Due volte nella Parashat Yitrò si parla del divieto delle immagini. La prima volta è nel Secondo Comandamento: “non farti statua, né immagine alcuna” (Shemot 20,4). Nell’interpretazione tradizionale il riferimento è qui alla fabbricazione di qualsiasi immagine a scopo religioso, sebbene poi chi l’abbia fabbricata si astenga dal venerarla: la fabbricazione è già di per sé proibita, per evitare l’inciampo (Maimonide, Hil. ‘Avodah Zarah 3,9; Sefer ha-Chinnukh, prec. 27). Ma c’è un ulteriore versetto al termine dei Dieci Comandamenti che dice: “Non farete con Me divinità d’argento e divinità d’oro, non le farete per voi” (v. 23).
Questo secondo versetto aggiunge al primo il divieto di riprodurre l’immagine dell’uomo in forma tridimensionale per qualsiasi scopo, anche per bellezza (“per voi”): per non correre il rischio a sua volta di destinarla alla venerazione. Il Sefer ha-Chinnukh (prec. 39) spiega che come non abbiamo il permesso di ritrarre D. in forma umana, così non siamo autorizzati a ritrarre l’uomo in scultura, dal momento che l’uomo è stato creato a immagine Divina. Tzelem Eloqim si riferisce solo alle doti intellettuali e spirituali, non ovviamente a caratteristiche fisiche. Si ritiene inoltre che l’immagine dell’uomo a tre dimensioni possa costituire una tentazione all’idolatria.
Se l’immagine umana è prodotta 1) per bellezza (noy) e 2) su due dimensioni soltanto è permessa (‘Avodah Zarah 43b; Maimonide, loc.cit., 3,10; Shulchan ‘Arukh, Yoreh De’ah 141,4). Pertanto è ammesso il ritratto fotografico della persona (Rav ‘Ovadyah Yossef, Resp. Yechawweh Da’at, 3, 63; cfr. Ben Ish Chay, anno II, P. Mas’è, n. 9). Ma secondo lo Shulchan ‘Arukh (141,7 sulla base del Rosh a ‘Avodah Zarah cap.3, n. 5) anche su tre dimensioni il divieto vale soltanto se la figura umana è riprodotta interamente e in modo permanente. E’ questa una motivazione per permettere senza alcun timore il gioco delle bambole, che comunque nulla ha a che vedere con l’idolatria (Resp. Yechawweh Da’at 3,64). Come per ogni divieto della Torah, tuttavia, in quei casi in cui ci è vietata la fabbricazione è proibito anche chiedere ai non ebrei di fabbricare le immagini per noi (Siftè Kohen allo Shulchan ‘Arukh, n. 23). Ciò finché l’iniziativa è nostra. E’ stata allora posta la questione seguente. Nel dicembre 1964 una cittadina americana voleva erigere un monumento al Presidente John Kennedy, assassinato pochi mesi prima e il Consiglio Comunale richiese alla locale Comunità Ebraica di partecipare al progetto facendosi carico, al pari di altri enti, di parte delle spese. Trattandosi di un’immagine a tre dimensioni, completa e permanente, il Rabbino del luogo si rivolse a Rav Moshe Feinstein per avere l’autorizzazione halakhica.
