Da un articolo di Rav Ari Kahn
La stragrande maggioranza della Torah è costituita da brani legali o narrativi, ma vi è una piccola parte della Torah che è rappresentata dalla poesia. Una di queste sezioni è nella penultima parashah della Torah, la parashah di Haazinu. Indipendentemente dal tono utilizzato, molti dei temi ricordati ci sono familiari. Mosheh con grande franchezza riconosce le mancanze del popolo ebraico e intende, per mezzo delle proprie parole, di ispirarlo a seguire la parola divina. Mosheh si rivolge alla nazione nel suo insieme e considera il suo posto all’interno del consesso delle nazioni.
Spesso nel libro di Devarim incontriamo degli avvertimenti circa i pericoli derivanti dall’idolatria e dall’eccessiva vicinanza con le altre popolazioni. In Haazinu la prospettiva cambia, e vengono presentati vari elementi affascinanti sul rapporto fra Israele e le altre nazioni. Mosheh dice (Deut. 32,8) che: “Quando l’Altissimo dette un possesso alle nazioni, quando Egli separò i figli di Adamo, fissò i confini dei popoli secondo il numero dei figli d’Israele”. Questo verso rimanda al libro di Bereshit. Dopo il diluvio, i discendenti di Noach vennero dispersi in tutto il mondo, divisi in nazioni, ciascuna con la propria lingua e la propria cultura. Secondo la Torah, queste settanta nazioni rappresentano la totalità della civiltà umana. Così, come è noto, i settanta tori che vengono offerti durante la festa di Sukkot sono portati per conto delle nazioni del mondo. Dopo il diluvio il Signore avrebbe potuto distruggere questi popoli, ma stabilì per loro dei confini, evitando di distruggerli.
Rashì collega le settanta nazioni ai settanta discendenti di Ya’aqov che scesero in Egitto. Quella che può sembrare una semplice coincidenza numerica svela il destino di Israele, indissolubilmente legato a quello delle nazioni. Israele gode di un rapporto unico con D., ma al contempo svolge un ruolo noi confronti degli altri popoli, elevando quanto hanno corrotto. Il legame speciale con D. discende dai meriti dei patriarchi, un triplice filo, difficile a rompersi, che secondo Tzeror ha-mor trova la sua espressione nel Mishkan, che è l’opportunità di costruire una scala, come quella di Ya’aqov, che ci mette in comunicazione con il cielo, indipendentemente dalle nostre colpe, tanto grande è l’amore che ci lega. Il mishkan non è secondo questa visione un’ammissione dei fallimenti umani, come molti ritengono, un correttivo del peccato del vitello d’oro, ma l’affermazione di un legame unico, quello con i patriarchi. La festa di Sukkot secondo il Gaon di Vilna ha una relazione stretta con la costruzione del mishkan.
Dopo Kippur e la consegna delle seconde tavole viene dato l’ordine di costruire il Mishkan, e questo è secondo lui il motivo per cui la festa di Sukkot cade in autunno. Se le Sukkot rappresentano la protezione divina, perché non celebrare il momento in cui questa iniziò a manifestarsi, nel periodo di Pesach, in primavera? Il Gaon di Vilna è del parere che la protezione divina con il vitello d’oro sparì, ritornando solo quando il popolo ebraico si prodigò per costruire il mishkan, per fare in modo che quell’amore, troncato, tornasse. Per questo, appena terminato Kippur, iniziamo a costruire la Sukkah, che secondo il Maharil è una rappresentazione simbolica del Mishkan, che a sua volta è espressione del legame speciale che unisce D. ai patriarchi. In questo senso Rosh ha-shanah e Kippur sono una preparazione per Sukkot, nel momento in cui sperimentiamo ancora una volta la protezione celeste. Lasciamo le nostre case per rifugiarci nel nostro piccolo Mishkan, e le nostre offerte costituiscono la nostra preghiera affinché anche gli altri ritrovino anche loro la via di casa.