La maggior parte di loro ha paura a incontrarsi per celebrare insieme. A osservare lo Yom Kippur sono solo una decina di ebrei della comunità della capitale. L´unica sinagoga rimasta è stata sprangata con tavole e assi di legno. Molti non escono da casa nel timore di essere rapiti oppure uccisi.
AMIT R. PALEY
BAGDAD – Lunedì scorso, mentre nel giorno sacro del calendario ebraico il sole tramontava su Bagdad, l´ultimo rabbino rimasto nella capitale si accomodava per la sua ultima cena di Yom Kippur in Iraq: una fetta di torta e due bicchieri di latte. Yom Kippur, il giorno ebraico dell´espiazione, ha inizio con il digiuno e si chiude con una festa di celebrazione. Ma, ha ammesso Emad Levy, quest´anno c´era poco da festeggiare. Ormai a osservare lo Yom Kippur sono solo una decina di ebrei della comunità ebraica di Bagdad, nata 2.600 anni fa. La maggior parte di loro ha paura a incontrarsi per celebrare insieme.
Così Emad Levy si è seduto da solo per cena. In un colloquio telefonico ha detto di aver appena terminato di cantare i versi della speranza che concludono il servizio di Yom Kippur. «Che ci sia concesso un buon anno nel libro della vita», canta nella sua camera da letto. Levy sa che le sue preghiere per la pace non saranno esaudite in Iraq. Anche se la carneficina che sta precipitando il Paese in una guerra civile ha fatto vittime tra gli arabi sunniti e i musulmani sciiti, nessun gruppo è più terrorizzato della comunità ebraica né è un bersaglio più vulnerabile.
L´unica sinagoga rimasta nella capitale, un edificio rosa e giallo privo di qualsiasi contrassegno, è stato sprangato con tavole e assi di legno da quando oltre tre anni fa fu definito “il luogo di raduno dei sionisti”. La maggioranza degli ebrei non lascia la sua casa nel timore di essere rapita o uccisa. Perfino al telefono Levy non parla direttamente di Israele, perché non si può mai sapere chi sia in ascolto. «È come se vivessi recluso in una prigione», racconta. «Per me qui non c´è futuro. Per vivere dovrò andarmene».
Il conflitto iracheno è diventato insostenibile persino per il popolo israeliano, da tempo abituato a soffrire e mandato in esilio da Nabuccodonosor 26 secoli fa a Babilonia, in quello che è oggi l´Iraq centrale. Dopo la fondazione di Israele nel 1948 la famiglia di Levy è sopravvissuta ai sempre più frequenti e feroci attentati antisemiti, all´esecuzione nel 1969 di una dozzina di ebrei accusati di essere spie dello Stato israeliano, e all´incessante sorveglianza da parte del regime di Saddam Hussein. Dopo l´invasione del 2003 guidata dagli Stati Uniti, il padre di Levy si è trasferito in Israele. Anche lui aveva pensato di andarsene, ma è rimasto in Iraq per prendersi cura di un ebreo ottantenne, diabetico e in fin di vita. Ora che dell´uomo malato si prendono cura alcuni amici curdi, Levy vuole andarsene e lo farà non appena sarà riuscito a vendere la sua casa. Non si affiderà però a un intermediario immobiliare, che potrebbe truffarlo o fare di peggio, e così è in attesa che nei prossimi mesi un suo amico torni in Iraq per gestire i suoi affari. «Dobbiamo essere molto cauti», dice Levy.
Domenica notte, vigilia di Yom Kippur, Levy si è preparato ad affrontare il digiuno del giorno successivo sgranocchiando un poco di torta e del melone. Alcuni anni fa, poiché era partito il macellaio rituale, Levy acquistava gli agnelli e li macellava secondo i dettami della legge ebraica, ma adesso non può più farlo: teme per la sua vita, ha paura che al mercato i commercianti lo riconoscano e dicano in giro che è ebreo. Anche il vino non riesce più a procurarselo e così in alcune feste si accontenta di succo di uva spremuto nell´acqua.
Levy scherza e dice che anche la rete elettrica di Bagdad ha deciso di digiunare: l´elettricità è stata tagliata domenica pomeriggio e 30 ore più tardi non è stata ancora ripristinata. Lunedì notte ha faticato per rimettere in funzione il generatore. Ma nessuno dei problemi che affliggono la capitale avrebbe potuto rovinare il suo Yom Kippur. «Ho il mio Dio e le mie preghiere e questo è ciò che più conta per me», dice. Racconta di aver stretto tra le braccia un vecchio libro di preghiere ed essere rimasto nella sua stanza in piedi o seduto per un po´ sulle lenzuola verde pallido che coprono il letto. «Che avrei dovuto fare?» chiede. «Ovviamente non è così che bisognerebbe celebrare Yom Kippur», fa una pausa e poi dice: «Ecco perché devo lasciare l´Iraq e andare in Terra Santa».
Non tutti gli ebrei iracheni la pensano così. Sameer, un appaltatore edilizio di 40 anni, dice che non potrebbe mai lasciare la sua patria, anche se questo potrebbe significare che non incontrerà mai una donna ebrea da sposare. «Questo è il mio destino: sono iracheno, sono parte dell´Iraq. Mi sta bene non sposarmi». Sameer chiede che il suo cognome non venga divulgato, teme per la propria vita. Ha abbandonato la sua casa di Bagdad e vive in una località che non ha voluto rivelare. Sameer si è rifiutato di parlare della vita sotto Saddam, dicendo che l´argomento è pericoloso, ma alcune interviste a Levy e ad ex funzionari dell´intelligence irachena fanno intuire che anche prima dell´invasione americana la vita per gli ebrei iracheni non era facile.
(Copyright Washington Post-La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)
La Repubblica, 05/10/2006