Tonia Mastrobuoni
Sul murale compariva un soldato con la faccia da maiale e “Mossad” inciso sull’elmetto. Un’altra figura esibiva i tratti che gli antisemiti attribuiscono agli ebrei: naso adunco e i “payot”, i riccioli sulle tempie tipici degli ortodossi, e una scritta “SS” sulla bombetta. Un mese fa, quando il dipinto La Giustizia dei popoli del collettivo indonesiano Taring Badi è stato eretto sulla piazza principale di Kassel per l’inaugurazione di Documenta, il brusio che ha accompagnato dallo scorso inverno una delle mostre più importanti al mondo si è trasformato in una bufera.
Sulle prime, il murale è stato goffamente e parzialmente oscurato. Infine, dopo le indignate reazioni della Comunità ebraica (“la libertà artistica finisce dove comincia la xenofobia” ha tuonato il presidente, Josef Schuster), è stato rimosso, tra gli applausi dei visitatori. Ma le polemiche sulla quindicesima edizione di Documenta non si sono placate. Il dipinto antisemita è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E dopo mesi di polemiche, di scuse un po’ timide e di silenzi imbarazzanti, la direttrice generale Sabine Schormann si è dimessa sabato scorso dal suo incarico. Il consiglio di sorveglianza ha fatto sapere che il murale “aveva chiaramente superato una linea rossa causando un danno considerevole a Documenta”.
In realtà la discussione era cominciata già lo scorso inverno, quando il collettivo indonesiano Ruangrupa, scelto dai tedeschi per curare la quindicesima edizione della mostra, aveva optato per alcuni artisti che sostengono il BDS, il movimento che invita al boicottaggio di Israele. In Germania è condannato persino da una risoluzione del Bundestag: quando un portavoce del Juedisches Museum di Berlino osò twittare il suo sostegno al BDS, si dovette dimettere persino il direttore. In Germania non si scherza con l’antisemitismo. E sin dalle prime battute, la mostra è stata accompagnata da enormi critiche.
Secondo l’ambasciata israeliana “Documenta promuove propaganda nello stile di Goebbels” e alcune opere “rievocano capitoli oscuri della storia tedesca”. Tanto che nell’ultimo mese, alcune opere di artisti filopalestinesi esposte a Kassel sono state vandalizzate. All’inaugurazione, non è mancato un passaggio critico sulle scelte dei curatori persino nelle parole del presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier: “E’ piuttosto chiaro che nessun artista ebreo o israeliano è stato invitato a questa importante mostra d’arte”, ha dichiarato.
Le buone intenzioni degli organizzatori di Kassel si sono rivelate un boomerang. L’idea lodevole di affidare a un collettivo asiatico il compito di attirare lo sguardo dell’Europa sull’arte dei Paesi asiatici o africani si è infranto contro un pregiudizio contro gli ebrei che purtroppo non conosce confini. Sul dipinto dello scandalo, Ruangrupa ha chiesto scusa: “E’ stato un errore e ci scusiamo per la delusione, la vergogna, la frustrazione, il tradimento e lo shock che quegli stereotipi hanno causato nei visitatori”. Gli artisti del dipinto hanno addotto come giustificazione il fatto che si trattasse di una condanna dei crimini del sanguinario dittatore indonesiano Suharto, sostenuto per anni dall’Occidente.
Forse il bilancio più lucido lo ha espresso Maron Mendel, responsabile dell’Istituto Anne Frank, chiamato mesi fa da Susanne Schormann come consulente esterno. Mendel aveva gettato la spugna dopo appena due settimane perché si sentiva “una foglia di fico” per una mostra che non riusciva ad affrontare seriamente il problema dell’antisemitismo di alcune opere. “C’è un problema di fondo e riguarda l’immagine globale degli ebrei: n questa mostra Israele è dipinto come uno stato coloniale. E ciò è incompatibile con la coscienza della Germania attuale, nata dalle ceneri dell’Olocausto e percepita come un porto sicuro, per gli ebrei di tutto il mondo”.