Da un articolo di Rav Sacks
Uno degli più stupefacenti sviluppi del mondo moderno è lo sviluppo dell’ingegneria genetica. Il corpo umano contiene grosso modo 30.000 miliardi di cellule. In ogni cellula c’è un nucleo, dove sono presenti il DNA e l’RNA, che contengono il codice del genoma umano, che comprende circa 3,2 miliardi di paia di basi e circa 23.000 geni. Queste lettere, se trascritte, riempirebbero una biblioteca di 5.000 volumi. Ciascuna cellula di un organismo contiene quindi un modello del corpo di cui fa parte.
Nel pensiero medievale, anche ebraico, c’era una teoria che ebbe molto successo, quella dell’uomo microcosmo: l’essere umano ha una struttura analoga a quella del mondo. Le scoperte della genetica mostrano qualcosa di simile: da una singola cellula è possibile risalire e persino riprodurre un intero organismo. Quanto diciamo a livello scientifico è però applicabile ad una cultura? Da un dettaglio apparentemente insignificante, è possibile riconoscere la struttura dell’intero sistema? Un filamento del DNA dell’ebraismo può rivelarne la natura?
Da un singolo aspetto dell’ebraismo, apparentemente poco significativo, si possono rivelare delle relazioni che non paiono così immediate, come il legame fra halakhah e aggadah, fra legge e narrativa, fra pratica e filosofia. In questo modo comprenderemo che l’ebraismo è più di una serie di leggi, ma una visione globale del mondo che richiede da parte dell’uomo una risposta globale, nella quale impegnare tutto il proprio essere. Questo approccio potrebbe mostrare un modo più ampio di relazionarsi ai testi tradizionali.
Nella parashah di Emor la Torah illustra la mitzwah dell’omer. L’ambiguità dell’espressione mimachorat ha-Shabbat, da cui dipende l’inizio del conteggio dell’omer, e di conseguenza la data in cui Shavu’ot cade, ha dato luogo nella storia ebraica a grandi sconvolgimenti. Anticamente alcuni gruppi intendevano l’espressione letteralmente, ed il conteggio iniziava pertanto all’indomani dello Shabbat, domenica, e di conseguenza Shavu’ot cadeva sempre di domenica, sette settimane dopo. Altri, basandosi sulla tradizione orale, interpretavano l’espressione riferendola al giorno successivo alla festa, al primo giorno di Pesach. Noi seguiamo questo secondo punto di vista. Questa discussione fu una fra le più grandi del periodo del Secondo Tempio.
Ma non è questo il punto. Finché c’era il Tempio, veniva offerto l’omer e di conseguenza si iniziava il conteggio. Dopo la distruzione del Tempio rimase solo il conteggio, ogni notte per sette settimane.
Una domanda fondamentale sorse al tempo dei Gheonim, che vissero nel periodo compreso fra la chiusura del Talmud e il periodo dei primi grandi commentatori. Cosa succede se ci si dimentica di contare uno dei 49 giorni? Si può continuare a contare, o si è irrimediabilmente persa la mitzwah per quell’anno? Ci sono due visioni contrastanti in merito. Il Ba’al Halakhot ghedolot ritiene che abbia perso la possibilità di proseguire il conteggio, secondo Rav Hai Gaon può continuare a contare, sebbene abbia saltato un giorno.
Come dobbiamo intendere questa discussione? Per il Ba’al Halakhot Ghedolot il termine chiave è temimot, intere. Chi salta uno dei giorni del conteggio, non può soddisfare il requisito della completezza. I 49 giorni dell’omer sono parte di un’unica grande mitzwah, e se una parte manca, tutto il complesso è difettoso. A cosa è paragonabile? A un rotolo della Torah. Se manca una sola lettera, questa assenza ha la forza di invalidare il tutto. Così è anche per il conteggio. Secondo Chay Gaon invece ogni giorno costituisce un atto separato, così come è detto “conterete 50 giorni”. Per questo, se non si riesce ad adempiere ad uno dei comandi, questo fatto non distrugge l’impianto generale. Se per esempio non si riesce a recitare la tefillah in un dato giorno, questo non impedisce di pregare nei giorni successivi. Ogni giorno è un’entità temporale a sé, non è influenzata da quanto avviene prima o dopo. Lo stesso vale per l’omer. La regola finale, come è noto, esprime una posizione intermedia fra le due opinioni: se si è dimenticato di contare un giorno, in ossequio a Chay Gaon si prosegue nel conteggio, ma per rispettare quanto dice il Ba’al Halakhot Ghedolot, non si recita la berakhah.
