In questo libro di ritratti della “nuova generazione degli ebrei italiani” troviamo Riccardo Di Segni, il rabbino capo che fa il direttore di radiologia presso un ospedale dal nome tanto poco ebraico come San Giovanni; e anche Emanuele Fiano, che invece è ateo e capogruppo dei diesse al Consiglio Comunale di Milano, ma considera la sua identità ebraica “uno zaino inamovibile”. Cè Ariel Haddad, romano di origine tripolina che dopo aver abbracciato la corrente tipicamente est-europea e newyorkese dei Lubawitch è diventato rabbino di Trieste e Lubiana, alfiere di un’ortodossia rigorista particolarmente inconsueta in Italia, e che in politica vota a sinistra; e c’è Aldo Luperini, il milanese che con l’ ebraismo liberal della corrente riformata ha importato in Italia pure la rivoluzione della rabbina donna Barbara Aiello, ma in politica rimpiange invece i partiti laici.
Ci sono Milena e Gabriella, che hanno smesso di essere ebree quando il padre ha chiuso il negozio in cui avevano
passato la giovinezza, “confinate anche
le domeniche in quaranta metri quadrati”;
e cè Lucia Correale, che invece è nata cattolica
ed è diventata ebrea, iniziando la
sua conversione dal momento in cui il 9 ottobre
1982 fu ferita nellattentato alla sinagoga
dove si era recata ad accompagnare
il ragazzo che aveva conosciuto lestate in
Sardegna e che sarebbe poi divenuto suo
marito. Cè Riccardo Pacifici, nipote di un
rabbino capo di Genova morto a Auschwitz
e portavoce della comunità di Roma,
che è iscritto al Partito radicale e manifesta
apprezzamento per la linea sui
Israele del governo Berlusconi, ma ricorda
lassalto del 1992 alla sede del Movimento
politico occidentale e quello del
1996 al tribunale che aveva assolto
Priebke; e cè Carla Di Veroli, consigliera
della lista civica pro Veltroni in Campidoglio,
ha la delega alle politiche culturali e
alle pari opportunità e quando ha avuto
problemi di microfoni per presentare agli
Archivi di Stato la scampata di Auschwitz
Zia Settimia si è fatta aiutare “dai ragazzi
di un centro sociale” (ma suo marito Lillo
dice che “la grande maggioranza della Sinistra
è composta da antisemiti”). Benedetto
Carucci Viterbi, preside del liceo
ebraico di Roma, racconta la giornata di
un rabbino. Fabio e Antonella “hanno
trentatrè anni e con lebraismo non centrano
nulla”, ma è ebreo il migliore amico
di lui, e così le due famiglie partecipano
luna alle feste dellaltra. Sergio, invece,
proprio sulleducazione della figlia Mira
ha finito per separarsi da una moglie non
ebrea. Mentre Amedeo Spagnoletto tiene
accanto al computer penna doca e pergamena,
perché il suo lavoro riguarda appunto
quei testi sacri che il rituale esige
manoscritti… Dice la scrittrice Giacoma
Limentani: “Non si possono fare blocchi:
gli ebrei italiani sono italiani, quelli francesi
sono francesi. Cè, nel luogo dove nasci
o vivi, una componente che ti resta addosso:
noi impariamo litaliano e la lingua
finisce con lo strutturare anche la testa”.
Però ci sono anche strutture di pensiero
proprie dellebraicità, e tra queste larchetipo
della frutta: da quella secca tritata
mescolata a pane azzimo con cui a Pasqua
si fa la salsa charoset per simboleggiare la
malta usata dagli schiavi ebrei in Egitto, a
quella fresca che nel capodanno ebraico è
augurio di abbondanza. Appunto, gli ebrei
dIsraele si autodefiniscono sabra: “fichi
dindia”, duri e spinosi fuori ma dolci dentro.
Per descrivere questi e altri ebrei italiani
Lia Tagliacozzo usa invece la metafora
della melagrana, “che al suo interno ha
tanti chicchi separati, alcuni aspri, altri
dolci”
(Maurizio Stefanini) – Il Foglio, 23/01/2006
MELAGRANA – di LIA TAGLIACOZZO
(CASTELVECCHI; PP.249; 14 EURO)
Il mondo si sta modificando e il ”piccolo ebraismo” italiano non potra’ rimanere ”indenne a tali
cambiamenti”. Ma cio’ che si ignora sono le direzioni che questo piccolo segmento della diaspora
ebraica (circa 40.000 persone) imbocchera’. Comune a molte delle comunita’ fuori Israele quello del
cambiamento e’ un tema che ha provocato gia’ profonde scissioni nel
mondo ebraico: basti pensare agli Usa e al mondo anglosassone dove e’
nato il movimento ‘reformed’ che ha modificato molti dei tipici standard
dell’ebraismo tradizionale (dalle donne rabbino, alla patrilinearita’ della
trasmissione ebraica, al rispetto delle regole alimentari). Istituzionalmente
l’ebraismo italiano – irrobustito dalle immigrazioni di ebrei ‘sefarditi’
provenienti dai paesi arabi – fa parte del ”grande filone” di quello ortodosso,
anche se non mancano caratteri e specificita’ nazionali.
