Da una derashà di Rav Ari Kahn
Come è noto, Rambam dedica al tema della teshuvah uno dei trattati della sua grande opera halachica, il Mishneh Torah. Una delle halakhot riportate dal Rambam è oggetto di discussione fra i commentatori. La domanda è la seguente: un peccatore recidivo, attraverso il proprio comportamento, vanifica la propria penitenza? Il comportamento errato di cui era originariamente colpevole, rimane ancora, non perdonato e purificato, dal momento che il suo comportamento successivo mostra chiaramente come la sua penitenza non fosse sincera?
Nella parashah di Haazinu, che leggeremo sabato prossimo, Mosheh riporta il proprio messaggio attraverso una cantica. Sebbene all’interno del suo discorso siano presenti numerose allusioni poetiche, questo si apre con una chiamata a testimoniare, rivolta al cielo e alla terra. Non si tratta in questo caso, come potrebbe sembrare, di una licenza poetica. Il discorso di Mosheh è reale, e la chiamata è un punto cruciale all’interno del suo ragionamento. Già nelle parashot precedenti Mosheh aveva invocato cielo e terra: “Io chiamo a testimoni per voi oggi il cielo e la terra: io ho posto davanti a voi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli la vita, onde viviate tu e la tua discendenza” (Deut. 30,19). Perché invocare il cielo? Il motivo è semplice. Mosheh è consapevole del fatto che di lì a poco non ci sarebbe stato più. Lui avrebbe abbandonato la scena, ma ci sono altri testimoni ben più permanenti, sempre pronti a testimoniare. Nelle regole sulla Teshuvah, Maimonide si richiama ad un altro tipo di testimonianza sovrannaturale: “E in cosa consiste la Teshuvah? Nell’abbandonare il peccato, nell’eliminarne il pensiero dalla mente, nel proporsi di non commetterlo più… nel pentimento e nel rammarico di quanto commesso… Colui che conosce le cose occulte testimonierà sulla sincerità del suo proponimento di non incorrere mai più in quel peccato… E la confessione del peccato e il proponimento di non ricaderci mai più devono essere pronunciati con le nostre labbra” (Rambam, Hilkhot Teshuvah 2,2). Questo passaggio è molto discusso. Molti ritengono che qui Rambam intenda affermare che D., conoscendo il comportamento futuro di ciascuno di noi, testimoni che un certo individuo non ripeterà un determinato peccato. Secondo questa visione il comportamento del recidivo vanifica il pentimento. In questa prospettiva un peccatore è perdonato solo se non ricadrà nei comportamenti precedenti. Solo quando vi sarà la testimonianza divina che il peccato non è stato reiterato, vi sarà la cancellazione del peccato. Rav Yisrael Salanter tuttavia non è d’accordo con questa lettura, perché il Rambam, se avesse inteso affermare questa idea, si sarebbe espresso differentemente. Senza entrare nei dettagli, la testimonianza divina secondo la sua visione non riguarda la reiterazione fattuale del peccato, ma solo l’intendimento di non compiere nuovamente quel peccato. La testimonianza non riguarda il comportamento futuro, ma la sincerità del momento presente. Siamo disposti a dichiararci rammaricati e a chiamare D. come testimone? Se una persona si mostra sincera nel proprio pentimento sarà perdonata, anche se in futuro incespicherà di nuovo. Questa seconda lettura delle parole del Rambam rivela una visione più realistica della natura umana. Ci sono sempre stati dei momenti in cui persino i penitenti più sinceri soccombono di fronte all’inclinazione al male. Parte dell’insidia deriva dall’abitudine a peccare. Quando si pecca per la prima volta si prova una certa sensazione, la seconda volta il peccato appare già come qualcosa di permesso. La prima volta si è combattuti, si può vincere o perdere. La seconda, invece, non si svolge più nessuna lotta. Ci si costruisce una nuova normalità. Se di mezzo però c’è un processo di pentimento, la seconda volta ci sarà nuovamente un conflitto, forse ancora più feroce della prima volta. Anche questa volta sarà possibile cadere, ma non per via della forza dell’abitudine. Il primo peccato era stato cancellato per mezzo della Teshuvah. Il secondo peccato è il risultato di una nuova lotta, di un nuovo fuoco estraneo, che nulla ha a che fare con il primo peccato. Qual è il coinvolgimento di D. in tutto ciò? Rav Soloveitchik riteneva che ciascun ebreo ha una particolare santità, che deriva dal patto del Sinai. Ma c’è un altro patto, sancito nel libro di Devarim, fra D. e ciascun individuo. Quando si pecca, è questa alleanza ad essere intaccata. Il peccato ci rovina in due sensi, oltre al cattivo comportamento, soffriamo di una corruzione a livello spirituale. La Teshuvah intende raggiungere il perdono per il comportamento sbagliato, ma al contempo persegue lo scopo di purificare la nostra anima. Il peccato crea distanza fra le due parti dell’alleanza. Anche se c’è il perdono, permane un senso di estraneità. Il sentimento di fiducia deve essere ricostruito. La chiamata a testimoniare rivolta a D. serve in qualche modo a ricreare l’alleanza. Come per il cielo e la terra nel discorso di Mosheh, la testimonianza è necessaria per ricreare il patto. La mishnah nel trattato di Yomà si conclude con un insegnamento ottimistico di R. Aqivà, In questo insegnamento ci si allontana dalla fredda giurisprudenza, dalla contabilità dei peccati e delle punizioni. R. Aqivà presenta una metafora tratta dal mondo della purezza rituale. Così come il miqveh purifica l’impuro, così D. purifica Israele. Questa immagine disegna un quadro meno inflessibile del processo di Teshuvah. Chi si immerge nel miqveh può essere più che sicuro che tornerà ad essere impuro, eppure ciò non diminuisce in alcun modo la purezza che acquisisce in questo momento immergendosi nel miqveh. La Teshuvah è uno strumento estremamente potente, perché permette di modificare il passato. Pentendoci davanti a D. non solamente ci liberiamo del nostro passato, ma rinnoviamo il patto. Anche se poi cadremo nuovamente, e dovremo tornare ad essere purificati, la purezza che otteniamo ora non potrà essere macchiata da quanto accadrà successivamente.
Ghemàr chatimah tovah a voi tutti!