“Pinechas ben Elazar ben Aharon ha Cohèn heshiv et chamatì meal benè Israel – Pinechas figlio di Elazar figlio di Aharon il sacerdote, ha fatto tornare indietro la mia ira da sui figli di Israel.
Così inizia la parashà che leggeremo questo shabbat e che prende il nome proprio dal protagonista Pinechas.
Egli era nipote di Aharon, il sommo sacerdote che fu pianto nel momento della sua morte, da tutto il popolo indistintamente.
I maestri della mishnà, ci insegnano ad essere fra i discepoli di Aharon che amava la pace ed inseguiva la pace.
Eppure, leggendo la fine della parashà della scorsa settimana e l’inizio della nostra parashà, sembrerebbe che suo nipote non fosse tanto discepolo di suo nonno.
Eppure fra i primi versi della nostra parashà, troviamo scritto:
“Hinnenì noten lo et beritì shalom – Ecco Io sto concedendo a lui il mio patto di pace”.
Come è possibile che, dopo ciò che di violento ha fatto Pinechas, il Signore conceda a lui un patto di pace?
Nella concezione generale della nostra società, quando si nomina il termine “pace” scatta immediatamente nel nostro inconscio perbenismo, la totale mancanza di violenza.
Ma a volte la violenza è fatta proprio da chi la pace professa.
Infatti molte volte per ristabilire una situazione di equilibrio ed armonia, all’interno di una società, ci vuole proprio un’azione forte che interrompa l’oblio e l’indifferenza di chi assiste
ad ingiustizie.
Pace non significa assenza di violenza, bensì completezza e giustizia.
Il popolo non avrebbe potuto sopravvivere ad una condizione creatasi all’interno del popolo, dove regnava la corruzione fisica e morale.
Pinechas “spezza una lancia” contro questa situazione e porta un sussulto in mezzo al popolo, ristabilendo quella condizione necessaria per vivere in rmonia con se stessi e con il popolo.
“Kinnà,” quindi, non significa violenza, bensì zelo e le azioni di zelo, che a volte sono necessarie a ristabilire una necessaria armonia all’interno di una società.
Shabbat shalom