Tuttavia questo non vuol dire che il vento del cambiamento non spiri con
forza: soprattutto per gli ebrei ”venuti dopo” come efficacemente li
definisce Lia Tagliacozzo. Ovvero quelli nati dopo la Shoa’, dopo la
fondazione di Israele, dopo il ’68, il ’77, la speranza rivoluzionaria e il
terrorismo, dopo la caduta del Muro di Berlino. ”Hanno visto le guerre di
Israele – scrive l’autrice che e’ giornalista collaboratrice di varie testate – il kibbuz, l’Intifada e il mito
di un ebreo nuovo che non avrebbe strisciato piu’ lungo i muri del ghetto”. Insomma sono ”i nuovi
genitori della recente globalizzazione” e per loro ”l’identita’ ebraica si e’ rimessa in movimento”.
Si assistera’ alla creazione di Comunita’ differenti per grado di aderenza all’ortodossia? oppure per
differenti valutazioni politico-identitarie? Per cercare di individuare le faglie attraverso le quali il
movimento procede, Tagliacozzo ha scelto non analisi sociologiche o politiche, ma le persone e le
loro storie. Ha cosi’ chiesto ad una serie di questi ”nuovi genitori” (ma non solo) di raccontare di se’
e del loro rapporto con l’ebraismo e con l’identita’ ebraica.
Ansa
In libreria “Melagrana”, il viaggio di Lia Tagliacozzo nella nuova generazione degli ebrei italiani. Quella che non si definisce più soltanto attraverso l’antifascismo o la memoria della Shoah
Ebraismo, alla ricerca dell’identità del “dopo”
Rina Gagliardi – Liberazione 27 dicembre 2005
“Che cos’è un ebreo?”. A questo interrogativo, che continua a svolgersi da secoli – ma che l’ultimo secolo trascorso, il ventesimo, ha reso più stringente e drammatico, dopo la Shoah, dopo la fondazione dello Stato d’Israele, dopo l’irrisolto conflitto mediorientale – si possono dare molte risposte. Un popolo diviso – o meglio “una nazione”, come diceva, mi pare, Schopenhauer. Una storia – la storia delle comunità sopravvissute all’assimilazione, alla dispersione e, soprattutto, alla persecuzione. Una religione – forse, la meno fideistica delle grandi religioni, se è vero, come diceva Scholem, che «il nome di Dio è essenziale all’origine di ogni linguaggio» e che il linguaggio, il nome conoscente delle cose, “è” le cose stesse. Ma forse è vero che tutte queste definizioni hanno qualcosa di provvisorio e di parziale – solo i persecutori degli ebrei non hanno dubbi di sorta, né culturali né politici, ebbe a scrivere Sergio Quinzio.
E il tema dell’identità ebraica resta una ricerca – un percorso – in svolgimento permanente, mai concluso. Proprio come quel Dio al quale molti ebrei praticanti non credono. Proprio come la spiritualità dell’uomo moderno, e della sua attesa di una redenzione che, se verrà, verrà solo dalla catastrofe. Dentro queste e molte altre suggestioni, si colloca un bel libro di Lia Tagliacozzo, Melagrana, Castelvecchi (pp. 250, euro 14,00). Un “viaggio” nella nuova generazione degli ebrei italiani, nei dilemmi e nello stile di vita della minoranza più antica del paese, che si dipana attraverso storie, ritratti e interviste: a circoscrivere le ambizioni dell’inchiesta, per un verso, ma a conferirle la singolare vivezza della presa diretta, per l’altro verso.
Non c’è la pretesa, cioè, di tracciare un profilo organico della comunità ebraica italiana, alle soglie del XXI secolo. C’è invece il tentativo di metterne a fuoco le inquietudini, le divisioni, le interrogazioni, in una fase storica dominata dall’incertezza e dal senso di una transizione che può approdare ad esiti tra di loro molto diversi. Da questo punto di vista, Lia Tagliacozzo, giornalista, esponente della sinistra della comunità, collaboratrice del manifesto e redattrice della trasmissione televisiva “Sorgente di vita”, ci propone davvero un’”opera aperta”, nel metodo e nel merito.