In generale, quando si parla di halakhah e di casi dubbi, il dubbio risiede in noi, non nel testo biblico. Il Signore ha parlato, ma non sappiamo come intendere le Sue parole. Per l’omer sembra essere differente. Il dubbio è insito all’interno del testo biblico. In maniera insolita il comandamento è espresso in due maniere differenti, e di qui nasce l’ambiguità. Da una parte la Torah ci dice di contare sette settimane intere, dall’altra di contare cinquanta giorni. Alcuni ritengono che la doppia espressione del comandamento serva ad istituire due comandi differenti, di contare i giorni e di contare le settimane, ma al contempo, come nella discussione fra il Ba’al Halakhot Ghedolot e Chay Gaon, suggerisce due possibili visioni della mitzwah, un singolo conteggio prolungato o cinquanta atti distinti. Questa dualità non si trova della mente dei rabbini, ma è di fronte a noi, nel testo.
Questo discende da una duplice concezione del tempo all’interno dell’ebraismo. Si può vedere con una certa chiarezza da una discussione riportata nel Talmud su due grandi maestri del periodo del Secondo Tempio, Hillel e Shammay. Si dice che Shammay per tutta la vita mangiò in onore dello Shabbat. Se trovava un bell’animale, lo teneva per il Sabato. Se gliene capitava uno migliore, mangiava il primo e lasciava l’altro per il Sabato. Hillel vedeva le cose in modo molto differente, se gli capitava un bell’animale, non lo teneva, perché sosteneva (Sal. 68,20): Sia benedetto il Signore di giorno in giorno. Per la scuola di Shammay tutti i giorni della settimana erano in funzione dello Shabbat, per la scuola di Hillel ogni giorno aveva il proprio valore specifico.
Shammay mostra una concezione teleologica del tempo. Il tempo è un viaggio verso una destinazione. Già all’inizio della settimana si è consapevoli della sua fine, come diciamo nel Lekhà Dodì: lo Shabbat è al termine per quanto riguarda l’azione, ma nel pensiero è il primo. Il tempo non è visto come una serie di momenti, ha un suo scopo, una sua direzione, una sua destinazione. Hillel considerava invece ogni giorno come una unità a sé stante, senza riguardo a quanto era prima e a quanto sarebbe stato, esprimendo l’idea che D., nella sua bontà, rinnova ogni giorno l’opera della creazione, come diciamo nello Yotzer. In questa prospettiva ogni sequenza temporale costituisce un’entità a sé. L’universo viene continuamente rinnovato. Ogni giorno è un universo, con le sue sfide, i suoi compiti, le sue risposte. Avere fede vuol dire prendere ogni giorno come viene, affidandosi a D. per conferire al tempo la propria direzione.
Questa discussione ricorda quella, più recente, sulla natura della luce. E’ un fascio continuo o una serie di particelle? Paradossalmente è tutte e due le cose.
Tanto si è scritto sulla natura del tempo: gli antichi tendevano a vederlo come un circolo, il tempo ciclico, il tempo della natura. Ogni giorno è segnato dalla stessa successione di eventi, dall’alba sino al tramonto. Ogni anno è un susseguirsi di stagioni. La vita stessa è una sequenza di nascita, crescita, maturità, declino e morte.
L’argomento, tuttavia, va molto più in profondità. Molto è stato scritto su due forme altamente distintive di coscienza del tempo. Molti di questi momenti, sopratutto quelli di passaggio, sono caratterizzati da riti religiosi. Le singole esistenze portano a cambiamenti apparenti, ma il mondo, con le sue leggi, rimane sempre lo stesso, come afferma il Qohelet. Il tempo sacerdotale è un tempo ciclico. Ogni parte del giorno, della settimana, dell’anno, ha il suo specifico sacrificio, indipendentemente da quanto avviene nel mondo. La halakhah è una rappresentazione derivante da questo mondo. Anche se tutto cambia, la legge non cambia. E’ una manifestazione dell’eternità nel tempo. Sotto questo aspetto l’ebraismo non è innovativo.
Ma molti antropologi e storici sono dell’idea che nell’antico Israele sorse una nuova e diversa forma di tempo. Questo è il tempo lineare, o il tempo dell’alleanza. Il Tanakh è il primo testo a vedere il tempo come l’arena del cambiamento. Il domani non è necessariamente identico a ieri. Non c’è nulla di dato, eterno o immutabile, circa il modo in cui costruiamo la società nella quale viviamo e su come usiamo il tempo a nostra disposizione. Il tempo non è una serie di momenti che si susseguono, sempre in movimento, ma identici a se stessi. E’ un viaggio, con un punto di partenza e una destinazione, una storia con un inizio e una fine. Ogni momento ha un suo significato, e possiamo coglierlo solo se capiamo da dove arriviamo e dove stiamo andando. Questo non è il tempo della natura, ma della storia. I profeti furono i primi a vedere D. nella storia. Il profeta è chi vede la fine già nell’inizio. Mentre tutti sono tranquilli, prevede la catastrofe. Quando gli altri piangono, vede la consolazione. Un esempio famoso è la storia di R. Aqivà che camminava con i suoi colleghi, e, mentre questi erano disperati per la distruzione del Tempio, lui rideva. Se le profezie relative alla distruzione si sono realizzate, non sarà lo stesso per quelle della restaurazione? Mentre gli altri vedono il presente, lui nel presente coglie già il futuro. Conoscendo la storia precedente, comprende non solo il capitolo attuale, ma anche come proseguirà la storia. Questa è la coscienza profetica. Il tempo è una narrazione, non natura ma storia, e più precisamente storia dell’alleanza.
