Ouri Cherki, “Be-’od Mo’ed”, Tishrì
Perché i Dieci Giorni Penitenziali cadono proprio nella stagione autunnale? Perché in autunno c’è la tendenza naturale a vedere il mondo come qualcosa di vano, caduco, che scompare. Perciò si è chiamati a fare Teshuvah proprio in questo periodo.
Ci sono tre modi diversi per fare Teshuvah.
Teshuvah per amore (ahavah). E’ caratteristica dei giusti. E’ quella di Rosh ha-Shanah in cui non si ricordano i peccati, ma si proclama D. re del Mondo: avendo l’uomo un punto di riferimento, abbandona le trasgressioni con facilità. Rosh ha-Shanah è Itzchaq, tutto amore fino al sacrificio. Accettando il sacrificio Itzchaq compie il tiqqun dell’omicidio (shefikhut damim). Rosh ha-Shanah è l’anniversario della Creazione.
Teshuvah per timore (yir’ah). E’ caratteristica dei medi. E’ quella di Yom Kippur: il timore è mitigato dall’amore già conosciuto a Rosh ha-Shanah. Yom Kippur è Avraham, di cui è detto “temente di D.” (Bereshit 22,12). Avraham compie il tiqqun dell’idolatria (‘avodah zarah): è il significato del capro espiatorio (sa’ir la-‘azazel) di Yom Kippur, in cui la dualità di bene e male viene soggiogata all’autorità dell’Uno che “foraggia” ‘Azazel. Perciò i Maestri affermano che il Satan (השטן 364) ha potere su tutti i giorni dell’anno eccetto Yom Kippur. Ciò basta ad affermare che non esiste una forza del male indipendente nel mondo. A Yom Kippur Moshe è sceso dal monte con le Seconde Tavole: simboleggia la Rivelazione.
Teshuvah per gioia (simchah). E’ caratteristica dei malvagi, che sono tali perché tristi. E’ quella di Sukkot. Sukkot è Ya’aqov, di cui è detto: “E Esaù tornò in quel giorno per la sua via a Se’ir (cfr. sa’ir la-‘azazel), mentre Ya’aqov si direse a Sukkot. Si costruì una casa, mentre per il suo bestiame fece delle capanne (sukkot): perciò chiamò quel luogo con il nome di Sukkot” (Bereshit 33, 16-17). Ya’aqov compie il tiqqun delle trasgressioni di ordine sessuale (ghilluy ‘arayot). Per quale motivo sono così frequenti queste trasgressioni? Perché manca la gioia. La tendenza a seguire l’istinto deriva dall’esigenza di un appagamento immediato, in mancanza di qualcosa di più profondo. Nel momento in cui l’uomo è felice è più facile correggere e contenere l’istinto. Nella festa di Sukkot avveniva nel Bet ha-Miqdash la “gioia dell’attingimento dell’acqua” (simchat bet ha-shoevah) di cui la Mishnah dice che “chi non ha visto la gioia dell’attingimento dell’acqua non ha mai visto gioia (simchah) in vita sua” (Sukkah 5, 1). La festa aveva luogo “nel cortile delle donne”, il luogo che più simboleggia il contenimento dell’istinto e vi compiva “un grande tiqqun” (in tutti i sensi): si predisponeva una mechitzah in maniera tale che l’istinto non prevalesse, come è facile che accada, soprattutto nei momenti di festa (a quanto pare in altre occasioni nel Bet ha-Miqdash non c’era necessità di mechitzah, perché l’autorità del luogo conteneva l’istinto). In tal senso Sukkot rappresenta il tempo futuro, legato alla Redenzione e al tiqqun ‘olam. Il Talmud (‘Avodah Zarah 3b) racconta che in futuro le nazioni del mondo ancora una volta domanderanno di accettare la Torah di Israele e di godere della sua ricompensa. Il S.B. li mette alla prova con una Mitzwah semplice: la Mitzwah della Sukkah, “andate e fabbricatevela”. Perché è una Mitzwah semplice? Perché non costa denaro, nel senso che la si ottiene mediante gli scarti della produzione agricola. Perché proprio la Sukkah? Perché essa è simbolo di pace. La Sukkah ha limiti verticali, ma non orizzontali, perché idealmente una sola Sukkah può essere grande abbastanza da contenere l’intero popolo ebraico. Inoltre si può uscire d’obbligo anche entrando in una Sukkah appartenente ad altri. Riferita alle altre nazioni, la “prova” della Sukkah consiste nel verificare se sono in grado di vivere in pace o meno. Il Talmud racconta che “ogni nazione corse a fabbricarsi la propria Sukkah. E allora il S.B. fece insorgere un caldo estivo torrido, tanto che essi la abbandonarono con disprezzo”. Anche gli Ebrei devono talvolta confrontarsi con il caldo, lasciare la loro Sukkah e combattere. Ma lo fanno a malincuore. Altri lo fanno con disprezzo. Quando si dedicano alla guerra lo fanno con un senso di liberazione. Alla fine dei giorni la prova sarà proprio sulla capacità di preservare la pace.
