Ya’aqov, di ritorno a casa dopo 22 anni di assenza, viene a conoscenza del fatto che ‘Esav gli sta venendo incontro con un contingente di 400 uomini. E’ terrorizzato, sapendo che ‘Esav aspettava solo la morte di Ytzchaq per vendicarsi del fratello. Un dispiegamento di forze così grande non poteva nascondere altro che intenzioni bellicose. Per questo Ya’aqov si prepara a tre eventualità: a) alla guerra, dividendo in due l’accampamento, di modo tale che anche se ‘Esav ne avesse colpito uno, l’altro sarebbe stato risparmiato; b) alla preghiera, chiedendo ad H. di proteggerlo; c) alla riconciliazione, inviando dei doni ad ‘Esav con l’intento di sedare la sua rabbia.
Una frase in particolare stimolò la curiosità dei chakhamim (Bereshit 32,8): “Giacobbe, molto impaurito ed angustiato…”. Una delle due espressioni è evidentemente superflua; è pleonastico dire che chi ha paura è afflitto, quindi il verso intende insegnarci qualcosa: scrive Rashì: “aveva molta paura, di essere ucciso; era afflitto, perché temeva di uccidere”. Ya’aqov aveva una paura fisica, naturale, che era quella di morire. Ma aveva anche una sofferenza di ordine morale. Temeva di essere costretto ad uccidere il fratello. Ma questo, dicono i commentatori, è sconcertante. E’ molto chiaro infatti che secondo la halakhah è concesso uccidere chi intende ucciderti (Sanhedrin 72a). Questo è uno dei principi fondamentali dell’autodifesa. Perché allora avere paura? Se avesse ucciso ‘Esav per avere salva la vita, avrebbe semplicemente salvaguardato i propri diritti! Spiega pertanto Siftè Chakhamim che Ya’aqov aveva un altro timore, quello di uccidere qualche uomo di ‘Esav impegnato nella battaglia, quando avrebbe potuto semplicemente neutralizzarlo ferendolo. L’autodifesa non è un’autorizzazione ad uccidere senza alcun limite. Si deve far uso della forza minima indispensabile per salvarsi. Se, è così, i cosiddetti “danni collaterali” propri della guerra, l’uccisione di civili innocenti anche in un’operazione di autodifesa, non è consentita indiscriminatamente dalla halakhah. I Chakhamim hanno visto qualcosa di simile all’inizio del cap. 15 di Bereshit, quando H. dice ad Avraham di non temere perché è il suo scudo. Perché mai Avraham avrebbe dovuto aver paura? In fondo, aveva appena vinto una bataglia. Dice il Midrash Tanchumà, Avraham aveva paura di avere trasgredito alle leggi noachidi, che vietano lo spargimento di sangue, ed in battaglia Avraham aveva ucciso. Il Midrash Rabba (Bereshit Rabbah 44,4) è più preciso: Avraham temeva di avere ucciso qualche giusto o timoroso di D. Per rispondere a queste difficoltà si deve prendere in prestito dalla filosofia il concetto di dilemma morale.
Non si tratta di un semplice problema morale – come è giusto comportarsi in questa circostanza? -, ma di casi in cui si deve scegliere fra giusto e giusto, fra sbagliato e sbagliato, quando dobbiamo comportarci in un modo che in altre circostanze non avremmo considerato. Il Talmud Yerushalmì in massekhet Terumot narra di un fuggitivo dai romani che si rifugiò a Lod. I romani circondarono la città intimando di consegnarlo, o avrebbero ucciso tutti. R. Yehoshua’ ben Levì convinse il fuggitivo a cedere. Si tratta di un caso molto complesso, e R. Yehoshua’ ben Levì si comportò seguendo la halakhah, ma nonostante ciò il profeta Eliahu lo apostrofò chiedendogli Wezù mishnat ha-chassidim? – è questo il modo di comportarsi dei pii? Sartre, parlando di decisioni del genere, riporta l’esempio di un francese che durante la guerra aveva una madre anziana e malata. Avrebbe dovuto occuparsi di lei, o unirsi alla resistenza? Questi dilemmi attanagliano in particolare le figure pubbliche, che in nome del bene pubblico, devono prendere delle decisioni che possono penalizzare dolorosamente dei singoli individui. Tutto questo fa parte dell’universo morale. Anche la persona più retta, dopo aver fatto la scelta giusta, proverà a volte del rammarico. Uno degli esempi più prodondi è riportato nel testo Il settimo giorno, che racconta il dibattito sorto in seno alla società israeliana in seguito alla guerra dei sei giorni. Nonostante la netta vittoria, per molti era difficile scrollarsi di dosso la pena per avere ucciso per difendere la patria. Questo clima era stato sperimentato già migliaia di anni prima, quando Ya’aqov provò la paura fisica della sconfitta, ma al contempo l’angoscia morale derivante dalla vittoria. Chi è in grado di provare questi sentimenti può difendere il proprio corpo senza compromettere la propria anima.