Rav Feinstein (Resp. Iggherot Moshe, Yoreh De’ah, 2, 54) scrive a sua volta che il divieto di scolpire monumenti a esseri umani è rivolto solo agli ebrei. Abbiamo anche la proibizione di mantenere quelle sculture che i non ebrei avrebbero eseguito per noi. Ma se l’iniziativa è presa dai non ebrei per se stessi senza fini religiosi, non abbiamo alcun dovere di impedirlo. Quanto a partecipare indirettamente alle spese? Si potrebbe ancora ragionare che essendo a noi proibito comunque realizzare la statua anche per regalarla a loro, la partecipazione alle spese da parte nostra non sarebbe da meno e rientrerebbe pur sempre nella proibizione (cfr. Tos. a Bavà Metzi’à 90a s.v. chassom). Rav Feinstein risponde che certamente il problema non si pone nel momento in cui i non ebrei hanno già avviato il progetto per conto loro. In più sussistono due ulteriori esigenze a vantaggio della facilitazione: 1) mi-penè darkhè shalom (“pro bono pacis”), ovvero lo scrupolo di mantenere buone relazioni con il mondo esterno e 2) kevod ha-malkhut, “la dignità del regno” e il rispetto dovuto all’autorità politica in quanto tale. Rav Feinstein conclude che pertanto il sostegno economico alla creazione del monumento poteva essere data. Unico piccolo accorgimento suggerito dal Rav: che la Comunità nel fornire la propria donazione sottoscrivesse una dichiarazione in cui rinunciava a ogni prerogativa economica sul monumento stesso una volta realizzato. In altre parole: qualora il Comune dovesse un giorno decidere di alienare la statua, la Comunità recede a priori da ogni rivendicazione sul guadagno che potrebbe spettarle in quanto co-finanziatrice dell’impresa di costruzione.
Rimanendo sul tema dei rapporti con lo Stato, ma tornando al divieto delle immagini a scopo religioso e ai Responsa del Rav ‘Ovadyah Yossef, viene posta al Rav la questione delle onorificenze. Un ebreo acquisisce meriti civili e lo Stato delibera di conferirgli una medaglia con l’effigie di una croce. Ha costui il permesso di indossarla nelle manifestazioni ufficiali, o anche soltanto di tenerla in casa sua? Senza entrare nel merito del problema se le religioni che oggi praticano il culto delle immagini siano da considerarsi idolatria o meno, il Rav risponde che l’immagine riprodotta sulla medaglia costituisce un problema halakhico solo nella misura in cui il simbolo religioso è destinato a essere venerato: in altre parole, se ci si genuflette davanti a esso oppure no (Remà a Shulchan ‘Arukh, Yoreh De’ah 151,1). Dal momento che la medaglia non ha questo fine ed è stata creata al solo scopo di onorare chi la porta, è permesso a costui indossarla (cfr. anche Ben Ish Chay, loc. cit., n. 3).
Una fonte del Rav ‘Ovadyah è nel parere altrettanto facilitante di due Decisori italiani. Rav Laudadio Sacerdote (R. Ishma’el ha-Kohen da Modena, m. 1810, Resp. Zera’ Emet, Yoreh De’ah, n. 45) che permette ai negozianti ebrei di fare commercio di questi oggetti e Rav Isacco Raffaele Tedeschi (R. Itzchaq Refael Ashkenazì di Ancona, m. 1908, Resp. Waya’an Itzchaq, p. 166). Quest’ultimo sostiene che i simboli religiosi sono introdotti nelle insegne cavalleresche con forma approssimativa e a scopo di ricordo e bellezza più che di culto vero e proprio, e pertanto sia permesso indossarli, soprattutto in quelle occasioni in cui mostrarsi senza provocherebbe imbarazzo nell’autorità non ebraica che si aspetta l’esibizione dell’onorificenza. E’ però opportuno toglierla non appena possibile e in particolare entrando nella Sinagoga. Il Rav ‘Ovadyah conclude riportando il caso del suo predecessore, il Rishon le-Tziyon R. Ya’aqov Meir z.l. che aveva ricevuto una medaglia di questo tenore: non esitava a portarla al collo e persino a farsi fotografare con essa tutte le volte che si recava a corte (Resp. Yechawweh Da’at 3, 65).
Un ulteriore curioso quesito è degno di nota a questo proposito. E’ permesso scrivere il segno + (più) in matematica? Rav Chayim David ha-Levy (Resp. ‘Asseh lekhà Rav 5,21) risponde positivamente, dal momento che il simbolo non ha alcun legame con il culto. Egli aggiunge che per la stessa ragione nessuno ha mai sollevato alcun dubbio sull’uso di monete che rechino lo stesso tipo di immagine ancorché si tratti, almeno in quel caso, di un’immagine a sbalzo (cfr. Chidà di Livorno, Birkè Yossef a Yoreh De’ah 141, n. 30; ma v. Resp. Ya’avetz 1,170 in Pitchè Teshuvah a Yoreh De’ah 141, n. 10).