparci della piantagione corretta del seme.
Questo è il forte messaggio e insegnamento di vita che kippur manda non solo agli ebrei ma a tutta l’Umanità che ha volontà di fare il bene e credere nel prossimo!
Shabbat shalom