Il punto di fondo è la definizione dell’identità del “dopo”: gli ebrei di oggi – i quarantenni, gli adulti, i dirigenti della comunità – sono quelli che, appunto, vengono “dopo”. Per quanto viva e presente sia la memoria della Shoah, a sessant’anni di distanza essa non può più costituire, in sé, la fonte totalizzante dell’identità ebraica, come è stato nel lungo dopoguerra, in Italia e in Europa. Allo stesso modo, l’antifascismo non è più, non può essere più, un collante così forte e indiscusso da sovrastare tutte le differenze e, soprattutto, da essere in grado di delineare un futuro. Ma qual è allora il senso “nuovo”, la “nuova” prospettiva?
Leggendo le storie esemplari raccolte in Melagrana, da Amedeo il restauratore che scrive con la penna d’oca ad Ariel Haddad, il rabbino lubawitch di Trieste nato a Tripoli, la chiave non può che essere la tensione consapevole tra “ortodossia” e “innovazione”. Non la semplice dialettica tra passato e futuro – anche il rispetto della tradizione, anche il rigore rituale e ossessivo delle “Mitzwà” (i 613 precetti dell’ebraismo che sono forse il cuore della religiosità ebraica) e dei rituali, fanno parte di una riscoperta del presente, che reagisce al lassismo della secolarizzazione e al peculiare costume di città come Roma. E nemmeno la ovvia contrapposizione tra conservatori e progressisti – un’altra lezione di questo libro è quella di guardarsi bene dall’istituire paralleli meccanici tra posizione comunitaria e posizione politica. Ma la capacità di salvaguardare l’unità comunitaria, assumendone fino in fondo il pluralismo e le grandi diversità, ma evitando la via più facile, l’approdo, se così si può dire, ad un “pensiero debole”. Qui, naturalmente, si incontrano dei bivi: gli ebrei hanno da essere “happy few”, come sostiene in fondo il Rav Di Segni, il rabbino capo della comunità romana che si rifiuta di stringere la mano alle donne? O devono in qualche modo rompere le barriere che li separano dal mondo, come propone Aldo Luperini, leader dell’ebraismo progressivo? Certo, l’autrice appare assai distante dall’ossessiva ortodossia, oltre che dall’umore politico conservatore, di Di Segni. Ma non ha risolto il dubbio che la soluzione prospettata dalla piccola ala montante dei riformati, quelli che ammettono le donne al rabbinato, non combattono i matrimoni misti e sono favorevoli a pratiche religiose più compatibili con i vincoli del mondo, non sia in realtà una soluzione – qui e ora, in Italia, e a Roma che sarà certo una metropoli ma non è New York.
Come dice Giacoma Limentani, «i riformati sono coltissimi… Ma l’ebraismo non è cultura, è natura». Ecco un’altra possibile definizione. Si può non accoglierla, ma ci aiuta a capire perché la “questione ebraica” non riguarda solo gli ebrei, ma il senso stesso dell’essere e delle radici della modernità. Ma può avere un futuro la comunità ebraica fuori da se stessa, oltre se stessa? E in quale collocazione nel mondo, nei conflitti della globalizzazione, a cominciare dalla tragedia del medio oriente? Questo “fuori” è il tema bruciante – Israele – che Melagrana sostanzialmente elude. Tagliacozzo si limita ad affermare, all’inizio, che il tema del confronto con Israele è “ineludibile”, per tutti, qualsiasi siano le tendenze o le impostazioni dottrinarie. Non assume, certo, tesi come quella di W. D. Robinson (autore di un saggio che, nei primi anni ’80, analizzò la frattura ormai intervenuta tra mondo ebraico e sinistra, e dichiarò che «lo Stato di Israele è oggi la religione degli ebrei», il loro vero collante ideale e ideologico). Ma oltre non va. Non ne fa oggetto di discussione o di confronto con i suoi interlocutori – salvo Riccardo Pacifici, il portavoce della comunità di Roma, che fa propria la tesi robinsoniana, con tutte le conseguenze politiche che ne derivano, sostanzialmente filosharoniane. Non entra, insomma, mai nel merito.
In questo senso, in Melagrana si scorge anche un limite – una reticenza. Non si trattava, naturalmente, di schierarsi, o di “schierare” questo o quel pezzo della comunità su una vicenda così drammatica come quella che tormenta la Palestina e priva i palestinesi del diritto a una terra. Si trattava, forse, di rompere il silenzio, di tentare una problematizzazione. E’ possibile che, nel percorso di costituzione e ri-costituzione dell’identità ebraica, quella di oggi in Italia, non entri mai il conflitto in corso anche, purtroppo, con un altro popolo? Così come la ricchezza – e anche il fascino – dell’ebraismo stanno anche nella sua straordinaria variegazione, nell’assenza di una vera dogmatica, nel valore indiscusso della ricerca, possibile che il riferimento ad Israele diventi quasi monolitico, ipersimbolico, insomma non problematizzato? Sono domande nient’affatto polemiche. E’ una discussione che ci piacerebbe fare non solo con Lia Tagliacozzo, ma con molti di questi nostri “fratelli maggiori”.