Da un articolo di Rav Ari Kahn
Nell’ultima parashah della Torah Mosheh Rabbenu si congeda dai figli di Israele, benedicendoli. Come è risaputo le benedizioni sono anticipate da una premessa (Deut. 33,2): “Il Signore è venuto dal Sinai, dal monte Se’ir splendette per loro, si mostrò dal monte Paran”. In questo verso troviamo difficoltà a comprendere la pertinenza dei due riferimenti geografici, Se’ir e Paran. Come spesso avviene, Rashì accorre in nostro aiuto: ci si riferisce ai luoghi abitati da ‘Esav ed Yishma’el, ai quali venne offerta la Torah e non la accettarono. Rashi lega i nomi delle due zone alla nota tradizione secondo cui gli altri popoli furono riluttanti a ricevere la Torah.
Avevano avuto l’opportunità di divenire popoli del libro, ma quando realizzarono quanto c’era scritto rifiutarono. Questo approccio è molto differente da quello dei figli di Israele, che a fronte dell’offerta dissero na’aseh wenishmà, faremo e ascolteremo. Accettarono la Torah al buio, senza pensare alle conseguenze pratiche di questa accettazione. La relazione fra D. e il popolo ebraico non dipende dal contenuto della Torah. La Torah è piuttosto un’espressione della relazione unica instauratasi fra di loro. La venuta divina dal Sinai viene paragonata da Rashì ad uno sposo che viene incontro alla sua sposa. Questi, quando si uniscono in matrimonio, non sanno ancora cosa li attenda. Il loro futuro è un libro ancora da scrivere. La loro unione non dipende dal contenuto di questo libro. Si basa sull’amore reciproco e sul desiderio di condividere un viaggio verso l’ignoto. Esav ed Yisham’el pretendevano, per così dire, di leggere le bozze già impaginate, prima di accettare il contenuto del libro. Resisi conto che le richieste erano eccessive per loro, hanno rifiutato. Israele non aveva mostrato alcuna aspettativa in questo senso. Si potrebbe cogliere un livello più profondo nei nomi dei protagonisti di questo insegnamento. I nomi di ‘Esav e Yishma’el rimandano alla dimensione dell’azione e della ascolto, derivando uno dalla radice ‘-s-h e l’altro dalla radice sh-m-‘.
Da questa lezione etimologica possiamo apprezzare l’enfasi sulla fedeltà del popolo ebraico, contrapposta all’esitazione di coloro che avrebbero potuto rivendicare l’eredità spirituale di Avraham. I figli di Israele sono riusciti dove ‘Esav e Yishma’el hanno fallito, canalizzando il potere spirituale che li contraddistingueva. Ma ogni anno, dopo aver letto questi versi, torniamo alla creazione del mondo. Forse c’è una nuova speranza. Tutta l’umanità è creata ad immagine divina. Tutti abbiamo un certo potenziale spirituale. La fine del libro di Devarim ci rimanda all’inizio di Bereshit. Alcuni sono riusciti nei propri intenti, altri hanno fallito, ma ci viene nuovamente fornita l’opportunità di sperare che la realtà del passato non detti lo sviluppo futuro. Noi, da parte nostra, non dobbiamo cullarci nelle benedizioni appena ricevute, attendendo il momento in cui i popoli della terra abbracceranno la parola divina e vivranno finalmente in tranquillità. Come diceva il profeta Isaia (Is. 56,6-8): “E i i figli dello straniero che si aggregano al Signore per prestargli culto, per amare il nome del Signore e per essere Suoi servi, chiunque osservi il sabato sì da non profanarlo, e quelli che si mantengono fedeli al Mio patto. Io li farò venire al monte a Me consacrato, li rallegrerò nella casa in cui Mi si rivolgono le preghiere, i loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul Mio altare, perché la mia casa sarà proclamata casa di preghiera per tutti i popoli. Detto del Signore D. che raduna i figli di Israele: radunerò ancora altri intorno ai radunati di Israele”.