“Ma ora non rattristatevi e non adiratevi per il fatto di avermi venduto qui (in Egitto), poiché è per il (nostro) sostentamento che D. mi ha mandato davanti a voi” (Bereshit 45,5). Il Or ha-Chayim rileva da questo versetto che due sono le minacce ad una relazione pacifica fra fratelli. La prima è il ‘itzavon, la tristezza. Nel caso specifico essa avrebbe potuto essere una conseguenza del rimorso dei fratelli per aver venduto Yossef in Egitto. La seconda è conseguenza diretta della prima ed è il charon af, o ka’as, l’ira. Nella fattispecie la vendita, lungi dall’aver risolto i problemi, aveva in realtà complicato la situazione ancora di più al punto di poter provocare l’ira nei suoi protagonisti per non averla saputa gestire. Il ‘itzavon è una delle maledizioni dei primi uomini dopo il Chet Adam ha-Rishon. Nel Talmud Berakhot 33 la tristezza è elencata fra le cattive qualità che impediscono l’approccio corretto alla Tefillah sullo stesso piano, per intenderci, della qallut rosh (frivolezza). Le tre parole ‘itzavon e charon af hanno in comune il fatto che le loro iniziali sono tutte gutturali, espressione fonica di uno scontento interiore profondo. E’ ancora il Pele Yo’etz (s.v. ‘atzvut) a completare il quadro, affrontando l’argomento in modo più generale. Egli scrive non solo che la tristezza è un serio ostacolo alle relazioni sociali, ma porta all’ira che le compromette definitivamente. Come affrontare in particolare la tristezza, che è la causa di tutti i mali? Egli scrive che la malinconia assale soprattutto i ricchi, di Motzaè Shabbat e al mattino appena alzati, prima di aver bevuto il caffè e fumato. Incidentalmente, già nel Settecento il problema era avvertito. Il Chidà ammette che ne era affetto: nella sua biografia la chiama shechorah (la “nera”) o marah (la “amara”). La soluzione migliore secondo il Pele Yo’etz è prendere in mano un libro di Torah, particolarmente di Midrash, e immergersi nello studio, perché Piqqudè H. messammeché lev.