Le nostre festività, Pesach Shavu’ot e Sukkot, come è noto, hanno una doppia logica, da una parte appartengono al tempo ciclico, celebrano le stagioni dell’anno e i momenti fondamentali del calendario agricolo, ma dall’altra parte fanno parte del tempo storico, commemorano eventi storici. Il conteggio dell’omer a sua volta ha due dimensioni temporali. Da una parte appartiene al tempo ciclico, il tempo della maturazione del grano, il tempo in cui gli agricoltori devono ringraziare in modo particolare perché la terra ha dato i propri prodotti. Ogni giorno del conteggio è un atto religioso separato. Ogni giorno porta i suoi frutti e per questo è necessario ringraziare. Ma l’omer appartiene anche alla dimensione del tempo storico. Rappresenta il viaggio dall’Egitto al Sinai, dall’esodo alla rivelazione. Si tratta di un passaggio assolutamente cruciale. Berlin parlava di due tipi di libertà, quella negativa, la libertà di fare ciò che ci piace, e quella positiva, la libertà di fare ciò che dobbiamo fare. Questi concetti in ebraico sono espressi da due termini differenti, chofesh e cherut. Chofesh è la libertà dello schiavo liberato, che non ha più nessuno che gli dica ciò che deve fare ed è padrone del suo tempo. Da questa libertà non può venire però una società libera. Se ciascuno fa quello che vuole, saranno veramente liberi i ricchi, e non i poveri, i potenti, e non i deboli. Per fondare una società libera è necessario avere moderazione ed uno stato di diritto. E questo è ciò che gli ebrei ricevettero sul Sinai.
I 49 giorni sono in questa visione una sequenza storica ininterrotta: non si può passare direttamente da una tirannia ad una società libera, come abbiamo visto tante volte tristemente negli ultimi anni in tante parti del mondo. Il tempo è un viaggio, una sequenza di eventi. Saltare una tappa vuol dire correre il pericolo di perdere tutto.
Nelle nostre festività e nello stesso conteggio dell’omer sono presenti entrambe le forme di tempo. C’è la voce di D. nella natura e la Sua chiamata nella storia, la Sua parola per sempre e quella per adesso. La prima è la voce del sacerdote, la seconda quella del profeta. La prima trova la sua manifestazione nella halakhah, la legge, la seconda nella aggadah, la riflessione sulla nostra storia e il nostro destino. D. non è esclusivamente in una o nell’altra, ma nella loro dialettica e interazione. Alcuni aspetti nella vita umana non cambiano, altri sì. La grandezza dei profeti risiede nella loro capacità di ascoltare, sotto il rumore degli eventi, la musica dell’alleanza,di dare alla storia la sua forma e il senso di un lungo, lento viaggio verso la redenzione. Il viaggio è stato lungo e accidentato.
L’abolizione della schiavitù, il riconoscimento dei diritti umani, la costruzione di una società sempre più equa, hanno richiesto secoli, millenni. Ma tutto questo è avvenuto perché con il tempo gli uomini hanno imparato a vedere le disuguaglianze e le ingiustizie come qualcosa di differente dall’inevitabile. Il tempo non è una serie di ricorrenze eterne in cui nulla cambia. Il tempo ciclico è profondamente conservativo, quello storico è trasformativo. Entrambi sono presenti in un certo modo nell’omer.
Da un particolare apparentemente secondario, analizzandolo, emerge molto sulla concezione filosofica e politica dell’ebraismo, sul viaggio verso la formazione di una società libera e sul tempo come arena del cambiamento. Con un atto libero D. ha creato un essere in grado di esercitare la propria libertà, ma non è sufficiente. Dobbiamo creare le strutture necessarie per poterla esercitare e renderla disponibile per tutti.
Ogni anno compiamo nuovamente questo viaggio, perché se non siamo consapevoli della libertà e di quanto ci è richiesto, rischiamo di perderla. D. è sia nella natura che nella storia, e questo è uno dei contributi principali che l’ebraismo ha dato al mondo.