R. Moshe Chayim Luzzatto (Ramchal, in Messillat Yesharim, cap. 1) scrive: “…Ammesso pure che scopo ultimo della creazione dell’uomo fossero le necessità di questo mondo, per quale ragione o bisogno gli venne inspirata un’anima così preziosa ed elevata, superiore a quella degli stessi angeli, tanto più che essa non trova soddisfazione alcuna nei piaceri terreni? Ci hanno insegnato i nostri Maestri: “E anche l’anima non è soddisfatta” (Qo. 6,7). ‘A cosa è simile questo? E’ simile a un borghese di città, che ha sposato la figlia di un re. Se anche il suo sposo le offrisse tutto ciò che esiste nel mondo, nulla sarebbe di valore per lei, in quanto è figlia di un re. Lo stesso capita all’anima. Se anche le venissero offerte tutte le delizie del mondo, per lei non sarebbero nulla. Perché? Perché essa viene da un mondo superiore’” (Qohelet Rabbà 6,7 – trad. Giuliani). L’uomo non è stato creato per la sua condizione in questo mondo. Ramchal porta di ciò diverse prove. La prima è l’esistenza della sofferenza. La seconda è la relativa brevità della vita umana. Ma se anche in futuro questi problemi dovessero risolversi e la vita migliorare sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo, resta la “sete metafisica”, la perenne insoddisfazione dell’anima per i beni materiali, troppo al di sotto delle proprie aspettative, e la ricerca di una dimensione superiore. Ciò è fonte di depressione, che tanto più si alimenta quanto maggiori sono le possibilità materiali dell’individuo. Non sarà dunque lo sviluppo scientifico e tecnologico a soccorrerci: tutt’altro!
Rav Nachman di Bratslav (“Le emanazioni dell’anima”, Lulav, Milano 2000) scrive: “Quando i giorni trascorrono nella felicità, è facile trovare qualche momento per esprimere i propri pensieri dinanzi a D. con cuore contrito. Invece, quando si è depressi, meditare e dialogare con lui è terribilmente faticoso (Sichot ha-Ran 20, a p. 91). La contrizione non ha niente a che fare con la tristezza e la depressione. la depressione è un luogo del Maligno ed è odiata da D., che invece considera prezioso un cuore contrito. Magari si potesse ogni giorno avere il cuore mortificato dalla contrizione, tuttavia per la maggior parte di noi questo atteggiamento degenerebbe in depressione. Si deve allora mettere da parte qualche momento quotidiano da dedicare al pentimento, riservando questo spazio della giornata alla meditazione e trascorrendone il resto nella gioia”. (Sichot ha-Ran 41, a p. 93).
Rav Kook (in Orot ha-Teshuvah) scrive: “Qualsiasi tristezza è conseguenza della trasgressione e il pentimento illumina l’anima e trasforma la tristezza in gioia” (14,7). “E se ci si interroga sull’origine della tristezza si deve dire che essa proviene dal flusso delle cattive azioni, attitudini e opinioni sull’anima. Essa ne assapora con il suo senso penetrante l’amarezza e si ritrae, in preda alla paura e alla tristezza. Ma quando appare la luce del pentimento e il desiderio del bene prevale nei suoi tratti originari, un canale di dolcezza e di gioia si apre e l’anima succhia dal torrente dell’Eden. E quando l’abilità pratica si impadronisce della quintessenza di queste piacevoli sensazioni, viene alla luce l’etica pura superiore che con la sua grazia rende la vita un successo” (14,6).
R. Chayim Cohen (il “lattaio”, in Talelè Chayim ‘ai Chagghè Tishrì, p. 331 sgg.) scrive: La gioia traeva origine dalla forza della soppressione dell’istinto idolatra che faceva avvertire loro un grande senso di protezione, come si prova nella Sukkah. L’idolatria simboleggia anzitutto la dimenticanza del Nome del Cielo, per cui l’uomo si affida alle creature pensando che si reggano su forze proprie. La Mitzwah della Sukkah ci ricorda, per contro, che il mondo è precario e dunque elimina l’idolatria alla sua fonte. …Se da un lato l’idea di precarietà “fa disperare” l’uomo della sua personale forza, dall’altro lo unisce a H. E quando l’uomo è consapevole di questa sua unione si riempie di gioia e di benedizione. La tristezza, invece, è il risultato della vana confidenza dell’uomo in se stesso. Non è un caso che in ebraico uno dei termini per definire gli idoli è ‘atzabbim (cfr. Tehillim 115,4: ‘atzabbeyhem kessef we-zahav), dalla stessa radice di ‘atzvut =”tristezza”. L’idolatria, si è detto, è anzitutto perdita del contatto con H. che genera tristezza. La Sukkah è il tiqqùn (“riparazione” mistica) della ‘avodah zarah (strettamente legata al ghilluy ‘arayot!) e per questo è fonte di “grande gioia”.